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EDITORIALI

La scomparsa di Deng Xiaoping

di Franco Demarchi

La notizia della morte del grande statista, diffusa il 19 Febbraio 1997 a tutto il mondo, fu accolta con cordoglio misto a un sentimento di rievocazione carico di simpatia.
La sua scomparsa non poteva dirsi sorpresa, poiché da almeno tre anni non compariva in pubblico, a causa dell'avanzata età e del morbo che lo affliggeva, ma il cammino che aveva impresso alla politica estera e interna della Repubblica Popolare Cinese non poteva trovare che grande apprezzamento su tutto il mondo.
I necrologi lo hanno proclamato «piccolo timoniere, grande riformatore, uno dei maggiori personaggi storici, mente chiaroveggente, l'ultimo titano della rivoluzione cinese, uomo di ampie vedute». Seguirono valanghe di lodi. Del resto già Mao Zedong, a suo tempo, aveva detto che « Deng è un talento raro, la sua mente è tonda e i suoi atti sono quadrati», ma non se n'è poi servito granché.
Deng non amava grandi ritratti che lo presentassero al pubblico, come i suoi predecessori. Della sua figura fisica Deng non ebbe mai cura. Dicono che proprio nulla aveva di carismatico. La sua carriera e il prestigio derivarono dall'intelligenza straordinaria, orientata a un concreto realismo, con cui si è facilmente imposto e ha trovato ampio consenso.

Nacque nella vasta provincia del Sichuan, da famiglia mandarina di possidenti, nel 1904. A sedici anni s'imbarcò per la Francia, dove intendeva scoprire le ragioni dell'enorme potenza dell'Occidente. Le catene di montaggio che trovò nella fabbrica in cui lavorò divennero per lui il simbolo di quel progresso che auspicava al suo Paese.
Ci sia lecito chiederci subito quale sia stato il movente interiore che nel 1920 sospinse questo "bravo ragazzo" del Sichuan (lui recentemente ha detto che è sempre stato un piccolo borghese!) a imbarcarsi per Parigi, per scorprire le ragioni dello stupefacente progresso dell'Occidente. Quand'era ragazzo frequentò la scuola dei missionari cattolici francesi, dove conseguì quell'istruzione abbastanza progredita che gli procurò una borsa di studio per recarsi in Francia.
Negli anni trascorsi in Francia fece tante esperienze veramente amare, ma emerse come dirigente degli studenti e operai cinesi orientati al marxismo. Soggiornò poi otto mesi dal 1926 a Mosca alla scuola dedicata a Sun Yat-sen, dove incontrò il generale cristiano Feng Yuxian, col quale ritornò in patria pieno di speranze.

Per conto del generale fondò a Xi’an un'accademia militare, che fu ben presto soppressa. Seguirono anni burrascosi nei quali figurò sempre come leader del partito comunista, ora all'ombra di Mao Zedong ora in disparte. Partecipò alla Lunga Marcia (1935-36), durante la quale svolse soprattutto compiti amministrativi. Le avventure giovanili gli procurarono un fedele amico, Zhou Enlai, ma anche un terribile rivale, Lin Biao.
L’abile militanza lo portò al rango di segretario generale del partito già nel 1956, allorché l'URSS riusciva a convogliare ben 64 Paesi, tra cui la Cina, in una coalizione impegnata su un terzo della Terra, nella lotta antimperialista, sotto la sua guida. Erano gli anni della massima espansione del comunismo, gli anni delle contese per l'energia atomica.
Ben presto la Cina si ribellò alla guida moscovita, dalla quale non riceveva le segrete formule dell'arma nucleare; impostava perciò le sue ricerche in modo autonomo, abilmente informata dagli USA, in prospettiva nettamente antisovietica. I confini siberiani divennero caldi.
Ma Deng non resse all'ostilità della corrente massimalista interna al partito, quella che nel 1966 promosse la "rivoluzione culturale", guidata da Lin Biao e protetta dalla stessa moglie di Mao. Fu destituito, assegnato a una fabbrica di provincia; subì l'oltraggio di trovarsi il figlio prediletto precipitare dalla finestra e rimanere poi handicappato. Fu perfino costretto ad allevare galline per nutrirsi. Il radicalismo ideologico delle "guardie rosse" a quel tempo era giunto a esiliare in campagna tutti gli intellettuali e a chiudere tutte le settecento Università.

