Sommario: 1. L’Italia tra le Potenze occidentali nell’Impero
cinese. - 2. Nasce a Tien-Tsin (oggi Tianjin) la Banca italiana per
la Cina. - 3. La breve unione con la componente cinese. - 4.
Subentra la politica negli anni Trenta. - 5. La guerra e il calvario degli
italiani lontani dalla patria. - 6. Da istituto bancario la SINIT si
trasforma in società di affari.
1. L’Italia tra le Potenze occidentali nell’Impero cinese
Nella articolata storia dei rapporti diplomatici culturali e
mercantili tra l’Italia e la Cina esistono fasi abbastanza note, almeno per
gli specialisti, come pure circostanze poco trattate dalla pubblicistica. Senza
dubbio tra queste ultime si pone la vicenda che vide protagonista The Italian
Bank for China (Banca italiana per la Cina) promossa e affiliata al Credito
Italiano. In effetti, tale istituto riuscì ad operare soltanto per ventitre
anni, dal 1920 al 1943; tuttavia in quel periodo, si distinse quale massimo
interlocutore per la vasta gamma di interessi posseduti dall’Italia liberale
nella prima parte del secolo sul mercato orientale.
Per comprendere a fondo l’importanza di questa iniziativa
bancaria, occorre ricordare alcuni momenti essenziali della vita in Cina1, a
partire dalle complesse ingerenze straniere in seguito alla Guerra dell’oppio
(1840-42) e alla debolezza di Pechino per la fallita Riforma dei cento
giorni (settembre-ottobre 1898) causa prima nel 1900 della Rivolta dei Boxers2.
La sconfitta di questo movimento xenofobo e la capitolazione del potere
imperiale offrivano appunto i presupposti per una presenza sovrana del nostro
Paese sul territorio cinese3, similmente a quanto già conquistato da altre
potenze occidentali.
Il prezzo pagato in termini umani, tra l’altro, risultava
estremamente ridotto. Infatti, partecipando alla difesa delle legazioni di
Pechino con soli 28 marinai - e poi intervenendo con circa duemila soldati
inquadrati nel Corpo di spedizione internazionale - l’Italia soffriva in
tutto dodici caduti. Con questa azione, però, il nostro Paese poteva unirsi ai
governi di Austria-Ungheria, Belgio, Spagna, Portogallo, Francia, Gran Bretagna,
Stati Uniti, Giappone, Olanda, Russia, Svezia e Norvegia nella richiesta di
gravose indennità: 450 milioni di dollari destinati a diventare 980, essendo
pagabili in 40 anni all’interesse del 4%, oltre a nuove concessioni
territoriali e commerciali. Nella fattispecie, l’Italia chiedeva 70 milioni di
franchi per le spese militari, 20 mila franchi mensili per interessi, e 2
milioni di franchi per i danni a persone e cose; il pagamento andava garantito
attraverso il monopolio del sale, una delle più antiche fonti di finanziamento
della casa imperiale. E fu proprio tale commercio a incentivare l’attività
bancaria italiana in Estremo Oriente, facendo perno su un settlement nella
città di Tien-Tsin (oggi Tianjin, secondo la nuova grafia, in cinese
significa "porta celeste"), all’incirca mezzo chilometro quadrato di
territorio con una banchina lungo il fiume Pei-ho a 70 chilometri dal Mare
Giallo e poco più di 100 da Pechino. II tutto sotto la piena sovranità
italiana, esercitata dal Console e dal suo Tribunale con l’assistenza di uno
speciale corpo di polizia indigena agli ordini di ufficiali italiani4.
La Concessione, nel corso della quarantennale amministrazione
italiana, assumeva l’aspetto di un nostro centro residenziale stile anni Venti
alla maniera di Viareggio, di Ostia o di Rimini. Soprattutto per il suo ordinato
sviluppo urbanistico, ancora oggi riconoscibile5: case con giardini, strade
lineari, piazze abbellite da monumenti e targhe viarie (da rilevare che piazze e
toponomastica costituivano elementi completamente estranei alla configurazione
dei paesi cinesi), la chiesa, il municipio, la caserma intitolata alla medaglia
d’oro Ermanno Carlotto, caduto a Pechino durante il conflitto del 1900.
