Il 19 febbraio scorso Deng Xiaoping, il Piccolo Timoniere, è morto all'età di 92 anni. Tracciare un quadro del ruolo svolto da quest'uomo nel condurre la Cina attraverso un pezzo di storia che l'ha vista passare da paese del terzo mondo a undicesima potenza commerciale è un compito che, di diritto, va lasciato ai biografi della futura dinastia cinese. Chiedersi invece quale Cina ha lasciato Deng dietro di sé e, soprattutto, nelle mani di chi il Piccolo Timoniere ha messo il destino del suo paese, è una domanda che ci riguarda direttamente: è un problema le cui incognite coinvolgeranno l'intero assetto politico internazionale del prossimo millennio.
La Cina delle riforme denghiste ha costituito un vero e proprio fenomeno internazionale: uno sviluppo economico che dal 1980 al 1994 ha viaggiato su una media annua del 9,5% con punte del 14%, creando di fatto l'unico mercato realmente in crescita in tutto il pianeta.
Gran parte del successo di questa sfrenata corsa verso lo sviluppo trovava le sue ragioni nella straordinaria capacità politica di Deng. Una capacità che si esercitava soprattutto nella costante ricerca del punto di unione fra le diverse anime che componevano il vertice del potere in Cina. Sull'altare del compromesso Deng ha sacrificato alcuni dei suoi migliori collaboratori, sapendo che quello era il prezzo per il successo delle riforme. Quando l'anima conservatrice e ortodossa del partito denunciava i rischi e i limiti di una eccessiva velocizzazione del processo di riforma, Deng rallentava e offriva ai conservatori una testa, quando l'unità di intenti era ricomposta ripartiva. I successi di questa politica sono sotto gli occhi di tutti. Così come le sue conseguenze: prima il licenziamento di Hu Yaobang, poi quello di Zhao Ziyang, infine la strage di piazza Tian’anmen. Ognuno di questi avvenimenti è stato in realtà solo una quinta dietro la quale si svolgeva il vero scontro: quello fra l'ala riformista e l'ala conservatrice del partito, quello fra Deng Xiaoping e Chen Yun. Deng è passato indenne attraverso tutte queste prove, altri hanno pagato pegno per le scelte politiche del Piccolo Timoniere. Slegando il giudizio da qualsivoglia condizionamento emotivo e assumendo la "ragion di Stato" come criterio di valutazione, si può dire che questo gioco di equilibri ha comunque permesso a Deng di non perdere mai il controllo totale sulla politica cinese e di rimanere, almeno fino al 1994, il vero deus ex machina di ogni decisione presa a Zhongnanhai. Quando nel 1993 Deng fece un giro nelle province del sud per ribadire la validità del suo progetto di un'economia socialista di mercato, i giornali cinesi pubblicarono la notizia usando due ideogrammi con i quali in passato si designavano i viaggi di ispezione dell'imperatore.
Ora l'imperatore è morto e la Cina deve decidere chi lo sostituirà. Non è un compito facile, perché nell'attuale composizione dell'agone politico cinese non vi è nessun singolo personaggio con la forza e il carisma sufficienti a colmare il vuoto politico lasciato da Deng. È una scelta da compiere rapidamente, vista la pressione esercitata da congiunture interne e internazionali affinché il paese confermi le scelte fatte sin qui e prosegua rapidamente lungo il sentiero delle riforme.
L'attuale configurazione degli equilibri politici all'interno del partito e del governo nasce sì dai risultati dello scontro fra conservatori e riformisti nell'estate dell'89, ma anche da un'analisi compiuta con largo anticipo sui tempi dallo stesso Deng Xiaoping circa il futuro assetto politico della Cina dopo la sua scomparsa. Jiang Zemin, Li Peng e Zhu Rongji (affiancati alla guida del paese da Qiao Shi e Li Ruihuan) non costituiscono certo un asse di ferro voluto da Deng per guidare definitivamente la Cina oltre il guado che la separa ancora dal resto del mondo. Sono solo il prodotto dell'unico punto di congiunzione praticabile fra le diverse anime del Pcc, in attesa che una di queste si attesti saldamente al comando sotto la guida di un nuovo imperatore in grado di sostituire Deng. Questa è stata l'ultima grande azione di compromesso compiuta da Deng finché è stato in grado di influenzare le decisioni: creare un'ennesima struttura fatta di complessi equilibri che garantissero alle riforme di sopravvivere fino al momento della comparsa sulla scena di un nuovo leader in grado di condurle in porto.
