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I costruttori della nuova Cina*

di Vittorino Colombo

Non credo nel determinismo storico, credo nella presenza attiva e determinante degli uomini nella storia. Certo che la storia della Cina trova nella storia dei suoi uomini una chiave di lettura fondamentale. Ecco perché parlo di "costruttori della nuova Cina".

E di questi costruttori ho avuto la fortuna di incontrarne molti e tra i più significativi.

Non ho mai incontrato Mao Zedong il liberatore, il pioniere e timoniere: e ne sono rammaricato perché è stato certamente un grande leader. Ma a lui forse, si deve ascrivere non tanto la fase della costruzione della nuova Cina quanto quella precedente della "liberazione della nuova Cina dalla vecchia Cina" con la lotta epica contro Jiang Jieshi ed i suoi grandi alleati, gli Usa e, perché no!, la stessa Urss che non vedeva di buon occhio una vittoria del comunismo rivoluzionario cinese sotto la guida di Mao.

In questa prima fase di liberazione della Cina, la funzione costruttiva ai vari livelli istituzionali, di governo, di politica estera in una parola di vera identità statuale all'interno ed all'esterno, entro la Cina e nel mondo, si fa risalire in modo concorde non a Mao ma all'altro grande leader cinese dell'epoca Zhou Enlai.

* Riportiamo dal volume "Incontri con la Cina" del sen. Vittorino Colombo il capitolo "I costruttori della nuova Cina" a testimonianza del suo rapporto storico, politico, economico e culturale avuto in 25 anni da Presidente dell'Istituto Italo Cinese per gli Scambi Economici e Culturali.

INCONTRO CON ZHOU ENLAI
IL VERO COSTRUTTORE DELLA NUOVA CINA

Il primo personaggio incontrato è stato Zhou Enlai a Pechino il 21 novembre 1971.

Era mezzanotte ed il colloquio durò fino alle tre del mattino.

Lo dico a distanza ormai di 25 anni: è stato un incontro esaltante, uno di quelli che rimangono nella memoria e ti segnano. Era il mio primo viaggio in Cina, quando la Cina era ancora molto lontana e pochi erano i veri "Amici della Cina". Erano i tempi della grande rottura tra URSS e RPC e l'occidente, compresa l'Italia, puntava più sulla prima che sulla seconda. L'URSS non gradiva e lo faceva anche capire, che l'occidente puntasse verso l'estremo oriente.

Di Zhou Enlai sapevo poco; non molto di più di quello che avevo letto nel libro di Edgard Snow, Stella rossa sulla Cina; un testo fondamentale per la conoscenza della Cina, pubblicato in America nel 1938 ma tradotto in Italia solo nel 1965!

Ricordavo, in particolare, la ricostruzione del suo primo incontro con Zhou Enlai come Snow lo presenta nel capitolo che ha per titolo: "L'uomo dell'insurrezione": davanti al suo alloggio c'era solo una sentinella, anche se sul suo capo pendeva una taglia di 80 mila dollari; appena entrato nell'alloggio, è immediato l'impatto di cortesia tra i due uomini, un incontro amichevole pieno di fiducia. "Mi è stato detto - esordisce Zhou Enlai - che siete un giornalista onesto, amico del popolo cinese, e che si può avere fiducia nella vostra obiettività. Questo ci basta e non ci interessa sapere se siete comunista oppure no... Potrete scrivere su tutto quello che vedrete e noi vi daremo tutto l'aiuto necessario". Snow commenta: "Ero un po' sorpreso e anche leggermente scettico, perché dubitavo della sua sincerità nel darmi così semplicemente carta bianca .... Era troppo bello: doveva pur esserci un trabocchetto".

Il trabocchetto non c'era, e Snow poté vedere, osservare, rendersi conto di molte cose e pubblicare poi quel ponderoso e interessante volume che è Stella rossa sulla Cina, e continuare poi per molti anni in questo rapporto di amicizia e di fiducia.

Snow osservava attentamente Zhou Enlai durante la conversazione, scrutandolo con occhio penetrante. "Zhou, come tanti altri capi rossi, era considerato più un personaggio leggendario che un uomo in carne e ossa .... Aveva gli occhi grandi, uno sguardo caldo e profondo, e dalla sua persona emanava un certo magnetismo che sembrava derivare da uno strano miscuglio di timidezza, fascino personale, sicurezza nel comando".

Era veramente uno dei capi della grande rivoluzione destinata a cambiare le sorti della Cina, "un intellettuale puro, che coordinava la conoscenza e la convinzione con l'azione. Uno studioso diventato rivoluzionario. Zhou veniva da una grande famiglia mandarina, fu trascinato dal movimento per la rivoluzione sociale che doveva scuotere la Cina".

Prima compagno di Sun Yatsen, poi negli sviluppi delle vicende successive, collaboratore e quindi avversario di Jiang Jieshi quando questi impone al partito fondato da Sun Yatsen la svolta reazionaria antipopolare. Quindi tra i capi storici del Pcc insieme a Mao Zedong e protagonista di primo piano, dopo il 1949, nella costruzione della nuova Cina, nell'impostazione della sua politica interna e delle relazioni internazionali; impegnato, con altri leader del partito, a ridare dignità a un popolo ridotto in condizioni di dipendenza semicoloniale, disprezzato e sfruttato, impaurito dalle atrocità dell'occupazione giapponese e dalla politica di sfruttamento delle grandi potenze, sconvolto all'interno dalla feroce lotta delle fazioni.

Zhou Enlai aveva più di ogni altro le qualità necessarie per affrontare e portare a buon fine questo compito: capacità di mediazione e di sintesi; coraggio non solo sul piano delle indicazioni di prospettiva, ma anche e soprattutto su quello della concreta azione politica, della gestione pratica dei grandi problemi. "Forse - scrive ancora Snow - Zhou Enlai è un esaltato, mi dicevo, e cercavo nei suoi occhi un lampo di fanatismo. Ma anche se c'era, non riuscii a scorgerlo. Parlava lentamente con calma e con ponderatezza. L'impressione che mi diede fu quella di un uomo dalla mente fredda, logica e pratica".

Era con quest'uomo straordinario, responsabile quanto Mao Zedong degli svolgimenti attuali e futuri della Cina, che mi sarei incontrato. Il colloquio non era ufficialmente previsto nell'agenda del mio breve soggiorno in Cina. C'era stato l'incontro con Pietro Nenni qualche settimana prima. Mi sembrò opportuno - a parte il mio grande personale desiderio - che ci fosse anche l'incontro con un esponente della Democrazia Cristiana, il partito di maggioranza relativa nel mio paese.

Nonostante tutte le difficoltà che di volta in volta mi venivano prospettate (i molti impegni, i continui spostamenti nelle diverse regioni del paese, i ricevimenti protocollari di uomini di Stato in visita a Pechino) alla fine l'incontro venne fissato: avrei incontrato il presidente Zhou Enlai domenica 21 novembre 1971 alle ore 24.

" È abitudine del presidente - mi spiegava la guida - riservare le ore della notte ai colloqui con i vecchi amici" quale anch'io cominciavo ad essere considerato nella stima degli amici cinesi, al di fuori delle formalità protocollari.

Attraversammo le strade deserte, l'immensa piazza Tian’anmen, diretti verso il palazzo dell'Assemblea nazionale del popolo. Superato il grande portone a cui faceva buona guardia una minuta sentinella, salimmo la maestosa scalinata e mi trovai di fronte a Zhou Enlai. Quanto avevo letto nelle pagine di E. Snow mi tornava ora alla mente e trovavo conferma alle sue acute osservazioni, anche se dalla data di quegli incontri da lui descritti erano passati parecchi anni. Notai la difficoltà di movimento del suo braccio destro, conseguenza della lunga milizia rivoluzionaria; i suoi occhi scuri, espressivi, le sopracciglia folte. Si distingueva per l'abito diverso, di gabardine grigio, più fine e più curato nella confezione, nelle pieghe dei pantaloni.

Il presidente Zhou Enlai avvia il discorso parlando del nostro paese.

"Non ho avuto la fortuna - dice - di visitare l'Italia; l'ho sempre ammirata per la sua storia e la sua antica cultura, e solo da lontano - dalla nave che mi portava dalla Cina verso la Francia, durante una sosta nel porto di Napoli, nel 1919 - ho potuto osservarla. Ci fu una seconda occasione quando sorvolai l'Italia spostandomi da Tirana ad Algen. Il passaggio nello spazio aereo italiano era stato segnalato, e l'onorevole Aldo Moro, allora ministro per gli affari esteri, mi fece trasmettere un caloroso messaggio di saluto che gradii in modo particolare. Tra Italia e RPC, a quell'epoca, non c'erano ancora relazioni diplomatiche. Risposi con altrettanto calore".

La conversazione si sposta sul mio partito di appartenenza, la Democrazia Cristiana, partito popolare, sulla partecipazione di tanti di noi alla lotta di liberazione. I colloqui con i "vecchi amici" avevano per Zhou Enlai, oltre la funzione di avviare o di rinsaldare rapporti di amicizia con personalità straniere, anche lo scopo di acquisire conoscenze di prima mano sui grandi protagonisti della storia politica dell'occidente: decenni di isolamento dal resto del mondo avevano creato nelle sue conoscenze una zona d'ombra che ancora gli riusciva difficile diradare.

Zhou: "Quale è stata la presenza del movimento cattolico nella lotta antifascista?"

Colombo: " È stata una presenza diffusa e capillare specie nelle regioni del nord, perché la lotta antifascista è stata un movimento di popolo, e la composizione popolare ha fatto sì che il movimento cattolico si trovasse in molti luoghi in prima linea. Il nostro comandante era Enrico Mattei".

Ricordava Luigi Longo come capo dei partigiani comunisti, ma non sapeva del ruolo di Enrico Mattei come capo dei partigiani cristiani. Eppure conosceva molto bene Mattei. "Era un grande amico del popolo cinese. È venuto più volte a trovarci in anni difficili". Mattei era stato infatti uno dei primi italiani, forse il primo in assoluto, che aveva avviato rapporti commerciali con il mercato cinese negli anni di ancora incerta apertura della Cina verso i mercati occidentali; proseguendo nella sua strategia di rottura delle posizioni monopolistiche delle "sette sorelle" nel mercato petrolifero, l'Eni era diventato un grosso produttore di fertilizzanti e l'apertura verso la Cina - allora afflitta da gravi insufficienze alimentari - ne era una logica conseguenza. "Mattei - ripete ancora Zhou Enlai - era veramente un grande amico. È stato uno dei primi esponenti dell'occidente a credere e ad avere fiducia nella Cina".

Nella rassegna dei grandi italiani, il pensiero va ad Alcide De Gasperi: "un uomo di grande valore" osserva Zhou Enlai. "Fu tra i promotori dell'idea dell'Europa unita. Un progetto di importanza fondamentale. L'Europa deve unirsi, deve assumere il ruolo di punto di riferimento per molti paesi, perché non è possibile che il mondo continui ad essere governato dalle due superpotenze imperialiste".

Zhou Enlai introduceva in questo modo un argomento che sarebbe stato ripreso ancora in seguito, negli altri incontri che ho avuto con lui e con altri leader della RPC, il tema di fondo dei ragionamenti di politica estera. Faceva sorpresa sentire proprio lui parlare delle "due superpotenze imperialiste".

Colombo: "Imperialista anche la Russia?"

Zhou: "Certo! Lungo le nostre frontiere sono schierati un milione e mezzo di soldati sovietici. Non è imperialismo questo?"

C.: "Eppure l'Unione Sovietica sostiene che sareste voi i provocatori".

Z.: "Dicono quello che vogliono. La verità è che nessun soldato cinese è fuori del nostro territorio. Se siamo intervenuti in Corea, è perché i nostri interessi erano direttamente minacciati. Al Vietnam diamo l'aiuto che riteniamo doveroso dare a un popolo in lotta per la sua libertà. Ma non c'è da parte nostra nessun intervento diretto, nessuna mira territoriale". Osservai che anche Nixon cominciava a parlare di "multipolarità", di superamento di un mondo bipolare.

C.: "In merito saranno utili i colloqui con il presidente degli Stati Uniti che avete invitato in Cina".

Z.: "Ma non siamo stati noi ad invitarlo. È stato lui che ha espresso il desiderio di incontrarsi con noi. Comunque sia, è bene cominciare; anche se non sappiamo con quali prospettive. È da oltre quindici anni che con gli americani ci parliamo a Varsavia, ma senza grandi risultati".

C.: "Quel che è certo, è che si avvia una stagione di grande apertura e di dialogo".

Zhou Enlai acconsente, cita in questo contesto il riconoscimento della RPC come membro originario dell'ONU, conferma la sua gratitudine per l'Italia che, appoggiando la mozione albanese, ha contribuito alla positiva soluzione della vicenda.

Si scherza sul mio cognome ("Colombo? È un nome di buon auspicio, è il segno della pace!"), su alcuni dettagli riguardanti il problema di Taiwan che aveva ricavato dalla lettura de Il Popolo.

C.: "Si dice in Italia che a leggere Il Popolo con la dovuta attenzione siano in pochi. Ma qualcuno, molto autorevole, che lo legge riga per riga si può trovarlo e questo qualcuno sta in Cina! Farà piacere saperlo all'on. Forlani, segretario del mio partito".