Dopo una decina d'anni fu richiamato alla capitale, reintegrato nel suo ruolo. Lo si voleva da molti capo del governo, ma fu scavalcato dal temutissimo capo dei servizi segreti che conosceva i retroscena di ogni dirigente politico, Hua Guofeng. Costui non durò affatto e Deng riprese il potere guadagnando ben presto larghe fasce di simpatia sia nelle file dei veterani della Lunga Marcia, sia nella gioventù cui andava insegnando che la cultura tecnologica è l'indispensabile matrice dello sviluppo economico, ben al di là dei poemi di Mao, indipendentemente dall'ortodossia ideologica. La catena di montaggio parigina diventava così il simbolo di un nuovo cammino.
Grazie a questa impostazione politica ottenne che le sterminate campagne, un milione di villaggi, fossero liberate dall'ingerenza burocratica delle Comuni rurali, fu riconosciuta la validità della libera intraprendenza contadina, fu concessa alla libera iniziativa industriale spazio sufficiente per sviluppare un'incipiente economia di mercato, lanciò slogan tutt'altro che consoni all'ideologia marxista, fece conoscere che un terzo delle opere di Mao, quelle economiche, erano fasulle, sollecitò polemicamente l'arricchimento individuale, promosse gli studi all'estero di migliaia di ricercatori, rilanciò l'insegnamento universitario su grande scala (oggi 1.050 Università), restituì le chiese sequestrate alle comunità religiose, intensificò i rapporti internazionali, conseguì un notevole consenso nell'opinione pubblica mondiale al punto da raccogliere un sufficiente benestare per il recupero di Hong Kong, dopo più di un secolo e mezzo di dominio britannico.

Al partito comunista affidò il compito di controllare tutto, ma senza più interferire nelle decisioni economiche e in quel vasto processo di rivendicazioni autonomistiche di città e province. Le forze armate gli furono sempre più solidali. La sua guida resse per vent'anni. La nuova generazione accolse la sua linea strategica con entusiasmo.
Si diffuse nella gioventù la convinzione che l'era delle aperture fosse incominciata e che Deng fosse disposto a promuovere la cosiddetta "quinta modernizzazione" e cioè la democrazia. Di qui la comparsa di manifestazioni che nelle grandi città, dal 1987 crearono difficoltà notevoli, fino a quel maggio 1989, quando una rivolta studentesca di proporzioni inattese condusse il regime all'orlo del collasso. Ne fu teatro la piazza più ampia del mondo, piazza Tian’anmen.
La leadership fu colta di sorpresa, rimase perplessa e rivelò d'essere ben poco compatta. Deng si rese addirittura irreperibile per due settimane. Il capo del governo Li Peng, il figlio adottivo di Zhou Enlai, decise di chiamare le forze armate a reprimere il movimento studentesco. Ma dovette chiamarle da province lontane perché la guarnigione di Pechino risultava inaffidabile. La vicenda ebbe una risonanza immensa, ma non valse a trovare imitazioni significative in altre città, salvo a Shanghai. Qui comunque il Sindaco fu così abile da convincere i manifestanti a smettere in fretta.

Deng dovette intervenire personalmente e scelse di approvare la repressione. Disse: «Questa tempesta o prima o dopo doveva scoppiare. È un bene che sia esplosa adesso, mentre sono ancora vivi i veterani della rivoluzione... Passati attraverso tante burrasche, essi approvano il ricorso ad azioni risolutive".
Non tutti i grandi veterani, purtroppo o malgrado, acconsentirono. Zhao Ziyang, numero due del regime, pensava che rompere con gli studenti fosse un grave errore. Fu accantonato, ma non espulso, tuttora sopravvive isolato.
Al suo posto fu chiamato Jiang Zemin, quel sindaco di Shanghai che riuscì a convincere gli studenti. Chiamato a Pechino, in breve divenne capo del partito, capo dello Stato, capo delle forze armate. La scelta piacque, perché seppe interpretare correttamente il pensiero di Deng; sostenere al massimo la ricerca scientifica, donde viene la crescita economica, avvalendosi del più rigoroso controllo del partito o della censura dei mass﷓media. I militari gli trasferirono l'appoggio che già davano a Deng. A tal punto si affermò, il suo prestigio, che da molti fu largamente indicato come il naturale successore del supremo gerarca defunto.