Osservando il quadro politico cinese dal 1993 (anno dell'ultimo significativo atto politico di Deng) a oggi si può trovare una certa rispondenza a questa analisi. La Cina in questo periodo ha sostanzialmente imposto una battuta d'arresto al processo di riforme. Si è passati da una fase di attiva formulazione politica in campo economico a una di gestione dell'esistente e di aggiustamento dei risultati acquisiti. Si è per esempio stabilito a tavolino di fissare la crescita annua del PIL al 9%, così da mantenere in una sorta di spinta inerziale la crescita del mercato senza però uscire dai parametri di definizione di "paese del terzo mondo" con tutti i benefici internazionali che questo comporta. Si è portata avanti un'efficace lotta all'inflazione (che aveva raggiunto punte del 35%), ma solo attraverso il calmieramento di alcuni prodotti di consumo e impedendo la liberalizzazione dei prezzi nel settore agricolo. È stata varata da poco una nuova legge che ridefinisce l'assetto del sistema bancario, ma di fatto questa non comporta che un riordino delle competenze delle banche pubbliche del paese (a tutt'oggi la Cina è dotata di una sola banca privata), principale indotto di finanziamento alle imprese di stato.
Non è stata formulata invece nessuna di quelle direttrici macroeconomiche di cui qualsiasi mercato dei capitali si dota per dare una risposta strutturale ai processi inflazionistici e alle richieste di garanzie dei capitali internazionali (cui pure la Cina deve i due terzi dei finanziamenti nelle esportazioni). Nessuna scelta realmente impegnativa è stata compiuta per venire incontro ai parametri, peraltro assai generosi nei confronti cinesi, necessari all'ingresso nella World Trade Organization che è nata lo scorso gennaio senza il contributo della Rpc. Né tantomeno sono venute dal governo indicazioni precise sulla privatizzazione del settore pubblico, vero tallone d'Achille dell'economia cinese.
La disoccupazione, frutto della bancarotta di una serie di imprese pubbliche e da un crescente fenomeno di inurbamento delle masse rurali, si aggira già intorno ai 100 milioni di persone. Nessuno però ha ancora messo mano alla concezione di un nuovo stato sociale che garantisca un passaggio morbido da una visione completamente assistenzialista dello Stato a una adatta a un sistema di mercato. L'attuazione di simili riforme strutturali è infatti realizzabile solo in presenza di una forte classe dirigente in grado di porsi alla guida del governo e di prendere decisioni radicali in campo economico. Decisioni che imporrebbero una svolta anche politica al paese. E questo ci riporta al problema della successione a Deng.
La troika attualmente al comando governa con un mandato a tempo. Già quando le condizioni di Deng hanno cominciato ad aggravarsi nel 1994, a Zhongnanhai venne fissato un programma di governo che avrebbe dovuto traghettare la Cina nel dopoDeng. Nessuna delle forze interne al Pcc aveva forza e uomini sufficienti a condurre in porto una rapida offensiva che la ponesse al comando. L'appuntamento con Hong Kong era troppo vicino perché la Cina potesse presentarcisi in preda a lotte intestine, senza quella stabilità che era elemento fondamentale per garantire ai capitali investiti nella colonia una transizione morbida.