Ma resta ancora un argomento da affrontare, in contrasto - mi sembra - con la politica di apertura e di dialogo sostenuta dalla Cina.

C.: "Alcuni giorni fa avete fatto esplodere la vostra bomba nucleare. In che rapporto sta questo avvenimento con la vostra politica di disarmo e di pace?"

Z.: "La bomba nucleare cinese è stata fatta esplodere pochi giorni fa, il 18 novembre. Lo scopo è puramente dimostrativo. Vogliamo fare intendere, con i fatti, che anche la Cina è in condizioni di approntare un proprio arsenale atomico; dunque non esiste più un monopolio nucleare delle due grandi potenze; dunque le loro bombe atomiche sono inutili. Adesso diventa più realistica la nostra proposta di una conferenza internazionale per bandire le armi nucleari. Se sono inutili, perché produrle?"

Gli chiedo quali fossero le previsioni, le speranze, se era ottimista o pessimista. "Occorre lavorare, per la pace ed essere ottimisti" mi risponde. "Io lo sono. Del resto già oggi accade qualcosa che sino a qualche tempo fa era impensabile: è la prima volta che un cattolico non cinese e un marxista cinese parlano per ore con tanta amicizia".

Una forte stretta di mano, l'incarico di salutare il presidente del Consiglio on. Emilio Colombo, l'on. Moro, tutti gli amici italiani.

Quando uscimmo dal palazzo dell'Assemblea nazionale del popolo erano le tre del mattino. Il freddo di Pechino era pungente, ma il cielo era pieno di stelle.

Dunque, ricapitolavo nella mia mente, la Cina dispone di un arsenale atomico, ma lo considera puramente simbolico, una provocazione per dimostrare l'inutilità di ogni "tenda di morte". Nessun soldato cinese fuori del territorio nazionale, né oggi né domani, dichiarava Zhou Enlai ripetendo nella riservatezza di una conversazione privata quella specie di esame di coscienza che, molti anni prima, aveva pubblicamente fatto nel corso dei lavori della conferenza di Bandung. Usciva confermata la visione politica e il ruolo della Cina di cui parlava La Pira.

Parlava allora, a Bandung, delle tentazioni a cui può essere esposto ogni grande paese, di guardare dall'alto della sua potenza i paesi più piccoli. Parlava, cioè, del rischio dello "sciovinismo di grande potenza" da cui anche la Cina poteva essere tentata; per questo, diceva, "ci interroghiamo spesso su questo punto".

In quella sede, attraverso la finezza di tatto diplomatico di Zhou Enlai, la Cina, riassumendo i propri principi di politica estera nel contesto dei "cinque punti per la coesistenza pacifica", proponeva al resto del mondo il proprio particolarissimo modo di concepire la politica e i rapporti politici, i quali hanno un senso solo se finalizzati alla costruzione di una comunità planetaria pacificata. E, non senza una punta di orgoglio, Zhou Enlai aggiungeva che a servizio di questa politica, la diplomazia cinese aveva inventato, e quindi praticava e proponeva, un suo specifico metodo: quello di ricercare sempre e con chiunque ogni possibile terreno di intesa, lasciando impregiudicate, quando non potevano essere immediatamente risolte, le controversie che non cessano di insorgere nelle relazioni internazionali. "Un'attitudine costruttiva - spiegava a Bandung - che riflette l'aspirazione costante della Cina a promuovere l'amicizia tra le nazioni sulla base del mutuo rispetto".

Ma in che misura erano attendibili queste dichiarazioni? In che misura la storia della Cina, specie la sua storia recente, avallava queste dichiarazioni rendendole credibili? Cultura e mentalità della Cina andavano veramente in questa direzione? E gli sconvolgimenti della rivoluzione culturale, per quanto se ne sapeva allora in occidente, al potere dal 1966, come si conciliavano con questi orientamenti?

Zhou Enlai indicava il metodo della ricerca dell'intesa ad ogni costo come il punto di forza della diplomazia cinese. Questo metodo implicava come necessario presupposto la convinzione che il nemico totale non esiste; l'avversario totale non può esistere nei rapporti tra le persone e nemmeno nei rapporti tra le nazioni. Per questo è saggezza politica ricercare sempre le possibilità di intesa. Nascoste ad una prima osservazione, queste possibilità bisogna ricercarle con insistenza, perché esse esistono nei fatti, e, prima ancora, nel cuore delle persone. Bisogna ricercarle promuovendo l'amicizia, instaurando rapporti di fiducia, e innanzitutto promuovendo ogni possibile occasione di conoscenza reciproca, "specie con coloro dai quali siamo più lontani e che non conosciamo abbastanza bene", dove un singolare capovolgimento dei principi che regolano la prassi politica corrente - come la viviamo nella nostra esperienza più immediata, tutta impegnata a codificare e a rendere stabili gli squilibri dei rapporti di forza esistenti - genera sorpresa e speranza, lasciando intravedere una diversa possibile dimensione dei rapporti tra gli stati, che di solito accantoniamo, rassegnati tra i sogni impossibili.

Ho riletto il mio diario di quell'incontro del 21 novembre del 1971. Concludevo con un po' di romanticismo: "erano le tre del mattino quando uscii dal palazzo dell'Assemblea del popolo cinese, il freddo di Pechino era pungente ma il cielo era pieno di stelle". E mi ricordai che il giorno prima, il 20 novembre 1971, il Comitato Rivoluzionario di Pechino mi aveva informato che sarebbe stata aperta la Chiesa dell'Immacolata, la Cattedrale di Pechino, e che alle ore 6,30 del mattino avrei potuto ascoltare la S. Messa. Era quella la prima cerimonia cattolica dopo la repressione della "rivoluzione culturale delle guardie rosse".

Un atto di pura cortesia verso un amico cattolico, frutto della magnifica tradizione cinese, ma anche un fatto eccezionale per la storia della religione cattolica in Cina.

Con l'apertura della Cattedrale di Pechino iniziava un nuovo corso nei rapporti tra Chiesa cattolica e RPC. Ora in Cina, le chiese cattoliche aperte al pubblico sono migliaia ... e qualcosa si sta muovendo sul piano più generale.

DENG XIAOPING: IL SECONDO TIMONIERE

Incontrai Deng Xiaoping nel maggio 1978 e una seconda e una terza volta, sempre a Pechino. Erano gli anni del suo ritorno al potere e del consolidamento del suo ruolo di leader politico, gli anni in cui il suo progetto per la costruzione della nuova Cina, alternativa e diversa rispetto alla Cina della rivoluzione culturale, prendeva consistenza, sia attraverso le prime decisioni politiche formalmente assunte sia attraverso la constatazione dei primi interessanti risultati.

Visitando la mostra permanente sulla vita di Zhou Enlai, esposta con un certo rilievo, ho attentamente osservato una foto storica: riproduce il rientro da Mosca della delegazione cinese capeggiata da Deng Xiaoping, dopo che aveva sanzionato la rottura con l'Urss. Zhou Enlai in persona, come capo del governo, era ad accogliere la delegazione all'aeroporto, per sottolineare la gravità e l'importanza della decisione assunta e la solidarietà del gruppo dirigente del partito. Non c'era nessuna nostalgia, ma si intendeva dimostrare contro l'alleato perduto. Quella decisione lasciava un segno nella storia del marxismo, avviava la frantumazione di una unità che era apparsa monolitica per tanti anni, sconfessava il primato del comunismo sovietico e il ruolo di stato-guida che di fatto l'Unione Sovietica si era attribuito.

Quella rottura tra Cina e Urss rappresentava il fatto politico più importante dopo Yalta, certamente capace di cambiare gli equilibri mondiali.

Protagonista in prima persona di questa drammatica scelta politica era stato Deng Xiaoping, l'uomo forte della Cina, l'uomo delle scelte difficili, l'uomo - come lui stesso scherzosamente è solito affermare - che ha avuto "tre morti e tre resurrezioni", in altrettanti momenti cruciali della storia del suo paese. La prima volta nel 1932, quando fu emarginato, a opera di Wang Ming e del suo gruppo di sinistra, per essere poi riabilitato nel 1935 durante la lunga marcia, nel decisivo convegno di Zunyi. La seconda caduta avvenne con la rivoluzione culturale. Lin Biao e la banda dei quattro lo confinarono nella provincia del Jiangxi a lavorare nella fabbrica di locomotive "Er Ci" del complesso "Sette Febbraio" in un villaggio a trenta chilometri da Pechino.

La furia della rivoluzione culturale non si accontentò di infierire su Deng Xiaoping, ma colpì anche il figlio Deng Pufang allora poco più che ventenne. Deng Pufang venne malmenato duramente e infine gettato da una finestra del quarto piano del palazzo subendo una lesione permanente alla spina dorsale. Ora è costretto all'immobilità, si sposta su una sedia a rotelle ma non ha abbandonato la vita attiva. Come il padre, risorge da ogni caduta; attualmente è vicedirettore del Fondo di assistenza statale per gli handicappati. In questa veste ha incontrato a Pechino nel gennaio 1985 madre Teresa di Calcutta premio Nobel per la Pace.

Deng Xiaoping richiamato al potere da Mao Zedong nel 1975 per le insistenti sollecitazioni di Zhou Enlai che ne richiedeva la collaborazione come suo vice, fu nuovamente estromesso nell'aprile 1976, pochi mesi dopo la morte dello stesso Zhou Enlai. II suo ritorno definitivo al potere avveniva nell'ottobre dello stesso anno, quando una nuova maggioranza si insediava ai vertici del partito e dello stato e con l'arresto della banda dei quattro poneva termine alla rivoluzione culturale. Da allora Deng Xiaoping assume la posizione di leader nel gruppo che governa la Cina e ne ispira il nuovo corso.

Aspettavo questo incontro con "l'uomo forte" della Cina, quello che con più forza si oppose alla rivoluzione culturale considerandola nefasta, l'uomo a cui si attribuisce il detto: "non importa il colore del gatto se è bianco o nero; ciò che importa è se il gatto acchiappa i topi".

Lo incontrai nel grande palazzo dell'Assemblea nazionale del popolo il 22 maggio 1978; piccolo di statura anche per la media cinese, fronte alta, occhi scuri, vivacissimi; fumatore accanito, sembra masticare le sigarette anziché fumarle. Estremamente aperto e franco, non dà mai la sensazione di voler scantonare su un argomento per rifugiarsi nell'ambiguità di risposte evasive.

Le sue vicende politiche e, forse, anche l'aspetto fisico, fanno ricordare subito il "personaggio Fanfani", anche lui l'uomo forte della politica italiana, coraggioso. Anche lui "più volte nella polvere e più volte sull'altare".

Del resto so che tra Deng Xiaoping e Fanfani corre una corrente di simpatia, anzi, mi sembra di poter dire, di vera amicizia. Nell'incontro del 1978 ero latore proprio di un caloroso messaggio di saluto da parte di Fanfani. Con Deng Xiaoping si entra subito nel merito e ti trovi a tuo agio.

Il secondo incontro avvenne tre anni dopo, il 12 dicembre 1981, sempre a Pechino. Ero stato invitato, anche nella mia qualità di vicesegretario politico della Democrazia Cristiana, carica, questa, che ha certamente influito su come si è svolto il colloquio e sui suoi contenuti.

 

* * * * *

 

Deng Xiaoping è l'uomo della concretezza, dei fatti. A lui si deve il nuovo corso della Cina iniziatosi nel 1978 che chiuse definitivamente le "utopie" (con me usò anche il termine "pazzie") della rivoluzione culturale e che portò la Cina verso il traguardo di un paese moderno.

È sua la politica delle quattro modernizzazioni, della democrazia economica e della riforma politica, continuando sulla strada dell'apertura della Cina a tutti i paesi del mondo.

Disegno ambizioso, perseguito con determinazione, una specie di "stop and go" tenendo presente come verifica non i principi ma solo i risultati concreti. Per questi motivi seppe mediare sul fronte della destra conservatrice del vecchio Chen Yun ed anche su quello della sinistra.

Non esitò nel dicembre 1986 a sacrificare lo stesso segretario del Pcc, Hu Yaobang, giudicato troppo tenero nei riguardi dei movimenti degli studenti che, diceva Deng, "disturbano lo sforzo produttivo e di progresso del paese". A proposito della caduta di Hu Yaobang, venne ricordato un vecchio proverbio cinese: " È meglio che cada un ramo dell'albero anziché far morire tutto l'albero".

Fece dare le dimissioni a Hu Yaobang ma lo tenne nell'ufficio politico. Lo volle alla sua sinistra al tavolo della presidenza del XIII congresso del Pcc e lo fece eleggere nuovamente come membro del massimo organo.

Nel 1981 ebbi l'onore di parlare agli studenti dell'Università di Pechino. Chiesi a Deng che cosa avrei dovuto dire. "Parli con piena libertà" fu la risposta e aggiunse: "Noi puntiamo molto sui giovani. La rivoluzione culturale ci ha fatto perdere almeno 10 anni. Occorreranno molti anni per superare quei disastri. Si affermava in Cina che uno era un «eroe» se non studiava. Occorre invece sostenere: si è eroi se si studia!.." - E concludendo con una certa malizia: "Se vuol proprio dire qualcosa agli studenti cinesi dica che tre sono i doveri degli studenti: 1° studiare, 2" studiare, 3° ancora studiare".

