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Recensioni

PAUL PELLIOT, Inventaire sommaire des manuscripts et imprimés chinois de la Bibliothèque Vaticane. A posthumous work by P.P., revised and edited by Takata Tokio. Istituto italiano di Cultura. Scuola di studi sull'Asia Orientale, Kyoto 1995, pp. XIII-113.
Yu Dong, Catalogo delle opere cinesi missionarie della Biblioteca Apostolica Vaticana (XVI-XVIII sec.), Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1996, pp. IV-179.

La Biblioteca Vaticana possiede una importantissima collezione di opere a stampa e manoscritte in lingua cinese risalenti ai secoli XVI e XVIII, a carattere sia profano che religioso, queste ultime scritte per lo più da missionari gesuiti provenienti dall'Europa e dai loro convertiti cinesi.
Nel 1922, e precisamente nel breve periodo di tempo che va dal 13 giugno al 6 luglio, il sinologo francese Paul Pelliot ne redasse un catalogo "sommario", che da allora e ancor oggi costituisce un utilissimo strumento per consultare quelle opere. Il catalogo è rimasto per tutto questo tempo dattiloscritto: una copia con segnatura 512 è conservata nella sala di studio annessa alla sala di consultazione dei manoscritti della Biblioteca Vaticana, mentre poche altre copie "fotocopiate" sono state tesaurizzate da quei fortunati studiosi che sono riusciti a procurarsele. Il catalogo presenta però l'inconveniente di non contenere caratteri cinesi cosicché non è sempre facile riuscire ad orizzontarsi tra titoli di libri che in trascrizione appaiono uguali.
Per questi motivi il direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Kyoto, prof. Antonino Forte, si fece promotore della pubblicazione di questo catalogo con l'aggiunta dei caratteri cinesi: un compito, cui si è dedicato il prof. Tokio Takata, che, dopo averne rivisto, corretto e integrato il testo, lo ha portato egregiamente a termine nel 1995. Grazie quindi a lui e al prof. Forte, gli studiosi dispongono adesso di una edizione a stampa riveduta, corretta e corredata di indici del catalogo di Pelliot: un primo passo per una eventuale, futura, auspicabile, "seria" catalogazione di tutte le opere in lingua cinese possedute dalla Biblioteca Vaticana, ivi incluse quelle del Fondo Vacca, appartenenti cioè al defunto prof. G. Vacca e che non sono state ancora messe a disposizione degli studiosi.

Dato quanto precede sorprende la decisione della Biblioteca Vaticana di pubblicare nel 1996, a distanza quindi di appena un anno, un nuovo catalogo, sia pur limitato alle "opere cinesi missionarie dei secoli XVI-XVIII" e che si rifà al catalogo dattiloscritto redatto nel 1922 da Pelliot, ma non all'edizione a stampa dello stesso curata da Takata nel 1995, di cui ignora l'esistenza. Sorprende, perchè questo nuovo catalogo, curato dalla sig.na Yu Dong, non rappresenta un progresso rispetto al precedente catalogo di Pelliot-Takata, come ci si sarebbe potuto aspettare date le tradizioni di estrema serietà scientifica delle pubblicazioni della Biblioteca Vaticana. Pur avendo il merito di prendere in esame un maggior numero di opere, alcune delle quali erano state ignorate da Pelliot, il nuovo catalogo lascia alquanto a desiderare per i seguenti motivi:

A - Trattandosi di un'opera pubblicata in italiano sarebbe stata opportuna una maggior attenzione allo stile, che avrebbe dovuto esser rivisto da uno studioso di lingua madre italiana. Già il titolo "Opere cinesi missionarie" appare insoddisfacente, dato che molte opere sono state scritte da convertiti cinesi, che non erano certo dei missionari. A p. 99, al nr. 294-3 si legge "Esortazione sullo studio e sull'amore della virtù", mentre sarebbe stato più corretto dire "Esortazione allo studio...". Qua e là si legge poi di memoriali e di accuse "dati" all'imperatore, mentre sarebbe stato meglio dire "presentati". A p. 78, nr. 273-13, si legge di un "Contrasto contro", mentre sarebbe stato sufficiente dire "Contrasto con". E così via.
B - Le traduzioni in italiano dei titoli delle opere non sempre sono esatte e soddisfacenti. È una critica questa, che si può rivolgere anche al catalogo di Pelliot, che sovente nella traduzione francese riassume abbreviandolo il più lungo titolo cinese, ma senza però falsarne il significato, come ad es. fa invece la sig.na Yu Dong con l'opera Gou gu yi (p. 123, nr. 349-1), che traduce come Teologia di trigonometria, il che ci lascia interdetti. Si tratta infatti, se vogliamo servirci della traduzione di F. D'Elia (Fonti Ricciane, III, Roma 1949, p. 243), del Trattato sul triangolo rettangolo. Un altro appunto che si può muovere a questo catalogo è la tendenza a dare diverse traduzioni di una stessa opera. Così la ben nota collezione di opere Tian xue chu han è tradotta a p. 1 come La prima collezione degli Studi Celesti, a p. 116, nr. 3412, come Prima collezione delle discipline celesti. Il termine Tian xue, che letteralmente significa "Scienza del Cielo" e che ricorre nei titoli di varie opere dei missionari, viene reso a p. 9, nr. 25-1, con "Cielo", a p. 117, nr. 343-1, con "Sapienza del Cielo"; a p. 61, nr. 186-1, con "Dottrina di Dio"; a p. 120, nr. 346-1, con "Cristianesimo", oltre che, come già segnalato, con "Studi celesti" e "Discipline celesti". Soprattutto nella sezione "Opere anonime" si trovano le traduzioni più insoddisfacenti e approssimative dovute però alla difficoltà di comprendere il complicato stile burocratico degli antichi documenti cinesi, dei quali vengono qui riportate solo le parole iniziali. Valga come esempio il modo come vengono tradotte tali parole nel documento 474 a p. 150: Copia dell'editto dell'imperatore Yongzheng, a motivo di un ambasciatore pontificio. Volendo azzardarne una traduzione letterale (senza aver preso visione del documento in questione) esse potrebbero rendersi come segue: Editto imperiale. Tre memoriali presentati per l'esame imperiale e prodotti locali offerti dal Re della religione dello stato dell'Italia sono tutti apparsi come sinceri e onesti...
C - Alcune citazioni bibliografiche sono insufficienti e approssimative. Il catalogo di Henri Bernard, Les adaptations chinoises d'ouvrage européens. Bibliographie chronologique depuis la venue des Portugais à Canton jusqu'à la Mission française de Pékin, pubblicato in Monumenta Serica, X, 1945, pp. 1-57 e 308-388, viene citato come "Bibliographie chronologique di Henri Bernard" e basta, il che non faciliterà la ricerca a chi volesse consultarlo.
D - Per i missionari francescani non sempre sono date con esattezza e completezza le date di nascita e di morte, che sarebbe stato invece facile accertare consultando i volumi della serie Sinica Francescana, di cui sono stati pubblicati finora 9 volumi, o qualche enciclopedia. Sembra strano che nessuno tra il personale della Biblioteca abbia pensato di consigliare alla sig.na Yu Dong di consultare le numerose opere di riferimento di cui quella biblioteca è fornita.

Giuliano Bertuccioli

                                                              ***

LIU XIE, Il tesoro delle lettere: un intaglio di draghi. Edizione tradotta e curata dall'originale cinese da Alessandra Lavagnino, Luni editrice, Milano 1995, pp. 380+2 di indici. Lire 62.000.