No, qualsiasi scontro tra fronti di interesse contrapposti doveva attendere che il ritorno di Hong Kong fosse cosa fatta. Si decise che il momento più plausibile per una redde rationem all'interno del Pcc sarebbe stato il XV congresso del partito nell'autunno del 1997. Fino a quel momento Li Peng, Jiang Zemin e Zhu Rongji avrebbero fatto i facenti funzioni del potere politico, provvedendo al riassetto dei conti pubblici, alla lotta all'inflazione, a garantire il passaggio di Hong Kong e a gestire gli impegni quotidiani delle relazioni internazionali del paese. Fino al congresso Deng Xiaoping avrebbe dovuto continuare a essere l'icona dell'unità del paese: se nel frattempo fosse venuto meno, la sua morte sarebbe stata nascosta pena l'apertura di un periodo di crisi e di vuoto di potere che, oltre a non favorire gli interessi di nessuno, avrebbe gravemente danneggiato il paese. Era logicamente implicito che in questa fase di transizione tutte le parti in gioco avrebbero provveduto a un rafforzamento delle loro posizioni anche attraverso piccole guerre interne, ma queste non avrebbero mai dovuto minare il senso di unità del governo del paese nelle menti dei cinesi.
Da quel momento la politica cinese entrava in una sorta di vuoto temporale garantito dal silenzio dell'intero apparato dirigente.
L’icona di Deng doveva funzionare anche nel mantenere intatta l'immagine della Cina sul piano internazionale, e il senso della scelta fatta dai cinesi fu chiaro anche al mondo occidentale. Gli osservatori stranieri lasciarono la Cina immersa nel suo limbo limitandosi ogni tanto a porsi qualche domanda sulla salute del Piccolo Timoniere e recependo formalmente dal governo cinese le informazioni a riguardo che, sotto la forma di bollettini medici, sembravano dire al mondo: non preoccupatevi, va tutto bene, vi diremo noi se e quando Deng Xiaoping potrà morire. Era una sorta di gioco delle parti in cui il fatto che Deng fosse vivo o fosse già morto diventava di secondaria importanza per tutti. L’importante, anche per americani e europei, era il mantenimento della stabilità nell'area cinese. Troppi interessi erano in ballo. Una crisi di regime avrebbe danneggiato tutti.
A un certo punto qualcuno ha rotto l'incantesimo. Qualcuno all'interno dell'apparato forse, ma più probabilmente qualcuno all'esterno. Diversi segnali farebbero pensare che a lanciare il grido: "ll Re è nudo", annunciando al mondo la morte di Deng, sia stato in realtà un paese occidentale. Innanzitutto per il luogo cui è partito questo annuncio: Hong Kong, il cui ritorno alla Cina è stato elemento fondante del compromesso stipulato fra i quadri di Pechino. In secondo luogo per il mezzo scelto per l'annuncio. La notizia è comparsa sulle colonne del quotidiano Apple Daily, di proprietà di Jimmy Lai. Il signor Lai era abbastanza famoso nella comunità d'affari di Hong Kong negli anni' 80 come proprietario della linea di abbigliamento "Giordano". La sua azienda era estremamente attiva anche nel continente, almeno fino al giorno in cui Jimmy Lai decise che la causa degli studenti di piazza Tian’anmen meritava il suo sostegno e si mise a stampare magliette con slogan inneggianti alla democrazia. Il suo nome finì rapidamente nella lista nera di Pechino e i suoi negozi nella Rpc rischiarono il fallimento. Lai ha venduto tutta la sua quota di "Giordano" e si è buttato nell'editoria. Apple Daily è oggi un quotidiano tra i più venduti di Hong Kong. Le sue notizie spaziano dalla cronaca al pettegolezzo e alla moda. Una sezione del giornale, particolarmente curata dallo stesso Jimmy Lai, è dedicata ad attacchi diretti alla leadership cinese di Pechino. Certo è poco credibile pensare che Jimmy Lai abbia agito da solo. Se il giornale avesse annunciato la morte di Deng Xiaoping sparando a casaccio, ai cinesi sarebbe bastato smentire la notizia. No, Jimmy Lai sapeva che Deng era morto sul serio, e probabilmente poteva anche dimostrarlo. Ma una notizia del genere, soprattutto in un paese come la Cina, non può essere ascritta ai meriti del giornalista investigativo. C'è piuttosto da pensare all'operato dei servizi di un altro paese. Quale? Se accettiamo questa chiave di lettura le possibilità si riducono sostanzialmente a tre: Inghilterra, Stati Uniti, o un'azione comune di questi due paesi.