Questa è la saggezza cinese.

Con lui la Cina ha portato avanti le prime riforme, in agricoltura, nell'industria, nello Stato. La strada per la costruzione della nuova Cina è segnata. Qualcuno la chiama il "denghismo" in contrapposizione al vecchio "maoismo".

Deng non accetta la definizione ritenendola frutto del pericoloso culto della personalità. Per lui il nome e la sostanza della nuova politica stanno nel "socialismo dai colori cinesi". I fatti interni gli hanno dato ragione ma quel che più conta è la stessa Urss di Gorbacev ad imboccare la stessa strada con la "perestroika". Deng commenta con la solita malizia: "Sì, sì, hanno capito anche loro, ma, come al solito loro, i russi, arrivano dieci anni dopo".

Deng Xiaoping ha ormai compiuto la sua opera. L'ultimo tocco lo ha fatto al XIII Congresso del Pcc ritirandosi nella "seconda fila" dopo aver insediato il nuovo leader Zhao Ziyang.

Mossa abile perché col suo esempio ha obbligato tutti i vecchi personaggi, sostenitori delle vecchie politiche conservatrici o filocomuniste a lasciare anche loro il proprio posto.

 

* * * * *

 

Colpisce, conversando con Deng Xiaoping, la visione solidale che ha dei rapporti internazionali, il non senso che riscontra - come già Zhou Enlai - nella politica dei blocchi che divide il mondo.

C'è, in questo confronto permanente di due presenze egemoniche, una differenza sostanziale: "Difensiva quella americana, pesantemente offensiva quella sovietica". Molto significativo della pericolosità di questa politica è il caso dell'Afghanistan. Dice: "la distanza da Kabul al Golfo Persico può essere coperta in sole sei ore dai carri armati sovietici, e gli Stati Uniti hanno tutto l'interesse a non lasciarsi cogliere di sorpresa da una tale eventualità e quindi la corsa a creare margini militari e politici, per fronteggiare questa evenienza. È l'equilibrio del terrore che si innesca e si consolida, conseguenza del degenerare degli accordi di Yalta, che solo il costituirsi di un sistema più articolato può superare, segnando una netta inversione di marcia".

Il discorso di Deng Xiaoping ritorna, dunque, sulla necessità dell'Europa unita, sul consolidamento dell'area Asia-Pacifico fondata su un più stretto rapporto tra Giappone e Australia, sulla stessa Cina, possibili protagonisti emergenti di nuove relazioni multipolari.

La valenza politica di tali proposte, più che nell'apporto di maggiori elementi di equilibrio nel confronto delle forze in campo, sta nel costituire esse stesse una via per dare corpo a un'effettiva volontà di pace in grado di avviare un vero "governo dei popoli del mondo". Se questa via è buona ed è percorribile, perché non incamminarsi su di essa?

"Noi giudichiamo completamente negativo questo brutale bipolarismo che si divide il dominio del mondo", dichiarava Zhou Enlai al nostro ministro degli esteri, Giuseppe Medici in visita in Cina nel gennaio 1973. E se trovava quanto meno spiegabile la volontà imperialistica degli USA, giudicava assurdo "che questo obiettivo fosse l'Urss a perseguirlo: questo è social-imperialismo: più subdolo - aggiungeva - dell'imperialismo vecchia maniera".

Mitigata l'asprezza dei termini, questo medesimo giudizio continua ad essere espresso da Deng Xiaoping, sostenuto dal riferimento storico alle zone d'ombra che, nei rapporti tra Cina e Unione Sovietica, ci sono sempre state anche nel passato, anche quando tra i due paesi c'erano "rapporti fraterni".

"I rapporti con l'Urss - mi dice Deng Xiaoping - per noi sono quanto mai chiari. Quando c'era Stalin, l'Unione Sovietica ci ha aiutato e noi abbiamo espresso e dimostrato la nostra gratitudine. Ma abbiamo rimborsato fino all'ultimo soldo. Abbiamo pagato gli impianti importati dall'Urss, il petrolio e persino i mezzi che ci sono stati forniti durante la lotta di resistenza contro gli americani in Corea. Nel 1959, quando Kruscev di punto in bianco decise di ritirare gli esperti russi rompendo gli accordi bilaterali, avevamo miliardi di debiti in vecchi rubli. L'economia cinese si venne a trovare in estrema difficoltà, aggravata ancora di più da una serie di calamità naturali. Ma abbiamo pagato tutto e con un anno di anticipo".

Questa meticolosa ricostruzione, nel discorso di Deng Xiaoping, continua con altri riferimenti al dopo-Kruscev, al comportamento di Breznev nei confronti della Cina. "C'è, in occidente, chi lo ritiene più moderato di Kruscev ma è un giudizio sbagliato. Breznev, infatti, mentre continuava ad ammassare soldati alla frontiera con la Cina, creava altri problemi in varie regioni del mondo: a lui risale l'invasione della Cecoslovacchia, a lui risale il turbamento degli equilibri politici in Africa, in Medio Oriente, in Asia. Se ci fosse stato un minimo di ragionevolezza da parte sovietica, si poteva sicuramente trovare una soluzione nella vertenza di frontiera con la Cina. Ma i russi pensano che appartenga a loro quel territorio e anche il nostro. Si tratta di un vecchio vizio".

Guardando al passato, può valere per tutti un caso emblematico, "quello della Repubblica Popolare della Mongolia, estesa per più di un milione di chilometri quadrati, regione sicuramente cinese, sottratta alla Cina nel periodo zarista, attraverso la firma di un semplice trattato". Sono tante le vertenze aperte, e a tutte si può trovare una soluzione; ma, da parte sovietica, si oppongono resistenze. "Ecco perché diciamo che la Russia è un paese social-imperialista. La rinuncia a questa politica è la condizione prima perché i nostri rapporti con l'Unione Sovietica possano migliorare. Ma l'Unione Sovietica cambierà mai questa politica?".

Il contenzioso con gli Stati Uniti d'America, che pure esiste, è di altra natura e tocca il sentimento nazionale dei cinesi: riguarda Taiwan e la "politica delle due Cine". Nel giudizio di Deng Xiaoping questo è un problema interno alla Cina nel quale nessun paese straniero può interferire, e le proposte da lui avanzate nei confronti di Taiwan tendono a saggiare il terreno per soluzioni politiche da assumere tra cinesi, pacificamente. "Il popolo cinese, dice Deng, non rinuncerà mai a unificare tutto il paese, ma, nello stesso tempo, è deciso a non creare rischi per la pace. Certamente, il problema di Taiwan, fino a quando continuerà a sussistere, presenterà degli elementi di rischio; ma è molto diverso dai tre grandi ostacoli che mettono quotidianamente in pericolo la pace nel mondo".

E Deng Xiaoping questi ostacoli li elenca uno per uno: le truppe sovietiche ammassate alla frontiera con la Cina; l'invasione dell'Afghanistan; il permanente focolaio di guerra nel Vietnam. Tutti questi ostacoli risalgono alla responsabilità dell'Unione Sovietica e alla sua politica egemonica.

Nel dicembre 1981, quando ebbi il secondo incontro con Deng Xiaoping, erano in corso a Ginevra i colloqui russo-americani sulla limitazione degli arsenali atomici e delle basi missilistiche. Deng Xiaoping si dimostrava pessimista. "Non credo nella volontà pacifica della Russia. Certo i negoziati vanno continuati; ma, penso, non si otterrà molto. Non si vede possibilità alcuna di accordo sul disarmo nucleare e neanche sulla riduzione degli armamenti convenzionali. Ridurre gli ordigni nucleari del 20% o del 40% non cambia i termini del problema. Ci sarebbero sempre a portata di mano mezzi sufficienti per distruggere il mondo. Questa non è una politica saggia".

Domando al presidente Deng Xiaoping come si spiega, in questa visione generale di pace, l'attacco cinese al Vietnam. La risposta è pronta: "Il Vietnam è la Cuba dell'Estremo oriente. Nel mondo ci sono due tipi di egemonismo: uno piccolo e uno grande. Il Vietnam fa il grande con il piccolo e cioè con la Cambogia ma è il Laos il vero obiettivo, cioè l'espansione. Contro questo atteggiamento noi abbiamo reagito".

Chiedo allora perché la Cina non è entrata militarmente anche nell'Afghanistan come ha fatto per il Vietnam. Deng Xiaoping risponde: "Facciamo di tutto per appoggiare la lotta del popolo afgano. La nostra forza, però, è limitata. Tutti i popoli amanti della pace devono aiutare di più lo sforzo di liberazione del popolo afgano cosi da imporre all'URSS una maggior prudenza. La vera nostra scelta è quella di resistere all'egemonismo. L'Afghanistan e la Cambogia sono il primo fronte, per questo bisogna resistere".

Ribatto: "Ma perché la Cina, così convinta della necessità della pace non assume essa stessa per prima una grande iniziativa di pace, sull'esempio dell'Assemblea di Cancun? Una "Cancun per la pace", preciso, potrebbe essere indetta dai grandi della terra: Deng Xiaoping, Reagan, Breznev, dai presidenti della Internazionale socialista e della Internazionale democristiana, dal Papa, dal Presidente della Conferenza dei paesi non allineati, dal Presidente della Confederazione mondiale dei sindacati...". Deng Xiaoping si schernisce. Con una punta di amarezza aggiunge che "gli altri non lo avrebbero ascoltato", come era accaduto, quando sul tema della pace aveva preso la parola all'Assemblea dell'Onu. Dice di sentirsi vecchio per iniziative di questa importanza. "Non mi resta, ormai, che aspettare, dopo i pochi anni di vita che mi restano, di andare in paradiso, dove, forse, incontrerò Marx: mentre lei, che è credente, incontrerà Cristo!". Ci salutammo con una lunga stretta di mano e un caloroso arrivederci.

 

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"Le pressioni dell'Unione Sovietica, sia sul piano politico che su quello più strettamente militare, hanno come primo obiettivo l'Europa" osservava Deng Xiaoping nel corso della conversazione del dicembre 1981. Per questo i cinesi insistono sulla necessità di compattezza del vecchio continente, come una delle condizioni per la salvaguardia della pace; compattezza che deve interessare non solo l'economia e la cultura ma anche la politica e la difesa.

"Tocca all'Europa, concludeva, guardare con realismo al proprio futuro. Se vuole salvaguardare la propria libertà, la deve difendere con mezzi propri; non può contare soltanto sull'ombrello protettivo della potenza militare americana. La presenza russa nell'Afghanistan, il conseguente pericolo di vedersi bloccate le vie del petrolio e l'aumentata pressione politico-militare nell'Est europeo, sono per l'Europa una corda al collo". Nello stesso giorno (7 dicembre 1981), in cui ci scambiavamo queste considerazioni, I'Urss interveniva nei confronti della Polonia, imponeva lo scioglimento di Solidarnosc e l'instaurazione del regime militare. Ecco, pensavo, è la corda al collo che si stringe.

Nelle valutazioni di Deng Xiaoping e di Zhao Ziyang nulla era cambiato rispetto a quanto, con insolita energia, mi era stato detto da Zhou Enlai nell'incontro del gennaio 1973. Nel corso di quella conversazione il "problema Europa" aveva trovato uno spazio e una attenzione insoliti. Vidi in quella occasione uno Zhou Enlai diverso; dismesso l'usuale atteggiamento flemmatico, molto inglese, che gli era abituale, esprimeva una reale preoccupazione.

Come era nelle sue consuetudini, Zhou Enlai prese l'argomento alla lontana, dopo avere parlato a lungo di Marco Polo, di cui dimostrò di sapere tutto, e dopo aver fatto i complimenti al ministro Medici: "Non si direbbe che lei ha 65 anni. Mi hanno riferito che sulla Grande Muraglia il suo passo era più svelto di quello degli altri e che lei ha camminato più a lungo del presidente Nixon e del presidente Tanaka. Complimenti! Complimenti!". Poi, quando affrontò il tema Europa, il tono divenne serio e preoccupato. Cominciò a parlare della necessità di approntare mezzi di difesa, delle "gallerie profonde" che si scavavano a Pechino e nelle altre città della Cina, avendo ben presente chi poteva essere il potenziale nemico pronto a invadere il paese dal nord e dall'ovest. " È una direttiva del presidente Mao Zedong ed è una necessità per la nostra difesa. Anche i paesi europei, che pure, come la Cina, desiderano la pace, debbono crearne le condizioni, debbono prepararsi. Quando si è preparati i disastri non succedono".

E proseguiva citando le raccomandazioni di Mao Zedong: "Se si vuole una difesa seria, occorre, in primo luogo, scavare gallerie profonde; in secondo luogo, non perdere le città. Per questo prepariamo opere di difesa, ci prepariamo a una guerra sotterranea. Ci prepariamo per la difesa con questa strategia. Una volta entrato, il nemico non potrà più uscire".

A questo punto, l'impassibile Zhou Enlai cambia atteggiamento. Il braccio destro immobile fa risaltare ancora di più la tensione di tutta la sua persona. Nello sguardo una luce intensa, il guizzo di un sentimento di sdegno.

