Tashi Dawa, Trilogia dell'illusione, Giovanni Tranchida ed., Milano 1997. (Traduzione dal cinese e postfazione di Emanuela Rossi), pp.100, Lire 20.000.
Nell'ampio panorama che ci viene offerto dalla piccola editoria italiana sulla narrativa contemporanea straniera, si torna a parlare del Tibet. L'editore milanese Tranchida, ripubblica tre anni dopo, e questa volta in traduzione dall'originale, tre racconti di un giovane scrittore
sino-tibetano di nome Tashi Dawa.
Di questa "Trilogia dell'illusione" fanno parte "La luce dell'abisso"
(Xuanyan zhi guang), comparso per la prima volta nella rivista cinese Shouhuo (Il Raccolto) 1998/6,
"L'invito del secolo" (Shiji zhi yao), comparso per la prima volta nella rivista
Zhongshan 1988/2 e "Lo splendore dei cavalli del vento" (Fengma zhi
yao), comparso per la prima volta nella rivista Xizang wenxue (Letteratura tibetana) 1987/9.
La prima edizione in lingua occidentale di questi racconti è del 1990, a cura della casa editrice francese Arles, Actes Sud.
È quindi meritevole che un editore sollecitato dall'esperto, in questo caso la neolaureata in Lingue e letterature straniere Emanuela Rossi, che ha studiato il cinese, abbia accettato di ristampare lo stesso lavoro, per offrire ai suoi lettori un prodotto migliore.
Purtroppo qui in Italia, almeno per la letteratura cinese contemporanea, tutte le opere tradotte dal cinese sono sempre state già tradotte almeno sei mesi prima da editori francesi o stranieri in genere, togliendo gran parte di quel merito che invece spetterebbe ad alcuni nostri bravi traduttori se ciò non si verificasse.
La scelta dell'opera di questo giovane scrittore che è nato nel 1959, da padre tibetano e da madre cinese (Sichuan), per illustrare il Tibet di oggi, ci sembra del tutto indovinata. Come avverte la curatrice nella sua postfazione, egli ha trascorso l'infanzia spostandosi tra Cina e Tibet, vivendo fin da bambino le contraddizioni tra civiltà moderna e tutela della tradizione. Si è poi stabilito a Lhasa, dove risiede dall'età di quindici anni.
Come la maggioranza degli autori tibetani della sua generazione, fa uso della lingua cinese come mezzo espressivo letterario. Non certo per scelta, quanto per il fatto che la lingua tibetana è gradualmente decaduta dopo l'invasione cinese, determinando forti ripercussioni su tutta la millenaria cultura di questo paese. Va osservato tuttavia che l'uso della lingua cinese agevola la circolazione dei propri scritti fuori dei confini tibetani.
I critici cinesi lo includono tra gli "scrittori delle minoranze", poichè al centro della sua narrazione dominano temi quali la ricerca delle radici, lo smarrimento per la perdita dell' identità e degli antichi valori tradizionali, temi cari a tutto un filone della letteratura cinese post maoista
(xungen wenxue).
Ma a partire dalla prima metà degli anni ottanta, in coincidenza con l'apertura della Cina verso il mondo occidentale anche sul piano culturale, l'A. modifica lo stile e il contenuto della sua opera. Abbandona infatti la sfera realistica per abbracciare il realismo magico. Si trasferisce in una dimensione senza tempo dove la concatenazione logica passato
- presente - futuro è prodigiosamente sovvertita. Sono evidenti in molte opere di questo suo secondo periodo, l'influenza della letteratura
ispano-americana, la cui diffusione in Cina è stata molto rilevante proprio nell'ultimo decennio. Nomi come Borges, García Márquez, Neruda e tanti altri, sono stati tutti tradotti e hanno avuto una sorprendente accoglienza, specie dal pubblico giovanile.
Non deve sorprendere in fondo constatare che tra culture così distanti ci siano delle affinità: "entrambe hanno in comune una concezione della realtà che non è mai separata dal soprannaturale e dalla magia" e Tashi Dawa ha il merito di averlo scoperto.
Molto intenso ed emblematico il racconto centrale del libro: un aquilone che ondeggia nel cielo e vola via lontano, dopo che la sua cordicella si è spezzata, è il pretesto che si offre al protagonista per intraprendere un lungo viaggio nei territori del tempo e dell'anima.
Dall'antico villaggio natale, sperduto tra le montagne, a luoghi indefinibili dallo scenario inquietante, dove si intrecciano vicende passate e future in una atmosfera magica che però allegoricamente vuole dipingere la realtà attuale del Tibet, il lungo viaggio si concluderà in una buia cella, dalla cui finestra il protagonista rivedrà lo stesso aquilone, ripreso da vecchie e bambini che nella calca lo distruggeranno.
Il libro, di agile lettura per la buona grafica, oltre che dalla Postfazione di cui abbiamo già parlato, è corredato da un utile Glossario dei nomi tibetani. La traduzione dei racconti curata da E. Rossi, pur risultando molto fedele al testo originale, ha una buona forma italiana. Ci complimentiamo con lei per aver subito messo a frutto il lavoro della sua tesi di laurea. Un solo suggerimento, mantenere i nomi dei personaggi non in trascrizione dal cinese ma dal tibetano sicuramente sarebbe più appropriato.
Patrizia Dadò
MONDO CINESE N. 100, GENNAIO 1999