Alla fine di gennaio Tung Cheehwa, futuro chiefexecutive di Hong Kong, avallava una serie di proposte direttamente formulate da Pechino per una completa rivisitazione delle leggi di tutela delle libertà politiche e di stampa della colonia con l'aperto obiettivo di ridimensionarne la portata. Questo fatto ha estremamente allarmato la diplomazia inglese, riaprendo le ferite di uno scontro che vede Cina e Inghilterra fronteggiarsi dal 1984 sulla questione di Hong Kong. Ma ha allarmato ancor di più gli americani, che stanno studiando l'atteggiamento cinese a Hong Kong per valutarne gli sviluppi riguardo al problema Taiwan di cui si sono impegnati a difendere la libertà anche con le portaerei. Il recente acquisto cinese di due distruttori di classe Sovremenny dai russi (con a bordo missili Sunburn disegnati per colpire le navi più importanti della 7a flotta americana del Pacifico) non deve essere stato letto come un segnale distensivo da parte americana. Negli ultimi mesi, in numerose occasioni, rappresentanti del mondo politico statunitense hanno messo in guardia la Cina su questa corsa agli armamenti, affermando che la marina americana è pronta a schierarsi ancora lungo lo stretto di Taiwan al minimo accenno di aggressività da parte cinese. Bisogna poi ricordare anche che la questione cinese è da tempo punto di forte scontro in seno al Congresso fra repubblicani e democratici. I primi parlano di limitare la Cina nell'ambito delle relazioni economiche internazionali in modo da costringerla a scendere a patti sulla questione dei diritti umani e della proprietà intellettuale, i secondi sostengono invece che solo un maggior coinvolgimento della Cina nel processo di globalizzazione può garantire un aumento del valore democratico all'interno del paese. Se a questo contesto aggiungiamo il fatto che dopo soli venti giorni dall'annuncio della morte di Deng, CIA e FBI, entrambe saldamente nelle mani dei repubblicani, hanno montato lo scandalo dei finanziamenti cinesi alla Casa Bianca, la "gola profonda" di Jimmy Lai potrebbe cominciare ad avere dei connotati più precisi. Logicamente siamo nel puro ambito delle ipotesi.
Quale che sia la fonte usata dall'Apple Daily, la morte di Deng Xiaoping ha sorpreso i dirigenti cinesi a metà percorso. Tutta la lenta costruzione di alleanze, l'organigramma di nomi e cariche da presentare al congresso d'ottobre come "transizione morbida" tra la Cina di Deng e quella del 2000, ha subìto un forte scossone. Ora il problema della successione a Deng si ripropone in tutta la sua complessità. Che non si tratterà di un processo semplice e indolore lo dimostrano le bombe di marzo scoppiate a Pechino mentre l'Assemblea Nazionale era in riunione plenaria. L'attentato è stato rivendicato dall'Organizzazione per la libertà del Turkestan, ma le autorità di Pechino sono state sin dal principio restie a condurre le indagini solo in quella direzione. Forse quelle bombe non sono il frutto di un mirato calcolo politico, ma certo lanciano un messaggio di profonda insicurezza e minano l'unità stessa del paese. Il risultato di questo tipo di azioni è sempre stato, indotto o naturale che fosse, l'auspicio delle masse a un rapido ritorno dell'ordine per mano di uno Stato forte che si facesse garante di pace, sviluppo e stabilità economica. Il problema oggi in Cina è: quale Stato, e guidato da chi? Lasciando da parte la presa in esame dei componenti dei vari schieramenti, soffermiamoci un istante proprio sulla prima parte della domanda: quale Stato?