Questo colloquio avveniva nel 1973, quando lo stato d'animo, da cittadella assediata, turbava la Cina, quando la persistente insicurezza interna faceva vedere l'ombra del nemico dappertutto, e la strategia era ancora quella del guerrigliero.

Il nemico era individuato in termini certi. Il rafforzamento interno era l'unica possibilità per resistergli. Il contatto con altre regioni del mondo parimenti minacciate era una necessità, se non altro per far prendere loro esatta coscienza della minaccia incombente e della sua gravità.

A cinque anni di distanza sento Deng Xiaoping parlare negli stessi termini, con lo stesso tono. Lo spunto immediato veniva dall'invasione dell'Afghanistan che si consumava in quel periodo. "Più che la Cina, le truppe sovietiche in Afghanistan condizionano l'Europa. La Russia vuole tenere sotto controllo l'Europa senza dover ricorrere a un attacco frontale. La sua è una strategia di accerchiamento. Vuole vincere senza combattere. A questo punto l'Europa deve scegliere. Non può aspettare di decidere quando la corda è già stretta o aspettare che si stringa ancora di più. Deve decidere ora se vuole continuare ad essere libera e per essere libera deve essere unita e forte".

Deng Xiaoping parlava sulla base di una esperienza che aveva origini lontane; esperienza di una pressione mantenuta costante ai confini della Cina, di un potere e di una minaccia incombente che nemmeno le affinità ideologiche erano mai riuscite a superare del tutto.

 

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Parlare con Deng Xiaoping nel 1978 e più ancora nel 1981, negli anni di lenta transizione dalla rivoluzione culturale al nuovo corso, quando andava emergendo e si andava affermando il suo ruolo di leader carismatico, significava parlare innanzitutto, oltre che di politica estera, dei problemi interni, della nuova fase politica che si andava stabilizzando in Cina.

Sulla rivoluzione culturale, sulle guardie rosse, sulla prospettiva di una società senza classi che era sembrata in via di realizzazione, sull'avvento di una generazione di "uomini nuovi" capaci di trasformare il fondamento stesso delle relazioni sociali e di introdurre una qualità di socialismo come era nel sogno di molti, si era un po' ragionato e un po' favoleggiato sia in Cina che fuori dalla Cina, e per questi sogni in Cina si era anche sofferto. Adesso ci si chiedeva cosa fosse rimasto di questo sogno che dalla Cina aveva invaso il mondo, quale consistenza avesse realmente avuto, e su quali percorsi nuovi si incamminava adesso la Cina. Su questi temi Deng Xiaoping era l'interlocutore ideale, e su questi temi ponevo a lui le mie domande per essere aiutato a capire.

Deng Xiaoping è convinto della bontà delle sue tesi. È convinto che "la strada giusta per la Cina, per il suo sviluppo e per il suo progresso, è quella unanimemente decisa alla vigilia della proclamazione della Repubblica Popolare, poi attuata abbastanza ordinatamente sino al 1956, quando, prima che con la ideologia, ci si confrontava con i problemi reali del paese e a questi problemi si commisuravano le decisioni politiche, ferma restando la prospettiva della società socialista, da costruire tenendo conto, tuttavia, delle reali possibilità. È dopo il 1956 che comincia a soffiare il vento di comunistizzazione, la spinta, cioè, ad accelerare la marcia con una rapidità tale che né le strutture sociali né le strutture economiche riescono a sostenere. La grande crisi del 1961 impone un periodo di riflessione e di relativi mutamenti; ma dopo il 1966, con la Rivoluzione Culturale, questo vento diventa tempesta e in Cina sono in tanti a perdere il senso della realtà e della misura politica".

Puntando sul sacrificio e sull'impegno personale di ciascuno, si pensa di fare compiere alla Cina, nello spazio di pochi anni, un tratto di strada che per sua natura richiede tempi molto lunghi. Non si può, in una economia ancora povera, riservare all'accumulazione per gli investimenti quote che si aggirano intorno al 40% del prodotto nazionale lordo; non si possono concentrare gli investimenti in quantità assolutamente prevalenti nell'industria pesante; bisogna tornare a quei rapporti più equilibrati che, in un primo tempo, lo stesso Mao Zedong aveva spiegato nel suo documento sui Dieci grandi rapporti nel 1956. Questa, da sempre, era stata la critica che Deng Xiaoping aveva mosso al vento di comunistizzazione.

"Adesso, dopo il 1978, riprendendo gli orientamenti di quel periodo, l'obiettivo che guida gli sforzi di tutti è quello di realizzare le quattro modernizzazioni; di modernizzare, cioè, l'industria, l'agricoltura, la ricerca scientifica, la difesa, recuperando oltre dieci anni di ritardo tecnologico dovuto al fatto che con la Rivoluzione Culturale venivano esaltati come nuovi eroi coloro i quali, proclamavano di rifiutare i vincoli sia della istruzione che della produzione per proclamare il primato della politica".

Dati questi precedenti, l'avvio del nuovo corso non è facile. "Tempo fa, alcuni amici occidentali ci hanno chiesto su quale base avremmo potuto portare avanti queste modernizzazioni. Evidentemente sono preoccupati - commentava Deng Xiaoping nell'espormi scelte e difficoltà della nuova fase politica - ma l'obiettivo di modernizzare il paese in settori vitali, è un pensiero costante, sia di Mao Zedong che di Zhou Enlai, solo che il tipo di politica dominante per alcuni anni indirizzava il paese su una strada che non era la migliore per realizzare quegli obiettivi".

Ora la situazione è diversa. "Abbiamo fatto molte analisi a mente fredda - aggiunge - e abbiamo potuto individuare alcuni dati certi. Il primo di questi dati consiste nel senso di liberazione che si respira nel partito e nel paese dopo la caduta della banda dei quattro; il secondo dato sta nel fatto che le strutture essenziali della produzione sono rimaste quasi tutte in piedi, sia nell'industria che nell'agricoltura come pure nel settore della ricerca scientifica; il terzo dato consiste nella constatazione che la politica di apertura al resto del mondo può essere praticata adesso con maggiore disponibilità. Questo fatto ci consente di acquisire più celermente i risultati aggiornati della ricerca scientifica e dell'applicazione tecnologica. Il quarto dato sta nella abbondanza attuale delle risorse naturali".

Deng Xiaoping elenca le disponibilità potenziali di petrolio, di carbone, di risorse idroelettriche; di petrolio soprattutto, la nuova ricchezza della Cina, tenuto conto delle crescenti necessità energetiche nella fase di sviluppo che si avvia.

Oggi, si parla di giacimenti di decine di miliardi di tonnellate di petrolio. La difficoltà attuale è quella di disporre dei capitali e dei mezzi per estrarlo; ma questo è un problema che si può risolvere. In passato, invece, esperti stranieri (americani, giapponesi, svedesi) che avevano fatto ricerche, avevano finito per concludere che in Cina non c'è petrolio. " È stato un nostro grande scienziato, Li Quan, ministro per la geologia, che li ha smentiti localizzando giacimenti petroliferi in diverse regioni della Cina dove altri, in passato, avevano ricercato inutilmente". Dunque, le premesse ci sono. Le quattro modernizzazioni sono realizzabili. "Per il 1985 - dice Deng - potremo essere in grado di produrre 60 milioni di tonnellate di acciaio e 400 milioni di tonnellate di cereali". La previsione si è pienamente realizzata in questi e in altri settori, andando addirittura oltre i limiti previsti e con qualche anticipo sulle scadenze.

Già nel 1981 si respirava aria nuova. Cominciavano ad essere altri i livelli dei consumi, altra la speranza della gente, altro cominciava ad essere il modo di produrre specialmente nella Cina delle campagne. Altri problemi nuovi cominciavano a profilarsi: quello dell'orientamento verso una società consumistica, in primo luogo, nel quale molti altri problemi finiscono per confluire.

"Tutto questo insieme di condizioni nuove, insolite per la massa dei cinesi, non comporta il rischio di una caduta della tensione morale che ha sostenuto la fase rivoluzionaria? L'impatto con le distorsioni del consumismo, quali fenomeni avrebbe comportato per la società cinese?" chiedo a Deng Xiaoping.

Né Deng Xiaoping né altri, in Cina, si nascondono l'incidenza di problemi di questa natura, delle conseguenze che può comportare il passaggio da una società e da forme di vita in larga parte arcaiche a modi di produrre, di consumare e di vivere profondamente diversi.

"Ma il problema non è immediato - mi risponde. - C'è tempo per adattarsi alle nuove condizioni e fronteggiarne i riflessi. Sino alla fine del secolo potremo contare solo su un piccolo benessere. Di qui alla fine del secolo abbiamo ancora diciannove anni di duro lavoro davanti a noi e molta strada da compiere per migliorare sensibilmente il nostro livello di vita. Per la costruzione del sistema socialista occorre lavorare tenacemente, sostenuti da una grande volontà e da una grande forza morale".

Accenna a un rischio che è più immediato e che riguarda una accentuata diversa distribuzione della maggiore ricchezza che comincia a prodursi: conseguenza naturale del margine crescente di autonomia che viene riconosciuto alle forze produttive e, prima ancora, conseguenza delle diverse condizioni in cui si esercita l'attività produttiva. Questi fenomeni di polarizzazione interessano singole famiglie, soprattutto nelle campagne; oppure singole unità produttive; oppure intere regioni.

"D'altra parte - prosegue Deng Xiaoping - tra i convincimenti errati da rimuovere c'è quello del livellamento egualitario, anche se un punto da tenere fermo è quello di non consentire la formazione di un contesto economico che produca il costituirsi di nuove classi".

Affiora, attraverso la problematica descritta da Deng Xiaoping, tutto l'insieme dei problemi reali che costituiscono la complessità di una società in movimento per uscire dall'immobilismo. Una società statica non ha problemi di questa natura; ma, nello stesso tempo, non registra indici significativi di crescita né sul piano economico né su quello sociale, né tanto meno politico. Una società che sceglie la "liberazione economica", anche se graduale, anche se limitata, sceglie nello stesso tempo i problemi che necessariamente ne derivano.

La coscienza di questi cambiamenti, prevedibili e difficili da governare, è presente in Deng Xiaoping e negli altri dirigenti che con lui condividono la responsabilità del nuovo corso. Si viene a sapere oggi che questo timore del nuovo era così forte nel 1981 da determinare contrasti, battute di arresto, timori, incertezze, inviti alla prudenza, che, a momenti, sembravano prossimi a prevalere e a rinviare le scelte innovative. Ma Deng Xiaoping, convinto della necessità della sua scelta, insisteva. "Siamo disposti ad assorbire capitale straniero. Nelle zone economiche speciali che intendiamo realizzare, è possibile l'impianto di imprese anche a capitale interamente straniero. Non solo, ma ipotizziamo la nascita di una economia privata, a gestione cooperativa e in qualche caso a gestione individuale, accanto alla economia socialista".

Ascoltavo con interesse. Quelle intenzioni sembravano coerenti e giuste e rispondevano pienamente a quello di cui la Cina aveva bisogno, e cioè la "liberazione delle forze produttive" che era il punto fermo di tutti i ragionamenti di Deng Xiaoping. Confesso però che stentavo a convincermi che quelle intenzioni, tradotte in programmi di governo, potessero avere vita facile. Gli riferivo quello che sul suo conto si diceva in occidente, e che a lui, del resto, era noto; della sua attitudine pragmatica, diversa dalla attitudine teorica di Mao Zedong.

Ascoltava e mostrava di apprezzare questo giudizio, quasi come il riconoscimento di un merito. "Fosse vero. Certamente un primo punto da tenere fermo è quello di restare bene ancorati alla teoria. Ma anche Marx insiste sulla necessità di tener conto delle condizioni e delle circostanze pratiche, delle esigenze della produzione. Solo teoria o solo pratica non sono marxismo, e la teoria va confrontata con la pratica; dal confronto risulta lo sviluppo del marxismo. Così è stato per il principio dell'egualitarismo. Il principio di «mangiare tutti alla stessa marmitta» ha impoverito la Cina, nel senso che aumentava sì la produzione, ma secondo un rapporto assai basso rispetto ai mezzi investiti. Abbiamo verificato quanto questo principio fosse erroneo, e adesso cominciamo a correggerlo".

Inserendomi nel suo ragionamento, gli ricordavo come era finita male quella affermazione della superiorità del socialismo così come praticato nell'Unione Sovietica, lanciata da Kruscev quasi come una sfida a Kennedy nella gara dello sviluppo e come i fatti gli avevano dato torto.

Deng Xiaoping non si infastidisce per questi riscontri, anche perché non lo riguardano in modo diretto, non essendo il socialismo di Kruscev quello che i cinesi prendono a modello. "Il comunismo secondo l'interesse della Cina non ha modelli di riferimento e viene costruito giorno per giorno attraverso i fallimenti e le vittorie che via via si registrano".