Quando, nell'ormai lontano 1959, apparve la prima versione completa in lingua occidentale a cura di Vincent Yu-chung Shih del Wen xin diao long, alcuni recensori espressero da un lato il loro apprezzamento per l'impresa affrontata dal traduttore di presentare al pubblico occidentale un'opera di assai difficile comprensione e manifestarono dall'altro alcune critiche sul modo come alcuni passi di controversa interpretazione erano stati resi in inglese. Apprezzamenti e critiche vennero però attenuati dalla ammissione più o meno aperta di non esser degli specialisti dell'argomento e di esser pertanto scarsamente competenti a giudicare. Mi riferisco in particolare alla recensione scritta da J.R. Hightower (Harvard Journal of Asiatic Studies, vol. 22, dic. 1959, pp. 280-288), che onestamente dichiarò di non essere uno specialista del Wen xin diao long e delle teorie letterarie cinesi e lo stesso potrei dire anch'io, non avendo mai indirizzato i miei studi verso tali argomenti. Mi risulta pertanto difficile presentare questa nuova versione italiana della prof.sa Lavagnino, non volendo limitarmi a una troppo facile e fredda "segnalazione bibliografica", ma recensendola, cercando di metter in rilievo gli eventuali pregi e difetti, perchè ciò presuppone che il recensore possieda una conoscenza dell'opera superiore a quella della traduttrice. Ora la prof.sa Lavagnino può ben esser considerata come la maggiore autorità italiana nel campo degli studi sul Wen xin diao long e, senza tema di smentite, penso che sia l'unica persona, fra tutti i sinologhi italiani, che lo ha letto da capo a fondo attentamente, integrando tale lettura con quella dei principali o più recenti commenti apparsi in lingua cinese. La mia recensione quindi è come se fosse scritta da un lettore non specialista dell'argomento, che si limita a metter in evidenza i punti che lo hanno maggiormente colpito e sui quali si sente di formulare apprezzamenti o di azzardare qualche molto sommessa critica.

Un incondizionato complimento va all'editore, che ha dato di quest'opera una edizione veramente curata ed elegante, dimostrando anche un generoso coraggio, dato che il Wen xin diao long, non può certo considerarsi come potenzialmente un "bestseller". Molti complimenti vanno fatti anche alla traduttrice per l'apparato veramente imponente delle note, tutte esatte ed esaurienti; per la cronologia; per il glossario; per il dizionario degli autori e delle opere anonime; per l'abbondante bibliografia.
Per quanto riguarda la traduzione, è evidente che la prof.sa Lavagnino ha tenuto presente la precedente versione inglese di Shih (avrebbe fatto male a comportarsi diversamente) ma il confronto fra le due versioni conferma che non se ne è lasciata influenzare. Le due versioni differiscono infatti sia nella interpretazione dei non pochi punti controversi (e la prof.sa Lavagnino è stata avvantaggiata dal fatto che in questi ultimi quarant'anni sono apparse in Cina importanti edizioni commentate del Wen xin diao long), sia nei criteri generali che i due traduttori si sono ispirati: più libera, soprattutto nella interpretazione dei termini tecnici, la versione di Shih, che, per il modo come li ha resi in inglese, si è attirato le critiche dei recensori; più aderente al testo la versione della Lavagnino, che in alcuni punti preferisce non tradurre quegli stessi termini, anche a costo di risultare di meno agevole lettura, o li rende forzandone un po' il significato. Valga a questo riguardo la traduzione del titolo, che Shih ha reso (e lo hanno criticato) con "The literary mind and the carving of dragons" (La mente letteraria e l'intaglio dei draghi), mentre la prof.sa Lavagnino, dopo aver ammesso (p. 8) che versioni come le seguenti sarebbero andate anche bene: "Le magnifiche elaborazioni della mente letteraria" oppure "Un grandioso intaglio sulla essenza della letteratura", ha scelto un titolo più ad effetto: "Il tesoro delle lettere. Un intaglio di draghi" forzando il significato di "xin", che significa "mente, intelletto, cuore" e non "tesoro". Ne consegue però che, non potendo rendere in altri punti la parola "xin" con "tesoro" evita di tradurla, non agevolando così il compito del lettore non sinologo, come ad es. a p. 324, dove si legge: "Con le parole wen e xin indico l'esercizio del xin che è a fondamento del wen". Shih almeno aveva azzardato una traduzione di questo passo coerente con quella da lui data del titolo: "The literary mind is that mind which strives after liberary forms", attirandosi le critiche di Hightower, che a sua volta aveva proposto una traduzione forse più corretta, ma certo meno comprensibile: "By writingheart I mean the heart as it functions".