Quale rappresentatività politica si darà la Cina del dopo-Deng? È una risposta impossibile da dare in questo momento. Troppe variabili sono all'opera e troppo poche sono le informazioni a nostra disposizione. Le riforme economiche andranno avanti, questo è ormai assodato. Con la morte di Chen Yun, l'anziano antagonista del progetto politico di Deng, gli ultraortodossi del partito hanno perso notevolmente di importanza. L’ultimo loro portavoce, Deng Liqun, viene quotidianamente sbertucciato dalle giovani penne del regime. Il nodo del contendere è più sottile. Su quale infrastruttura politica costruire le riforme? La rappresentatività dell'ideologia marxista diviene in Cina sempre più difficile da sostenere. Per sopravvivere e mantenere il suo primato sul paese il partito deve darsi una nuova veste e farsi portatore di nuovi valori. Valori che gli diano mandato a governare un paese in cui il successo economico sta divenendo progressivamente l'unico parametro di misura della società. È sulla natura di questi valori che avverrà probabilmente lo scontro più duro. Non si può dire che da questo scontro emergerà un reale dibattito sullo "Stato di diritto" in Cina, ma è certo che una decentralizzazione dei poteri tutta a favore di un'amministrazione civile in fieri sarà uno degli argomenti centrali, insieme alla necessità di agire nella certezza delle regole. A spingere in tal senso sono sia le province rimaste escluse dall'econornia a "doppio binario" delle SEZ (Special Economic Zone) che quelle più toccate dalle riforme desiderose di mantenere e possibilmente ampliare lo spazio di autonomia decisionale conquistato in questi anni. Anche il nascente settore privato avrebbe tutti gli interessi a saltare l'infinita catena burocratica che si frappone fra l'azienda e il mercato. Tra i votati a un sostanziale mantenimento dei risultati acquisiti fino a questo momento, magari con qualche ritocco formale, ma senza ampliare eccessivamente lo spettro delle riforme da apportare alla struttura politica, troviamo soprattutto quei settori dello Stato che più hanno approfittato della loro posizione per trarre benefici personali dall'attività economica nazionale. L’esercito innanzitutto, con le sue aziende sparse in ogni settore dentro e fuori dei confini cinesi; e anche il cosiddetto "partito dei principi", fatto di figli dei potenti del partito, che tra Larry Yung alla CITIC e Chen Yuan alla Banca Centrale costituiscono un vero asse trasversale della politica. Tutti questi neo conservatori potrebbero cercare di opporsi a un impulso di accelerazione del processo di riforma strutturale solo per evitare di trovarsi a operare in un regime economico di libera concorrenza e sottoposti a regole comuni a tutti.
È certo dunque che il tema delle riforme istituzionali, delle regole e delle competenze degli amministratori pubblici troverà grande accoglienza in seno al dibattito. Già le prime riunioni tenute all'Assemblea Nazionale ribadiscono l'esigenza di portare l'azione politica nell'ambito della certezza della legge.
Nessuno dei gruppi politici che dovessero uscire vincitori da questa lotta alla successione, nemmeno quello dei neo conservatori, potrebbe disattendere alcuni appuntamenti vitali del processo di sviluppo cinese: ridimensionamento del settore pubblico, ricostruzione di uno stato sociale più adatto alla nuova realtà, adozione dei parametri del WTO. È logico che anche un minimo riassetto della realtà amministrativa dovrà comportare riforme strutturali di tale portata da andare comunque a toccare il rapporto PartitoStatoterritorio. Non è pensabile per nessuno mantenere in vita un apparato burocratico mastodontico (per ogni carica governativa c'è un corrispondente nel partito), corrotto e impreparato come quello che dovrebbe sovrintendere a tutti gli aggiustamenti strutturali del 2000. Il problema centroperiferia, e quindi di conseguenza quello del ruolo di un potere centrale non più dotato di strumenti adatti a gestire un paese immerso in un simile processo di sviluppo, diviene centrale sotto qualsivoglia punto di osservazione lo si inquadri.
L’inadeguatezza dell'ideologia marxista a trasportare da sola la Cina nel prossimo millennio, sembra essere un dato acquisito in maniera più o meno trasversale da tutti gli schieramenti. Ma allora verso quale modello politico si potrebbe spostare l'asse politico cinese senza far perdere al partito comunista, o allo Stato che da questo prenderà le mosse, la guida di un paese in cui lo sviluppo economico insieme alle ricchezze determina un evidenziamento sempre maggiore delle differenze fra regione e regione? Uno degli esempi a cui sembra ispirarsi già da qualche tempo l'intelligencija cinese è quello del "paternalismo autoritario" della neoconfuciana Singapore. Una concezione dello Stato estremamente verticizzata e fondata sulle competenze economiche dei suoi operatori, in cui grandissima libertà viene lasciata ai cittadini per tutto ciò che concerne il diritto del singolo ad arricchirsi. Per contro lo Stato a Singapore mantiene uno strettissimo controllo su stampa e libertà politiche della popolazione, garantendosi un primato assoluto sul processo decisionale. Valori come pietà filiale, famiglia, buon andamento del paese grazie al contributo canalizzato e ben ordinato di tutti, esaltazione del ruolo del capo famiglia e delle similitudini fra gestione della famiglia e dello stato, si pongono come netti e (nel contesto specifico) efficaci contro altari rispetto a concetti confusi e soprattutto stranieri come democrazia, pluralismo e libertà.