Alla fine, e qui torna a fare capolino la visione escatologica della Grande Armonia, alla fine "quando la società sarà costruita secondo le regole che le sono proprie, qualunque -ismo sarà eliminato, compreso il marxismo, e alla fine ci sarà maggiore benessere e maggiore giustizia nel mondo". Così ragionando, Deng Xiaoping dimostrava quanto la sua visione dello sviluppo della società fosse tributaria di tutta una tradizione di cultura politica propria della Cina non meno di quanto lo era stata la visione di Mao Zedong.

"Noi diciamo che questa visione della società giusta è una visione cristiana" gli feci osservare.

"Io non ho studiato questa vostra dottrina e quindi non lo so. Certo, bisogna guardare alle cose concrete".

L'indomani dovevo andare a parlare agli studenti dell'università di Pechino. Gli dissi che pensavo di riproporre ad essi quelle stesse riflessioni che avevamo sviluppato durante quella nostra lunga conversazione. Gli chiesi se aveva da suggerirmi qualche altra idea.

"Dica quello che vuole" fu la sua risposta. "Parli in piena libertà".

Insistetti: "L'infantilismo della banda dei quattro è definitivamente superato?"

"Sì, sono stati 10 anni difficili, anche di sabotaggio. Occorreranno molti anni per superare quelle negligenze, quei disastri. Abbiamo perso almeno una intera generazione. Abbiamo perso tutta la gioventù. Sabotare e distruggere è facile, costruire è difficile. Si affermava che uno era un «eroe» se non studiava; occorre invece rovesciare: si è eroi se si studia. Bisogna ricominciare dai primi anni di scuola con un lavoro tenace. Si possono vedere giovani strani nelle strade; fenomeni che voi stranieri conoscete meglio di noi. Questi ultimi anni abbiamo avuto un cambiamento notevole. Gli studenti medi e gli universitari hanno ripreso a studiare bene. Tutto questo ci fa ben sperare".

L'indomani parlai agli studenti. Dissi tutto quello che avevo in mente di dire. Parlai in piena libertà. Parlai dell'occidente e del sistema di libertà che lo governa; parlai della ricerca scientifica e dei cambiamenti che essa genera; parlai del marxismo, secondo le esperienze a noi più vicine. Dissi che il sistema marxista-collettivista, eliminata entro certi limiti la povertà sul piano economico, assicurato un certo grado di sviluppo, ha dovuto prendere atto che il motore perdeva colpi, mortificando soprattutto la dimensione della libertà.

Più nel dettaglio parlai di due principi propri di una politica solidarista, che qualificano i comportamenti delle forze democratiche in occidente, tendenti ad armonizzare gli aspetti positivi delle libertà individuali con quelli della giustizia e cioè: il principio del superiore valore della persona umana alla quale deve essere subordinato ogni altro valore, a cominciare dall'economia concepita a servizio dell'uomo e non viceversa; il principio di solidarietà inteso come spirito di servizio, come presenza dello stato nella sua funzione di fautore del bene comune, di sostegno dei soggetti più deboli. Sforzo, quindi, per superare sia la strada del capitalismo sia quella del collettivismo per tracciare quella del solidarismo. Avvertivo la sintonia che veniva a stabilirsi con l'uditorio che mi stava di fronte, attento. Alla fine, ci furono tanti interventi, richieste di precisazioni, di chiarimenti, alcune obiezioni, poi un grande e prolungato applauso.

 

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Di eurocomunismo e della politica del Pci ho avuto modo di parlare più volte con gli amici cinesi mettendo in risalto i tentativi dei comunisti italiani anche se non sempre riusciti, di cercare una propria linea autonoma rispetto a quella del Pc sovietico. Gli interlocutori cinesi erano personaggi storici del comunismo mondiale. Avevano avuto la possibilità di incontrarsi e anche scontrarsi nelle varie riunioni a livello internazionale. Nel bene e nel male questo grande fenomeno storico rappresentato dal comunismo mondiale porta anche i loro nomi.

Le decisioni di autonomizzazione dei vari partiti comunisti europei, pur nelle differenze di forme, modi e tempi, si potevano associare a quelle assunte dallo stesso partito comunista cinese.

Ognuno ha cercato una propria via nazionale. In Europa abbiamo assistito a iniziative tendenti a realizzare addirittura un nuovo corso continentale l'eurocomunismo, che ha visto uniti in questo sforzo, almeno sul piano della ricerca, il Partito comunista italiano, quello francese e quello spagnolo di Carillo. Ancor prima sono da ricordare gli atteggiamenti di autonomia del Partito comunista rumeno, di quello jugoslavo e anche quello, ancor più duro nei riguardi dell'Urss, del Partito comunista albanese.

L'argomento dei rapporti tra Pcc e Pci lo avevo affrontato già nel primo colloquio con il premier Zhou Enlai nel 1971. L'atmosfera era cordiale, di confronto di pareri sui vari temi. Zhou mi aveva parlato di De Gasperi, di Mattei esprimendo, con spontaneità, anche giudizi espliciti sul loro operato.

Era, quindi, giusto affrontare questo tema con un interlocutore così qualificato.

Zhou Enlai, forse più dello stesso Mao Zedong, aveva maggiormente seguito nel Pcc il tema dei rapporti tra i vari partiti comunisti del mondo e quello fondamentale dei rapporti con il partito guida cioè il Partito comunista sovietico.

Devo dire che non mi aspettavo affermazioni così esplicite in un colloquio con un grande del comunismo mondiale come Zhou Enlai e tanto meno che dovesse toccare a me, proprio qui a Pechino, il ruolo di sostenitore se non proprio di difensore della linea di autonomia del Pci.

"E del Pci che opinione avete?" ho chiesto a Zhou. Zhou Enlai tergiversa un po' ma poi replica: "È un partito revisionista. Tutti i partiti comunisti europei sono di questo tipo. Sono in una posizione ambigua: sostengono la tesi dell'autonomia degli stati nazionali e contemporaneamente sono subordinati alla politica dello stato-guida, cioè dell'Urss".

"Però il Pci sostiene la tesi della linea di autonomia; anzi è forse il più avanzato su questa linea".

Risponde: "Sì, sì, ma occorrono i fatti. Noi neghiamo con forza la funzione di partito-guida al Pc sovietico. Tutti devono essere a livello di parità. La verità di una posizione non sta nella dimensione quantitativa di chi la sostiene ma sta nel suo valore oggettivo. Può venire anche dalla piccola Albania o dalla Cecoslovacchia. Noi giudichiamo, ad esempio, un'operazione imperialista l'invasione della Cecoslovacchia".

"Anche il Pci ha tenuto una linea critica sull'invasione della Cecoslovacchia".

"Nei fatti, l'atteggiamento del Pci è stato insufficiente. L'Urss continua la sua politica di egemonia".

Era quanto mai opportuno che di questo delicato problema, l'eurocomunismo, ne parlassi anche con il premier Deng Xiaoping.

Feci la domanda in modo esplicito ottenendone un'altrettanta esplicita risposta che lo fece sobbalzare:

"Il vostro giudizio sull'eurocomunismo?" .

"Quanto all'eurocomunismo non riteniamo sia comunismo. C'è un punto che va spiegato: non è sufficiente il fatto di dichiararsi indipendente dall'Urss. Prima o poi dovranno stare da una parte o dall'altra".

Aggiunsi: "Gli eurocomunisti finora, di fatto, si oppongono soltanto agli Usa. Vogliamo vedere come va a finire. Qual è il suo parere di vecchio comunista? Che giudizio dà di Marchais, Berlinguer e Carillo?"

La risposta fu immediata: "So che non fa piacere all'Urss quando sventolano le insegne dell'eurocomunismo. Ora vedremo da che parte andranno. Noi riteniamo che l'eurocomunismo di Berlinguer, di Marchais e Carillo non è comunismo. È naturale che voi italiani ci pensiate più di noi, ora vorrà dire che anche noi osserveremo con maggiore attenzione l'intero problema".

Anche nel secondo colloquio con Deng Xiaoping, nel dicembre '83, affrontai il tema dell'eurocomunismo e del comportamento dei singoli partiti comunisti, compreso quello italiano, specie sul fondamentale tema della pace.

Un tema sul quale il Pci sembra essere molto prodigo di affermazioni, sempre disposto a partecipare a manifestazioni di piazza spesso in modo unilaterale, cioè antiamericano e antiNato, e sempre meno propenso ad assumere comportamenti concreti atti a scoraggiare o impedire decisioni aggressive dell'Urss.

Avevo presenti le continue richieste di spiegazione degli ambasciatori cinesi a Roma circa le grandi manifestazioni "cosiddette pacifiste" sostanzialmente pilotate dal Pci, ritenendo essi che un'azione più decisa dei Pc europei, anche nei riguardi dell'Urss, poteva essere positiva per il mantenimento della pace nel mondo.

Esprimevano la stessa linea di prudenza del Pcc: se da una parte afferma la propria posizione contro "l'egemonismo delle due grandi potenze" dall'altra rispetta e sottolinea quello della libera scelta di ogni partito.

Espressi un giudizio: "L'atteggiamento dei Pc europei è un po' ambiguo".

Deng: " È una scelta dei partiti comunisti europei. I cinesi mancano di conoscenze immediate nei riguardi dell'Europa. Noi apprezziamo che il Pci abbia una propria visione dimostrando una differenza rispetto ai suoi comportamenti del passato. Per questo abbiamo migliorato i rapporti con il Partito comunista italiano. Ora questi rapporti sono buoni. Sarebbe una cosa grave se ascoltasse sempre la voce di Mosca".

"Questa posizione del Pci può essere solo una dichiarazione d'intenti: nei fatti, il Pci ha votato contro l'installazione dei missili Nato in Italia. Ha votato contro la costituzione del sistema monetario europeo (Sme). La Democrazia Cristiana e il Partito socialista hanno invece votato a favore. C'è differenza tra le dichiarazioni e i comportamenti concreti del Partito comunista italiano".

Deng: "I comunisti italiani devono risolvere i loro problemi. Noi comunisti cinesi auspichiamo un'Europa unita e forte".

"Ma in questo sforzo devono collaborare anche gli altri partiti comunisti. Le ha dette queste cose al Pci, a Berlinguer?".

Deng: "Sì, abbiamo parlato apertamente e ci auguriamo che l'Europa assuma una posizione più forte anche con il governo degli Stati Uniti. Certo, qualche nodo esiste anche tra Cina e Stati Uniti però, strategicamente, anche se dovesse capitare qualche attrito non modificheremmo la nostra posizione nei riguardi degli Stati Uniti".

"Ma il Pci nei fatti non sembra abbia capito il suo consiglio".

Deng. "Si deve pensare in modo indipendente. Il giudizio è difficile. Noi siamo chiari sul problema del superamento delle due egemonie e riteniamo che sia le linea giusta. D'altra parte rispettiamo, anche se a volte non approviamo, le decisioni degli altri partiti comunisti. Ognuno ha il diritto di percorrere la propria strada".

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Del problema Cina ho più volte parlato con Aldo Moro. E questo non solo per le sue responsabilità dirette come Ministro degli esteri o come Presidente del Consiglio, ma perché con lui c'era sempre da imparare specie sui grandi temi dei popoli, dell'umanità, della pace.

Del resto, della sua politica, della sua grande statura, del suo ruolo determinante nella vita italiana, ho più volte parlato con i vari ambasciatori cinesi, accreditati presso il nostro paese dovendo rispondere a precise domande di chiarimento, di conferma e di indirizzo. Moro era, evidentemente, anche per loro il vero perno della politica italiana. Lo capivo, dalle espressioni gentili del primo ambasciatore Shen Ping che era commosso per il "bellissimo fiore" ricevuto da Aldo Moro in occasione del suo arrivo in Italia, fino alla profonda commozione che ho percepito nell'ambasciatore successivo (ex presidente della Associazione per l'amicizia) durante i tristi giorni del rapimento.

Non furono per me motivo di meraviglia, ma di grande conforto, la sue espressioni di convinta solidarietà, quando ci incontrammo sul sagrato della Chiesa di S. Giovanni in Laterano in occasione della maestosa e nello stesso tempo tragica celebrazione funebre officiata da Paolo VI.

Lo ringraziai per questa sua partecipazione così sentita. Io avevo gli occhi lucidi, pieni di lacrime; anche lui era visibilmente commosso. Ricordo una frase da lui ripetuta più volte: "Aldo Moro era un grande statista, un grande uomo. Sì, un grande uomo!".

Dell'uccisione del presidente Moro ebbi modo di parlare con Deng Xiaoping in un incontro (maggio 1978) a Pechino. Non sapevo che i due uomini si erano incontrati. La conversazione, inevitabilmente, toccò il problema più generale del terrorismo, le sue radici, eventuali protezioni.

"Le porto il saluto dell'onorevole Andreotti e un ringraziamento per le espressioni di solidarietà che la Cina ha avuto in occasione dell'uccisione di Aldo Moro. Vi siamo grati per le vostre dichiarazioni di amicizia e di condanna per qualsiasi atto di terrorismo".

Deng: "Siamo rimasti tutti enormemente amareggiati. Anch'io personalmente sono stato colpito. Ho conosciuto l'ex premier Moro nel '75 all'Onu. Ho parlato con lui. Ho potuto constatare la sua grande statura politica. Rinnovo ancora a lei e al suo paese il mio cordoglio. Ma le brigate rosse che organizzazione sono?".