Una eccessiva aderenza al testo, se rende il traduttore inattaccabile dalle critiche dei sinologhi, lo espone però a quelle degli stilisti, che raccomandano la scelta di parole appropriate, atte a far comprender il senso della frase. Mi limito a segnalare un altro punto, in cui la preoccupazione della prof.sa Lavagnino di tradurre alla lettera mi sembra eccessiva. A p. 152 si legge: "Come il tuono è preceduto dal lampo, così una spedizione militare è annunciata da grida che incutono terrore... Antica è l'abitudine di far precedere la guerra da grida...". Non v'è dubbio che la parola sheng significa "grida", ma qui non si fa riferimento a grida di guerra lanciate dai soldati prima della battaglia, come facevano gli antichi Greci con i loro "eia, eia, alalà" o i Romani con i cosidetti "barriti". Qui è evidente che l'autore cinese si riferisce a "proclami, dichiarazioni di guerra" e che la parola italiana "grida" non ha questo significato (neppure in Manzoni). Più comprensibile risulta quindi Shih, che traduce: "As lightning precedes thunder, so awesome proclamations precedes military expeditions... It has long been a practice to send out proclamations before military expeditions". Solo infatti i proclami, i bollettini militari, le dichiarazioni di guerra possono eventualmente interessare un critico letterario, non certo le grida e le urla dei soldati.
Le poesie, con le quali terminano i capitoli dell'opera, sono state tradotte dalla prof.sa Lavagnino con la stessa precisa, puntigliosa stringatezza: una scelta di stile che mi ricorda quella fatta un tempo da A. Castellani, allorchè tradusse le opere di Laozi e di Confucio. Che ciò giovi alla loro completa comprensione lo lascio decidere al lettore non sinologo, con l'avvertenza però che una traduzione più libera, più ispirata al desiderio di risultare comprensibile, più verbosa quindi, può dar risultati esteticamente discutibili. Così i versi che a p. 220 concludono il cap. XXXI:

Grazie al wen la parola giunge lontano, i fatti lo provano. Se l'arte del cuore è manifesta, rigogliosa cresce. Il broccato di Wu si consuma facilmente, il fiore dell'ibisco presto appassisce. Abbondanza di colori accompagnata da povertà di emozioni satura il testo.

Avrebbero potuto esser resi in maniera forse più comprensibile, ma certamente molto più verbosa, come segue:

Le parole, solo se sono esposte in bello stile, vanno lontano; davvero questo è stato provato da tempo. Quando il processo creativo ha preso forma nella mente allora quella bellezza si manifesta. Ma come il broccato di Wu facilmente sbiadisce, come il fiore dell'ibisco rapidamente sfiorisce, così uno stile troppo colorito, ma povero di sentimenti, immancabilmente disgusta.

Termino
qui: quanto sopra fatto presente conferma la grande difficoltà del testo del Wen xin diao long e come una traduzione completa di esso sia in ogni caso un'impresa encomiabile, soprattutto se condotta con l'impegno e la serietà della prof.sa Lavagnino. Per parte mia, dopo aver fatto presente il mio pensiero su alcuni punti, che sono marginali rispeto all'intera opera, preferisco terminare con il noto detto latino: "Ubi plura nitent paucis noo offendar maculis", perchè nel panorama della produzione sinologa italiana quest'opera veramente risplende.

Giuliano Bertaccioli

 

 

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