La biografia del grande statista cinese avrà ora molti contributi che ci illustreranno tanti passaggi equivoci e oscuri della sua storia, del suo pensiero, del suo comportamento. Recentemente ha tentato di ricostruirla Marco Sotgiu, La coda del drago (1994). È un lavoro pregevole assai, non solo per la ricchezza delle informazioni poco note, pur fra tante sospensive dovute all'impressionante susseguirsi di paurosi capitomboli e di imprevedibili risurrezioni del nostro personaggio, ma anche per il lodevole tentativo di inquadrarlo nella dialettica di destra e sinistra, tra lotta all'anarchia e lotta al revisionismo che dominò la storia del partito con tanti risvolti ambigui e imprecisi.
Deng vi risulta come candidato di quell'ala che preferisce consolidare l'autorità e promuovere l'ordinata continuità delle direttive, opponendosi al movimentismo dei fanatici dell'ortodossia egualitaria, ai quali si affidò Mao sempre più esplicitamente, dopo il fallimento del grande Balzo in avanti (1958).

L’esperienza europea aveva convinto Deng che uno Stato moderno si costruisce soprattutto promuovendo la tecnologia: tesi lontanissima dal pensiero di Mao, tesi certamente condivisa da Zhou Enlai. Ma con quale diversa abilità: a Deng costò ribellioni e umiliazioni, mentre Zhou riuscì a tenersi a galla per un trentennio.
Il risultato dell'impostazione ch'egli impresse al suo governo oggi appare davvero straordinario. Dal 1978, quando Deng giunse al potere, la produzione dell'acciaio è balzata da 30 a 100 milioni di tonnellate, così da coprire tutto il fabbisogno interno.
Occorre ricordare anche la piena indipendenza dall'estero nella produzione dei cereali e del cotone, vi si aggiunga la crescente utilizzazione dei bacini petroliferi, l'impulso edilizio e industriale, l'aumento del prodotto interno lordo che da qualche annata si muove sul 9% rispetto al bilancio precedente. È cosa meno nota che in questo impegno economico gli USA, discretamente, ma lealmente, gli furono sempre a fianco.
La durata media della vita è passata da meno di quaranta a circa settant'anni, l'alfabetizzazione è salita al 72%.

«Pare che Deng Xiaoping abbia conseguito un certo successo», scrive Paolo Santangelo, «nella composizione di una paradossale contraddizione fra il mantenimento della dittatura del partito comunista e l'introduzione di un'economia di mercato».
Una corrente di commentatori sottolinea in tutto ciò la lunga continuità dell'ideologia ufficiale, un'altra corrente mette invece in grande rilievo il ribaltamento dell'indirizzo politico dominante, nel periodo successivo al 1978.
Per quanto si sospettasse che una rivalità fra i grandi leader avesse potuto creare difficoltà alla successione del defunto, alle onoranze funerarie furono presenti e solidali tutti e tre gli esponenti di maggior peso.

Il primo ministro Li Peng inaugurò la seduta plenaria dell'Assemblea nazionale popolare esaltando la continuità con il passato, accanto a Qiao Shi, Presidente dell'Assemblea, riconosciuto in genere come una personalità eccezionale, rappresentativa dei cento milioni di disoccupati.
Proprio in quelle circostanze il segretario generale del partito, Jiang Zemin, deciso a sostenere le istanze illegittime della popolazione rurale, veniva riconosciuto come il diretto successore del Presidente scomparso.
Nonostante che il suo comportamento nella drammatica manifestazione del 4 giugno 1989 avesse lasciato un diffuso sconcerto, ben presto recuperò simpatie e consensi, che ora stanno maturando una grande fiducia nell'annessione di Hong Kong alla madrepatria. Le ripetute garanzie fornite dal governo di Pechino allo status quo della potente intraprendenza economica di quella città, confermano che la linea politica di Deng Xiaoping troverà ulteriori aperture della Repubblica cinese al mercato internazionale e all'amicizia fra tutti i popoli.

MONDO CINESE N. 94, GENNAIO-APRILE 1997

 

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