"Non siamo riusciti a identificarle. È certo però che vogliono la destabilizzazione dell'Italia e dell'Europa. Da questo se ne capisce la matrice politica".

Deng: "Si tratta di un'organizzazione che gioca con la manovra del terrore. Si definiscono marxisti-leninisti e anche maoisti. Ma Marx, Lenin e Mao, come tutti gli autentici marxisti-leninisti, si oppongono al terrorismo perché è un atto isolato dalle masse, un atto che non si potrà mai chiamare «rivoluzione». Quelle dei «brigatisti rossi» sono soltanto manovre. Può darsi sia un'organizzazione controllata da agenti segreti. Si dice abbiano usato armi cecoslovacche. Certo bisogna andare più a fondo".

"È questo l'impegno del nostro governo. Dobbiamo tutti collaborare nella lotta contro il terrorismo".

Deng: "I brigatisti rossi per ora fanno manovre soltanto in Europa. Prima della morte di Mao non si sapeva neppure dell'esistenza delle Brigate rosse. Certo che occorre vigilare contro tutte le forme di terrorismo. Rinnovo le espressioni di solidarietà a lei e al popolo italiano".

Anche nella conversazione del dicembre 1981 con Deng Xiaoping parlammo di terrorismo. È stato Deng Xiaoping a introdurre l'argomento.

Deng: " È risolto il problema terrorismo?".

"No, purtroppo è ancora presente".

Deng: "A chi se ne fa risalire l'azione?".

"I brigatisti si rifanno all'ultrasinistra e anche al pensiero politico del presidente Mao".

Deng: "È una calunnia riferirsi al pensiero di Mao che si opponeva come Marx, a qualunque terrorismo".

"Recentemente abbiamo avuto tre momenti di grande destabilizzazione: l'attentato a Reagan, al Papa e l'uccisione di Sadat. Certo tutto fa capo al problema di fondo, cioè alla politica di pace che sta al centro degli incontri di Ginevra tra Stati Uniti e Unione Sovietica".

Deng: "Sì, la pace deve essere un impegno di tutti. Il terrorismo deve essere combattuto in qualunque paese. Noi lavoriamo intensamente in questa direzione".

ZHAO ZIYANG: LEADER DELLA NUOVA GENERAZIONE

Basta vedere le fotografie ufficiali distribuite dopo il XIII Congresso del Pcc per capire il grande salto compiuto.

Beijing Information, una delle riviste cinesi più qualificate, pubblica in prima pagina il vecchio Deng sorridente, nel classico vestito alla cinese, che presenta il nuovo leader Zhao Ziyang che si presenta più come un manager uscito da Wall Street in abito occidentale di ottima fattura.

La Cina cambia, è cambiata, lo vuol far sapere all'intero mondo.

Zhao ha illustrato al XIII Convegno il rapporto dal titolo: "La marcia in avanti sulla via di un socialismo alla cinese".

Riallanciandosi alla grande svolta del 1978 fatta da Deng, afferma che in 8 anni (1978-86) la Cina ha raddoppiato il proprio reddito e lo raddoppierà nuovamente entro l'anno 2000. I bisogni primari della popolazione che supera il miliardo sono ormai soddisfatti. Sono stati creati 70 milioni di nuovi posti di lavoro nell'industria. Nelle campagne 80 milioni di contadini sono passati ai lavori non più agricoli ma di trasformazione dei prodotti e nel terziario.

È il rapporto al paese di un vero statista e i problemi della lunga marcia sono ormai lontani e superati.

Zhao è il primo leader cinese della nuova generazione. Non ha fatto la lunga marcia, né l'esaltazione della "rivoluzione culturale". Il suo obiettivo è la "modernizzazione della Cina", cioè fare di questo paese di un miliardo di persone, un paese grande, moderno, capace di rispondere alle esigenze ciclopiche della propria esistenza e sviluppo e di adempiere con responsabilità alla funzione storica a livello mondiale.

È stato uno dei collaboratori più stretti di Zhou Enlai che considera, con Deng, il suo vero maestro.

È stato il primo segretario del Pcc del Sichuan, la provincia più popolosa della Cina (più di 100 milioni di abitanti) realizzando con grande successo sia la riforma agricola che quella industriale. È un vero uomo di Stato.

La conversazione con lui verte proprio sui temi dello Stato, sulla politica economica, sulla politica estera e sull'Europa.

Alla fine di un colloquio, in occasione della sua visita a Roma nel maggio 1984, proprio sui temi europei (eravamo alla vigilia delle elezioni e si sentiva in giro una caduta di tensione) dichiarai:

"Non ho mai incontrato europeisti così convinti come gli amici cinesi".

La sua risposta: "Mi creda, non è solo perché una Europa unita conviene alla Cina, ma per profonda convinzione; una Europa unita conviene a tutto il mondo!".

È stato il sostenitore di una economia aperta all'estero e libera all'interno, del mercato, della funzione strategica dei prezzi. Nel campo del lavoro ha voluto il superamento del vecchio principio di "mangiare tutti alla stessa pentola", l'applicazione della "meritocrazia" più spinta.

Il principio di fondo del nuovo corso, sanzionato dal XIII Congresso, sta nella distinzione tra Partito e Stato, Partito ed Economia, Partito e Società.

Il partito politico si deve ritirare e anche esaltare nella sua funzione di indirizzo rispettando le autonomie proprie dello Stato, della economia, della società.

Alle insistenti domande come sia possibile conciliare tutte queste scelte di fondo proprie della democrazia occidentale con i principi e la prassi del marxismo, risponde: "Questa è la nostra scommessa, la nostra sfida. Questo è il socialismo dai colori cinesi che cerca la sua verifica non sulla base di vecchi dogmi, ma sui fatti, sui risultati. Ed i primi risultati, piccoli o grandi ci sono, li vedete anche voi e ciò che più conta lo constatano i cinesi che sono un miliardo e non pesano più sul resto dell'umanità come pesano invece l'Africa, l'America latina ed intere aree dell'Asia".

È il miracolo della Cina che non solo è ormai autosufficiente ma è diventata esportatrice di prodotti agricoli.

Basteranno queste riforme e questi risultati?

Certamente no. Ma questo non è un problema cinese ma dell'intero mondo.

Alla vigilia dell'inizio del III millennio della storia dopo Cristo si impone un rifacimento della storia, della realtà e dello sviluppo dell'intera umanità. Davanti alle trasformazioni in essere, quali risposte dare?

È possibile e quale tipo di "nuovo umanesimo" saremo in grado di elaborare per questo III millennio di storia?

Certo che il mondo è cambiato. Le vecchie posizioni di rendita non reggono. Occorre realizzare nuovi equilibri.

Per secoli la funzione dell'Europa, il vecchio Continente, è stata quella di perno dell'equilibrio mondiale sul piano culturale, sociale, economico e politico.

Poi l'Europa ha fatto blocco con l'America e l'intero mondo ha ruotato attorno all'asse dell'Atlantico. Ora non è più così. Questo asse si sta spostando, anzi, si è già spostato.

Si è spostato verso il Pacifico trovando i punti di forza nella costa americana del Pacifico da una parte e dal Giappone e Cina sull'altra costa del Pacifico.

E concludemmo con grande amicizia:

"Come andrà a finire? Non si tratta certo di rivendicare primizie geografiche che hanno poco senso ma primizie di valori, di civiltà, di umanesimo a misura d'uomo.

Ed in questa gara tutti sono impegnati a dare il proprio contributo. È l'eterna e continua «lunga marcia» dell'intera umanità. I cinesi, da parte loro, hanno compiuto passi significativi e dichiarano la propria disponibilità.

Sì, diamoci la mano: insieme si cammina meglio e più velocemente".

Durante le tremende giornate di "Piazza Tian’anmen" (1989) ho ripensato molto alla sincera amicizia nata con Zhao Ziyang ed a queste parole che ci siamo scambiate.

Zhao Ziyang è stato il punto di riferimento più qualificato dei giovani studenti. Era il loro interprete più genuino che cercava di incanalare la forte protesta giovanile in modi e tempi costruttivi, cioè compatibili con le cadenze reali della situazione cinese. Era, certo, dalla parte degli studenti. Capiva le loro giuste richieste ma sapeva anche che il tutto doveva essere portato avanti con gradualismo e nel rispetto dell'autorità dello Stato.

Chiedeva che finisse il tragico sciopero della fame degli studenti, che terminasse pacificamente l'occupazione della piazza con l'impegno che si iniziassero subito concrete trattative tra le parti.

Per questo Zhao era disponibile e dava fiducia agli studenti.

Questo suo atteggiamento di fiducia non era condiviso dalla intera dirigenza cinese ma Zhao arrivò a proporlo ufficialmente agli studenti scendendo con loro nella piazza.

Purtroppo gli studenti non credettero, non accettarono questa possibilità o, forse, tardarono troppo nel prendere la decisioni per una risposta.

Tremende sono le immagini di quei momenti diffuse nel mondo dalle diverse TV

Si è visto uno Zhao Ziyang discutere animatamente con i leaders studenteschi quasi piangente, quasi supplicante, presagendo le conseguenze tragiche di un'eventuale non accettazione delle sue proposte da parte dei dimostranti.

Così è avvenuto e fu una grande tragedia per i giovani cinesi, per la Cina intera e per lo stesso Zhao Ziyang che fu subito dimesso da ogni incarico.

Personalmente, ricorderò sempre il viso piangente di questo amico impegnato anche in Piazza Tian’anmen per il bene del proprio Paese, e penso che Zhao Ziyang potrà ancora essere utile al popolo cinese.

INCONTRO CON HU YAOBANG
SEGRETARIO GENERALE DEL PCC: L'IDEALISTA

L’”Agenzia Nuova Cina" del 9 dicembre 1986 annuncia:

"Il Segretario Generale del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (Pcc) Hu Yaobang, oggi, rivolto agli ospiti italiani, ha detto che con il conseguimento dell'unità europea, ciascuna nazione d'Europa avrà la capacità di tenere in pugno il proprio destino. Se l'Europa, formata da così tante nazioni e con tale pluralità di partiti, potrà esprimersi all'unanimità sul problema del mantenimento della pace, la Cina non potrà che rallegrarsene.

Hu Yaobang ha incontrato, questo pomeriggio, nella residenza Zhongnanhai, la delegazione dell'Istituto Italo Cinese per gli scambi economici e culturali guidata dal suo Presidente il Sen. Vittorino Colombo.

Durante il colloquio si è avuto un largo scambio di vedute su problemi di interesse comune.

Rispondendo alla richiesta del Sen. Vittorino Colombo, Hu Yaobang ha spiegato gli obiettivi e le direttive politiche dell'edificazione di una civiltà spirituale socialista che il Partito Comunista Cinese, alla guida del popolo cinese, ha intrapreso. Vittorino Colombo è un noto politico italiano, un vecchio amico della Cina. Hu Yaobang, durante il colloquio, ha lodato l'utile lavoro da lui svolto per promuovere l'amicizia fra i due popoli".

Il comunicato è stato pubblicato anche su "Il Quotidiano del Popolo" del 10 dicembre 1986.

Avevo già incontrato il Segretario del Pcc in occasione della sua visita in Italia nel 1986. L'incontro era stato di pura cortesia con l'impegno di rinnovarlo in Cina proprio per approfondire i problemi di natura specificatamente politica e di partito.

Hu Yaobang è un personaggio molto vivo, accetta il confronto sugli argomenti più diversificati ed anche più delicati; non usa le mezze misure. Esprime con chiarezza le proprie convinzioni. Sa ascoltare gli interlocutori.

Anche lui come Zhao Ziyang è stato scelto da Deng Xiaoping per la nuova politica del socialismo dai colori cinesi. Il primo, Zhao Ziyang, per la guida del Governo del Paese; il secondo, Hu Yaobang, per la guida del Pcc in un passaggio così delicato.

Hu Yaobang conosce bene il Pcc. È stato per molti anni il responsabile del Movimento giovanile. Conosce e capisce il "nuovo che avanza"; conosce la nuova classe dirigente che si fa avanti. È sensibile ai problemi ideologici, ai valori e principi del movimento rivoluzionario comunista cinese, al nuovo corso, che, con l'apertura al mondo, potrebbero subire un confronto durissimo. Hu Yaobang guarda più al "nuovo uomo cinese" che alle cose cinesi.

La civiltà spirituale socialista è il tema iniziale del nostro colloquio.

L'argomento aveva formato oggetto di una specifica risoluzione del CC del Pcc in data 29 settembre 1986. Gradivo conoscere il significato di detta risoluzione sia nei contenuti oggettivi sia nei suoi riflessi politici.

La risposta entra immediatamente nel merito.

"Si ritiene - afferma Hu Yaobang - che la civiltà spirituale socialista sia un aspetto fondamentale del nuovo corso della politica cinese cioè «Il socialismo dai colori cinesi». Questa scelta per la Cina è irreversibile. Le tappe di questo processo passano dall'impegno per le quattro modernizzazioni a quello della democrazia economica ed alla riforma politica. Si sono già ottenuti notevoli risultati a conferma della validità della scelta. Occorre procedere su questa strada che è continuamente da verificare proprio nei suoi obiettivi. Non basta perseguire il progresso economico, riempire lo stomaco delle persone o dare loro il televisore a colori. Occorre formare la gente e realizzare i valori della giustizia, della solidarietà, dell'etica e dell'umanesimo socialista.