Una grande discussione politicofilosofica sul neoconfucianesimo come modello statale di un nuovo rinascimento cinese sta trovando sempre più spazio nei circoli dei maître à penser della capitale come la rivista "Zhanlüe yu Guanli”. Un modello come quello di Singapore potrebbe indubbiamente costituire per la politica interna cinese un punto di compromesso fra le diverse anime del Pcc. Garantendo lo snellimento e la decentralizzazione di parte del processo decisionale in materia di economia, il Pcc potrebbe mantenere nelle sue mani un forte potere sull'andamento generale delle scelte del paese controllando per esempio una Banca Centrale riformata e adeguata alle esigenze del mercato dei capitali e, sul piano puramente politico, continuando a gestire un controllo diretto sulle informazioni e sui diritti civili dei cinesi. La scelta di Tung Cheehwa come chiefexecutive di Hong Kong sembrerebbe indicare che la Cina si prepara a sperimentare il modello di Singapore, anche se in un contesto limitato. Nell'ambito delle relazioni asiatiche, l'adozione globale di un sistema politicoeconomico di stampo neoconfuciano da parte della Rpc naturalizzerebbe in maniera ancor più evidente alcune alleanze regionali. L’angoscia dei paesi del Sud-est asiatico per la nascita di un asse PechinoTokyoSingapore diverrebbe quanto mai plausibile.
Su tutte queste ipotesi grava comunque l'incognita della lotta per la successione. Non è detto infatti che queste possibilità di compromesso divengano praticabili o siano ancora ritenute le uniche possibili dalle diverse parti in causa. A minare le ipotesi di una soluzione pacifica c'è poi la questione dell'eredità di Tian’anmen. A distanza di otto anni, quella strage pesa ancora. Pesa nei rapporti con le generazioni più giovani all'interno del paese. Pesa anche nei rapporti internazionali, perché è un fantasma di facile evocazione da parte dei paesi occidentali per confinare all'angolo la Cina nel corso di qualsiasi trattativa internazionale. La Cina si affaccia all'anno del Drago, il 2000, apprestandosi a disegnare una nuova immagine di sé e, quale che sia questa immagine, lo vuole fare scrivendo la data su un foglio bianco, senza la spada di Damocle del sangue dei propri connazionali. Chi perderà la corsa alla poltrona di Deng si assumerà probabilmente anche le responsabilità della strage del 1989, permettendo alla Cina di normalizzare i suoi rapporti con il mondo. Qualcuno ha tentato di affidarne le colpe a Deng, facendo circolare un testamento apocrifo nel quale l'anziano leader ammetteva le sue responsabilità in quello che definiva «un atto non necessario». Poteva essere una ennesima soluzione di compromesso, tipica della concezione cinese della politica, ma non ha funzionato. Il Pcc ha seccamente smentito l'autenticità del documento, rimettendo in palio le responsabilità di Tian’anmen come premio ai vinti.
Concludendo: fino al 30 giugno, data di ritorno di Hong Kong alla Cina, è improbabile che grandi terremoti scuotano le aule di Zhongnanhai. Da quel momento al congresso di ottobre tutto può succedere.
Per qualsiasi valutazione concreta sulla Cina di domani, sui modelli che adotterà e sul ruolo internazionale che si appresta a svolgere, si tratta ormai solo di attendere il passaggio di un cadavere lungo il fiume.
MONDO CINESE N. 94, GENNAIO-APRILE
1997