Questo impegno per la realizzazione della civiltà spirituale socialista è di grande aiuto per evitare gli errori dei modelli storicamente realizzati nel mondo: quello del capitalismo e quello del socialismo reale. Non sarà un impegno facile e breve; per questo è stato mobilitato tutto il partito".

Faccio presente la difficoltà del mondo occidentale a capire come una politica dichiaratamente materialista, come quella del Pcc, che fa del materialismo storico uno dei principi base del proprio modello formativo e di sviluppo ricorra, con una sottolineatura tanto forte da renderla oggetto di una specifica risoluzione del Cc del Pcc, ad espressioni ed ancor più a concetti come "spiritualità - etica - umanesimo, ecc.".

La risposta è stata esplicita:

"Noi ci preoccupiamo molto dei contenuti e meno delle etichette. Siamo preoccupati di alcuni aspetti che ritardano il nostro cammino. L'impegno per la realizzazione della civiltà socialista fa parte della nostra strategia in modo organico".

Chiedo se non è stata sufficiente la rivoluzione, l'esperienza della lunga marcia per realizzare questi valori.

"No, è un processo continuo. Vogliamo che sia elevato anche il livello morale del paese. Le ricchezze non bastano. L'obiettivo è quello di fare della Cina un grande paese socialista con alta democrazia".

Riferisco a Hu Yaobang che sull'esigenza di realizzare i valori di un vero "Umanesimo" anche la forza politica a cui faccio riferimento, la Democrazia Cristiana, si trova impegnata nel contesto del mondo occidentale. Anche in Europa sono forti i pericoli del consumismo, della soddisfazione individuale a scapito dei valori più universali.

Si conviene sulla positività dei rispettivi impegni, pur inseriti in un contesto storico diverso, ma ugualmente indirizzati verso obiettivi di "umanesimo" che hanno molte caratteristiche comuni.

Da qui la positività di un rapporto più intenso nella ricerca di politiche capaci di meglio raggiungere il risultato che rimane, per l'umanesimo socialista perseguito in Cina e per l'umanesimo cristiano, quello di costruire, forse, una terza via diversa da quella del modello capitalista e del socialismo reale.

È questa la grande sfida che ci presenta il nuovo millennio della storia dell'umanità.

Parliamo poi di politica estera, di unità dell'Europa. La Cina continua nella propria linea di politica estera tesa a garantire la pace nel mondo.

Per questo obiettivo occorre arrivare al superamento della posizione egemonica delle due superpotenze USA-URSS.

La Cina prende atto delle dichiarazioni fatte dal Segretario del Pc Sovietico Gorbaciov a Vladivostok ma aspetta che a queste dichiarazioni seguano fatti concreti. "La politica si realizza coi fatti - afferma Hu Yaobang - e fra questi fatti mettiamo certamente il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan".

Una funzione importante per il mantenimento della pace nel mondo la può esercitare l'Europa per la sua civiltà, la sua tradizione ma anche per la sua forza sul piano scientifico, tecnologico e per la sua posizione strategica verso le due superpotenze ma anche verso il continente africano.

Chiedo il suo parere sui problemi del disarmo e sulle preoccupazioni dell'Europa se il processo dovesse riguardare solo l'armamento nucleare. L'opzione zero sul piano nucleare metterebbe l'Europa in posizione di grave inferiorità rispetto all'Urss.

Hu Yaobang ritiene che il problema di base sia quello dell'unità dell'Europa: "L'Europa unita ha nelle proprie mani il proprio destino. La Cina sostiene che il disarmo debba essere totale cioè nucleare e convenzionale. Un disarmo zoppo non risolve il problema. Queste tesi noi le sosteniamo sia con i giovani sia con i partiti dei vari paesi. Le abbiamo sostenute anche con il Pci sempre rispettando la specifica autonomia sulla base del principio, per noi fondamentale, della non interferenza negli affari interni di ogni partito".

Conclusi il colloquio con un ritorno ai problemi politici.

"Nell'illustrare il documento «Civiltà spirituale socialista», lei usa, spesso, i termini Etica socialista - Umanesimo socialista. Da ciascuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni. Democrazia economica, democrazia politica. Ma questo - dico con forza - non è più marxismo. Noi in occidente la chiamiamo democrazia sostanziale e per chi crede in valori spirituali questo è umanesimo cristiano".

La risposta fu: "Sì, sì, ma è sempre questione di termini e a noi, invece, importa la sostanza!"

JIANG ZEMIN - SEGRETARIO GENERALE DEL PCC, PRESIDENTE DELLA RPC

Nel corso di una permanenza in Cina volta all'incontro e alla conoscenza dei nuovi dirigenti cinesi, impegnati nella realtà delle città, delle università, delle fabbriche incontrai, fra l'altro, i sindaci di Pechino, di Tianjin, di Shanghai, di Nanchino, di Canton (dicembre 1986).

Mi ha colpito il Sindaco di Tianjin, Li Ruihuan, formatosi alla scuola del lavoro (come operaio edile) e poi a quella di sindaco di una città che ha dovuto affrontare la fase di ricostruzione dalla quasi completa distruzione causata da un terribile terremoto. Ora l'ex Sindaco di Tianjin è membro dell'ufficio politico del CC del Partito.

Ricordo in particolare Jiang Zemin, Sindaco di Shanghai, uomo della generazione dei cinquantenni, laurea in ingegneria elettronica all'Università di Mosca, per diversi anni dirigente di fabbrica e poi del Ministero della pianificazione, con notevoli contatti col mondo internazionale. È lui che guida una delle prime commissioni cinesi in Giappone. È un poliglotta.

Volto aperto, pronto alla risata fragorosa, non guarda troppo le forme cercando di andare al cuore dei problemi.

Era ancora in corso la "primavera cinese", una specie di surriscaldamento dell'intero sistema del paese che poi sfociò nei fatti di Piazza Tian’anmen. In agitazione gli studenti, manifestazioni degli operai, critiche degli intellettuali.

Perché queste agitazioni, queste critiche, questa primavera?

Due le spiegazioni emergenti e, come spesso, tra loro contrastanti. Da destra, dalle forze conservatrici si teme che la nuova politica delle riforme riporti al disordine, al caos della rivoluzione culturale.

Da sinistra, cioè dagli ambienti progressisti e riformatori vicini allo stesso Deng Xiaoping, si sostiene che il corso delle riforme sia troppo lento e scarsamente incisivo.

Gli striscioni degli studenti erano tutti nel senso di una accelerazione del processo di riforma con riferimenti espliciti al vecchio leader: "Deng, dove sei? Fatti vedere!"

Le richieste degli studenti cinesi, mi dice il Sindaco Jiang Zemin, sono tutte nel senso delle riforme: "Più rapide riforme democratiche, maggior libertà di stampa, riconoscimento del carattere democratico della protesta, garanzie per i giovani, miglioramento dell'università".

Il giudizio di Jiang Zemin è esplicito e sereno: "Sì, bene le riforme, ma il vero problema sta nella scelta della velocità di marcia con cui si decide di andare su questa strada. È del tutto naturale che i giovani siano i primi ed anche i più decisi a cavalcare il nuovo, tanto più se questo nuovo va nel senso della maggior liberalizzazione. Questo vale per i giovani della Cina, dell'Europa, dell'America e speriamo presto della stessa Urss. I germi di riforma, di democrazia, di libertà sono di per sé diffusivi e lo stesso Deng Xiaoping ne ha seminati molti di questi germi. Si tratta, come sempre di coordinarli, incanalarsi verso gli obiettivi desiderati perché non sempre la strada segue il corso lineare in modo spontaneo. Occorre intervenire senza stroncare!"

Ed ancora con un certo orgoglio: "Gli obiettivi non sono più la bicicletta, l'orologio, la macchina da cucire, simboli della prima società, ma il televisore a colori, il frigorifero, la lavatrice, la casa propria. Tutti simboli della società avanzata. Questa è la nuova Cina! Non si cambia una strada, quella della democrazia economica, che ha dato risultati concreti per una incerta che ci riporta al vecchio!"

Un altro incontro con Jiang Zemin lo ebbi nel settembre del 1992 a Pechino poco prima dell'apertura del Congresso del Pcc.

Non era più Sindaco di Shanghai ma occupava la carica di Segretario del Pcc. L'incontro avvenne proprio nel cuore del potere della nuova Cina, lo stesso luogo in cui incontrai l'altro Segretario Hu Yaobang.

Rispondendo ad una mia domanda piuttosto pungente: "In Europa sono crollati i muri che dividevano l'Ovest dall'Est. È crollata l'Urss e con essa il marxismo. Come sarà, secondo gli amici cinesi che si definiscono ancora marxisti, la società futura?"

La risposta è molto chiara e globale: "In Cina si dice che ci si conosce solo dopo la terza volta, e questo è proprio il caso nostro: parlerò quindi con la franchezza di un amico ed esprimerò opinioni anche differenti dalle sue. So che lei è cattolico mentre io sono ateo, ma la mia esperienza a riunioni internazionali mi ha insegnato il rispetto e la tolleranza per le opinioni differenti dalle mie. In diverse occasioni, in convegni di scienziati, per esempio, mi è successo di vedere che alcuni di essi andavano in chiesa e si inginocchiavano.

Nella nostra Costituzione è sancito il rispetto per la diversità di opinioni e di credenze.

La nuova situazione, il crollo dell'Urss e dei paesi del blocco dell'Europa orientale ha portato al superamento del contrasto tra Urss e Usa. In Urss è crollato il socialismo, ma questo non significa che il marxismo è sbagliato: si tratta di due cose tra loro differenti.

Nel lungo fiume della storia, l'Europa ha impiegato 300 anni per fare la rivoluzione borghese eppure esistono ancora oggi elementi di feudalesimo. È il caso dell'Inghilterra dove c'è ancora la Regina che viene chiamata addirittura Sua Maestà. Un altro esempio può essere rappresentato dal ruolo e dalla figura dell'Imperatore del Giappone.

L'esperienza della rivoluzione socialista conta solo 70 anni e dunque il periodo trascorso è breve.

Il socialismo è caduto nei paesi dell'Est perché ha incontrato difficoltà e nella stessa Urss perché hanno applicato un dirigismo economico troppo radicale. Possiamo dire che questo metodo non va bene. La Cina, infatti, deve seguire il socialismo dai colori cinesi. E qual è questo colore? Quello che risulta dalla combinazione dei principi del marxismo con la realtà cinese. Subito dopo il 1949 non avevamo altre vie alternative e abbiamo scelto il modello sovietico di dirigismo economico centralizzato, e che si è rivelato sbagliato.

Adesso dall'Occidente, lo ammetto, dobbiamo imparare non solo per quanto riguarda le scienze naturali e la tecnica, ma anche gli aspetti culturali e di gestione. Negli ultimi anni abbiamo applicato le riforme e abbiamo conosciuto l'economia di mercato.

Quando io ero capofabbrica, l'80% delle materie prime erano fornite dallo Stato, mentre adesso è possibile approvvigionarsi sul mercato.

Noi combiniamo diversi tipi di economia, quella statale, quella collettiva, quella individuale e quella privata. Ci sono inoltre le imprese miste.

Non c'è alcun problema se una parte della popolazione diventa ricca, ma dobbiamo fare in modo che le differenze non siano troppo grandi, un problema di giustizia. Nei cambiamenti dei sistemi economici ci vuole molto tempo. Deng Xiaoping ha parlato di 100 anni ancora.

Ho incontrato molti dirigenti politici occidentali di paesi americani, inglesi, francesi, tedeschi ed italiani, ma tutti quando parlavano avevano in mente un solo modello, il loro modello, quello capitalista e naturalmente non sono d'accordo con questa impostazione.

Il sistema sociale di ogni paese deve essere deciso dal popolo stesso e questa indipendenza si riflette, in politica estera, nel rispetto dei cinque principi della coesistenza pacifica, il più importante dei quali è il rispetto della non ingerenza negli affari interni di un paese.

Non vogliamo imporre il nostro sistema a nessuno, ma non vogliamo imposizioni da alcuno.

Si parla spesso di giustizia, libertà, diritti civili. Io ho partecipato alla rivoluzione a partire dagli anni quaranta quando ero a Shanghai e con altri protestavamo per la democrazia. C'erano alcuni americani di stanza nella città e mi è capitato di chiedere loro perché non appoggiassero le nostre richieste di democrazia piuttosto che la dittatura di Jiang Jieshi.

Leggo molto le pubblicazioni straniere e so ad esempio che in Usa non hanno risolto il problema razziale: i recenti disordini di Los Angeles ne sono una prova.

È importante che la democrazia sia combinata con la storia e con la tradizione culturale di un paese.

Molti amici stranieri si lamentano perché abbiamo fatto le riforme economiche ma non quelle politiche, ma quando ho chiesto quale era il punto finale, l'obiettivo di queste riforme politiche mi è stato risposto nel solito modo: il capitalismo.

Ho ricevuto parlamentari Usa che criticavano il monopartitismo cinese, ma in Cina esistono otto partiti, i cui leaders io incontro ogni mese per consultazione".

"Ma alla fine chi comanda, sempre il Pcc?"

Jiang Zemin: "Certo che alla fine decide il Pcc perché noi adottiamo il sistema della collaborazione di diversi partiti sotto la direzione del Pcc. Il Pcc dirige non tanto perché lo ha deciso qualcuno, ma perché è il frutto della rivoluzione di lungo periodo e del consenso del popolo cinese".

"Ma in Urss comandava il Pcus che ha poi sbagliato...".

Jiang Zemin: "Hanno sbagliato e sono affari loro. Nonostante i loro sbagli, il sistema socialista non è completamente crollato. Dobbiamo essere lungimiranti: ride bene chi ride ultimo. Prendiamo per esempio le due Germanie. Ho incontrato Kohl e so che nella DDR adesso ci sono problemi molto gravi. Parliamoci chiaro: il problema è che gli Usa vogliono comandare in tutto il mondo. Perché non si interessano solo dei loro affari?

Con i dirigenti stranieri ripeto che dobbiamo coesistere pacificamente e che nessun paese straniero può imporre un sistema al popolo cinese.

Vogliamo un'atmosfera internazionale pacifica e, quindi, ci opponiamo ad ogni tipo di egemonismo. Oggi la Cina è un paese arretrato, ma anche quando sarà un paese economicamente sviluppato, non sarà egemonista.

La stabilità della Cina ha un ruolo molto importante nell'Asia e nel mondo.

Il primo diritto civile è quello di poter esistere, di vivere! Ecco: la Cina pur avendo solo il 6% delle terre coltivabili del mondo riesce a dar da mangiare, a far vivere, più del 20% della umanità. Se facessero così l'Europa, l'America, l'Africa, la ex Urss, non solo avremmo annullato la fame dal mondo ma creato condizioni di benessere. Non è questo il rispetto del più importante diritto civile?

Noi in Cina abbiamo 1 miliardo e 100-200 milioni di persone. Vivono in Cina, stanno qui tutti sulla nostra terra. Voi nell'Europa avete il problema dei profughi: Albania, Germania, Turchia, Africa. Cercate di difendervi. Noi, i cinesi li teniamo qui in casa nostra. Voi ci criticate perché affermate che non rispettiamo i diritti civili. Che fare?

Ho detto una volta al Presidente Carter ed anche al Presidente Andreotti che sostenevano democrazia, libertà e diritti civili. Volete 1, 100, 100.000 cinesi? Sono bravi lavoratori. Ve li possiamo mandare. Lo dico anche a lei.

Un antico detto cinese dice che chi gioca col fuoco prima o poi si scotta e chi prende un sasso prima o poi gli cade sui piedi.

Sono una persona modesta. Ho studiato le dottrine capitaliste e socialiste. Ho letto Goethe, Stendhal, Balzac. Ho assimilato la cultura occidentale e conosco il quadro di Monna Lisa.

Ho visitato diversi paesi, l'Italia, Roma e Venezia. Mi piace la cultura e la cucina italiana e sono amico del Presidente della Fiat.

È importante pensare anche agli altri: ma non si può imporre il proprio modo di pensare. Faccio un esempio: quando ero capofabbrica occorreva alimentare un motore e cinque gruppi di operai hanno proposto cinque diversi modi di connettere l'energia elettrica.

Questa è una legge che vale anche nelle scienze sociali. Non esiste un solo modello.

Ci sarà prossimamente il congresso e in questi giorni la stampa americana, di Hong Kong e di Taiwan ha scritto cose non vere, per esempio mi è capitato di leggere che ci sarebbe stato un rinvio a causa di divergenze e questo non è vero.

Ci sono persone che vogliono disordine nel mondo e proprio per questo c'è mancanza di tranquillità.

Se uno vuole realizzare democrazia e cultura borghese, lo può fare, ma nel suo paese. Noi scegliamo il socialismo dai colori cinesi.

Lei ha incontrato Zhou Enlai, Deng Xiaoping e ha parlato con me; questo ha contribuito allo sviluppo dell'amicizia tra i due popoli.

Anche il Presidente Andreotti ha avuto il coraggio di rompere le sanzioni contro di noi e per questo la prego di trasmettere i miei saluti e ringraziamenti.

Attualmente lo sviluppo della scienza e tecnologia è molto veloce. Quando ero studente c'erano le centrali idrauliche e quelle a vento, ma non c'erano quelle atomiche. All'inizio degli anni 60 ho fatto il direttore di un Istituto di ricerca atomica e ho letto molta documentazione. Le materie che servono in questo campo sono scarse e una volta realizzata la fusione si potrebbe avere energia anche utilizzando l'acqua del mare.

Anche se adesso sono il Segretario Generale, leggo molti libri. So che all'inizio del secolo era molto importante la teoria della massa. Anche la matematica è molto cambiata. Peccato che sono Segretario Generale del Pcc ed ho poco tempo per continuare in questi studi".

"Torniamo alla politica. Ci saranno novità al Congresso?"

Jiang Zemin: "No. Approfondiremo e metteremo in pratica la politica di riforma iniziata da Deng. Per il futuro vogliamo più economia di mercato e vogliamo liberarci completamente del modello sovietico. Probabilmente cambieremo le funzioni di alcuni organismi statali dal momento che il paese non può essere gestito in modo dirigistico. Daremo, inoltre, più autonomia alle imprese".

"Possiamo parlare di una terza via, né capitalista né socialista?"

Jiang Zemin: "Si tratta del socialismo dai colori cinesi. Dobbiamo imparare molto dall'estero. Per esempio, il socialismo ha il suo mercato. Il piano ed il mercato sono due modi di funzionamento dell'economia che non servono a distinguere il socialismo dal capitalismo.

Ho visitato molti paesi e molte fabbriche straniere. Da noi occorre che non si creino differenze di reddito troppo grandi. Adesso vogliamo sperimentare l'introduzione del sistema di azioni ai dipendenti ed ai cittadini, ma con cautela.

Una cosa essenziale del socialismo è che si basa sulla coesistenza tra proprietà pubblica e gli altri tipi di proprietà.

Prima di venire, in macchina, ho sentito una dichiarazione del responsabile del commercio di Pechino che diceva che anni fa le difficoltà principali erano nell'approvvigionamento dei beni, adesso, invece, è proprio nella vendita. I negozi sono pieni, non solo qui a Pechino, ma anche a Dunhuang, dove sono stato recentemente. Questa è la nostra strada".

"Ci sono novità tra Cina e Vaticano?"

Jiang Zemin: "Noi abbiamo una religione indipendente. Rispettiamo il credo religioso, ma non permettiamo che si usi per interferire negli affari interni.

Ma sulla questione lei è più informato di me.

Un giorno, nel 1978, ero davanti al Vaticano è qualcuno mi ha detto che dopo una certa linea cominciava lo stato del Vaticano. È stato un peccato non essere potuto andare. Oggi io avrei superato quella linea perché nella vita è necessario conoscere bene tutto.

Il problema è sempre quello: rompere con Taiwan e la non interferenza".

"Ma dopo il riconoscimento di Israele ritenete di affrontare anche il tema dei rapporti con il Vaticano?"

Jiang Zemin: "Lei conosce la politica cinese che è di apertura con tutti i paesi del mondo e quindi anche col Vaticano".

"Posso far conoscere queste dichiarazioni ai responsabili del Vaticano?"

Jiang Zemin: "Sì, sì. Lei conosce il problema. Noi siamo disponibili".

ZHOU RONGJI - IL "GORBACEV CINESE"

È il personaggio più interessante del nuovo corso cinese. La definizione di "Gorbacev cinese" è della stampa americana in occasione di una visita di Zhou Rongji in Usa alla guida di un gruppo di sindaci di grandi città cinesi.

Zhou Rongji mi ha detto, in confidenza, che quella definizione non era da lui troppo gradita perché alla fine, Gorbacev è stato un perdente, e lui questa fine proprio non la vorrebbe fare.

Il primo incontro avvenne a Shanghai dove Zhou Rongji si era insediato nella carica di Sindaco succedendo a Jiang Zemin nominato Segretario del Pcc.

La conversazione è affabile sul piano dei rapporti ma più concisa su quello dei contenuti. Zhou Rongji è un uomo moderno, elegante nel vestito, stile occidentale, presenta tratti da "manager" abituato alle grandi decisioni e al comando.

Mi parla dello sviluppo di Shanghai, una città che rischia di scoppiare o di morire di soffocamento, bisognosa di aperture verso schemi non più di città ma di area metropolitana, inventando nuovi rapporti di partecipazione all'interno ma anche tra la città e la campagna che la circonda. Insiste sul problema del traffico e quindi dei lavori per la costruzione di linee metropolitane, al grave problema dell'inquinamento ecologico che rischia di rendere Shanghai una città invivibile.

Il problema di fondo però resta il "domani di Shanghai". Da città industriale, e l'analogia con Milano si fa stringente, dovrà diventare una città, la città del terziario avanzato, il punto di riferimento dell'Asia intera sulla costa del Pacifico.

"Concorrenza ad Hong Kong?" gli chiedo. "No, no! In concorrenza ma costituendo un sistema integrato".

In questa ottica si pone il progetto della nuova zona di Pudong, la nuova area di sviluppo già in fase di avanzata realizzazione. Numerosi sono gli investimenti stranieri, anche l'Italia è presente.

Shanghai oltre ad essere la capitale industriale e finanziaria della Cina è anche un punto nevralgico della situazione politica della Cina. Abbiamo discusso di come Shanghai ha vissuto le giornate della "insurrezione di Piazza Tian’anmen".

Anche qui manifestazioni, tumulti nelle università, nelle fabbriche, nelle strade della città. Il mondo dei giovani che reclamano il cambiamento.

Occorre dare atto a Zhou Rongji della sua vera statura di leader. Fu lui ad affrontare questa situazione esplosiva nella città con incontri coi vari esponenti in particolare col colloquio diretto con la gente nei quartieri, coi lavoratori nelle fabbriche e con gli appelli alla TV

Gli argomenti di fondo usati, mi dice Zhou Rongji, sono stati questi: "Sì, le ragioni per un cambiamento ci sono, sono reali. È la strada già scelta proprio con la politica del socialismo dai colori cinesi e di cui si constatano i primi frutti molto positivi.

La strada va continuata e la si continua non con i tumulti, distruzioni, con la rivoluzione ma con un maggior impegno di tutti nel lavoro, nello studio, nella vita. E Shanghai deve dimostrare di essere in prima fila.

Positivo e forse determinante è stato il richiamo alla vera tragedia della rivoluzione culturale voluta dalla banda dei quattro che proprio in Shanghai ha avuto il vero epicentro. E alla fine prevalse il buon senso. Tutto sommato non sono stato io a convincere gli studenti a tornare a studiare all'Università, nemmeno i poliziotti ed i soldati ma sono stati gli stessi operai delle fabbriche di Shanghai a farlo e lo hanno fatto in modo estremamente valido usando i mezzi del ragionamento ma anche qualche volta quelli più convincenti dell'esperienza, della maturità, della responsabilità".

E così a Shanghai tornò la pace e la città riprese il proprio concreto sviluppo.

Ritengo che il comportamento di Shanghai influì in modo determinante sulle altre città cinesi e sull'intero paese.

Con questo esito la figura di Zhou Rongji si impose sempre più all'attenzione ed acquistò forza e prestigio nel gruppo dei dirigenti responsabili del Paese.

Incontrai nuovamente Zhou Rongji a Milano. Era in giro per l'Europa a visitare, le più importanti città metropolitane.

Tra le varie realizzazioni volle vedere un ospedale. Lo accompagnai all'Istituto S. Raffaele, uno dei complessi più qualificati della città. Erano già le 19 ma la visita fu minuziosa e si protrasse fino oltre le 21. Nel saluto finale Zhou Rongji si complimentò: "Ho visto un ottimo ospedale, tanto valido che chiedo di poterne realizzare uno simile a Shanghai. È possibile? Incominciamo le trattative?".

Feci presente all'amico Zhou Rongji che la proprietà e la dirigenza dell'Istituto S. Raffaele era di una congregazione religiosa cattolica ed il Presidente (Don Verzé) era un prete cattolico.

La risposta fu: "Prendo atto di questo che non mi arreca alcuna difficoltà. Io ho bisogno di un ospedale funzionante come questo. Faccio i complimenti a chi lo ha realizzato, chiunque sia, e chiedo un aiuto in questa direzione. Rinnovo i complimenti a Don Verzé ed ai suoi collaboratori".

Facemmo un brindisi caloroso anche perché il telegiornale aveva dato la notizia da Pechino che il Sindaco di Shanghai, Zhou Rongji, era stato nominato Vice Primo Ministro del Governo nazionale.

Zhou abbozzò un sorriso di soddisfazione.
Sembrava chiedesse solidarietà, comprensione, certo tanta amicizia.
Ci salutammo con un arrivederci in Cina con la variante: non più a Shanghai ma a Pechino.
L'amico Zhou Rongji è un leader. Di lui la storia della Cina, ma anche quella del mondo, tornerà ancora a parlare.

 

MONDO CINESE N. 092, MAGGIO-AGOSTO 1996

 

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