2. Nasce a Tien-Tsin (oggi Tianjin) la Banca italiana
per la Cina
I preliminari dell’intesa erano stati negoziati dal
marchese Giuseppe Salvago-Raggi, plenipotenziario italiano, mentre da
parte cinese firmava il protocollo (7 settembre 1901) sua altezza Yi K’ouang,
principe reale di primo rango: il testo originale veniva redatto in francese e
in cinese, con successiva traduzione in inglese; la nostra richiesta di un testo
in italiano suscitava incredulità e opposizione da parte cinese. Con l’accordo
finale, in data 2 luglio 1905, ogni incertezza scompariva calcolando il debito
cinese in otto milioni di taels, una somma inferiore a quella inizialmente
pretesa. Per fare un esempio, all’Italia spettava il controvalore di 740mila
taels pari a un milione e 795mila franchi. Si poneva intanto il problema di
amministrare il territorio e di riscuotere le indennità. Proprio a tale scopo
alcuni ambienti finanziari si erano subito mostrati disponibili. Il Credito
Italiano - perseguendo una politica di penetrazione sui mercati esteri
- sin dal 1901 aveva stipulato un accordo con la Società Bancaria
Milanese per proporre al Governo di Roma di conferire alla "Società
italiana per il commercio con le colonie" (fondata sotto gli auspici di
entrambi gli istituti di credito) il servizio di riscossione delle indennità
dovute per i Boxers; nello stesso tempo proponeva l’apertura di una
filiale a Shanghai onde facilitare l’importazione di seta cinese, settore
totalmente controllato da ditte francesi e inglesi6. Parallelamente veniva
firmato un compromesso per costituire una "Società per la messa in valore
della concessione italiana di Tien-Tsin"; purtroppo, questo affare
era destinato a dissolversi a causa dell’incapacità di redigere progetti
urbanistici e promozionali, vale a dire la sistemazione dei terreni, la posa di
tubature per l’acqua e il gas, l’apertura di strade, la costruzione di case
per abitazione e di immobili ad uso pubblico7.
Passavano intanto gli anni, e spontaneamente qualcosa andava
maturando. All’inizio del secolo le ditte commerciali italiane operanti in
Cina erano nove ma salivano a 22 nel 1904 e a 24 nel 1910, mentre negli stessi
anni (a parte circa 700 connazionali impegnati nella costruzione di strade e
ferrovie) gli italiani con residenza stabile nei porti aperti aumentavano da 133
a 412 e 554. Risultavano particolarmente attive: la Italian Trading Company forte
di una concessione mineraria nello Zhejiang, la romana "Società bancaria
Manzi" e la "Società bancaria milanese" con partecipazioni nella
Compagnie d’Orient di Bruxelles, il Peking Syndacate consorzio
anglo-italiano con diritti su miniere di ferro e di carbone (ma anche
promotore, a vuoto, di un gioco del lotto nelle città cinesi!) di cui animatore
unico risultava Angelo Luzzatti8. Tuttavia, il commercio dell’Italia con la
Cina - secondo le fonti governative - risultava alquanto contenuto,
essendo pari a 49,7 milioni di lire per importazioni (2,91% sul totale) e a 4,3
milioni come esportazioni (0,32%) nel 1900, cifre salite appena a 61 milioni
come import e 9,1 come export (con percentuali discese, all’1,88 e allo 0,44
sul totale) dieci anni più tardi. Lo scarso sviluppo mercantile dipendeva in
larga misura dalla mancanza di frequenti collegamenti marittimi: spesso i
prodotti italiani viaggiavano su navi di bandiera diversa e venivano attribuite
ad altri Paesi, fenomeno che causava disagi e danneggiava la nostra immagine sul
piano commerciale.
La trasformazione istituzionale della Cina, passata nel 1911
da una struttura imperiale ad una costituzione repubblicana, e l’esercizio dei
poteri locali da parte di troppi "signori della guerra" costringevano
a frenare l’attenzione del nostro Paese verso quel mercato orientale. Il
debito dei Boxers subiva una moratoria, accettata dalle grandi Potenze
peraltro direttamente impegnate nel conflitto europeo. Con la pace riprendevano
gli interessi verso il mondo cinese, e per l’Italia si imponeva il problema di
creare un’adeguata struttura finanziaria.
Bandendo ogni indugio, il Credito Italiano decideva di
intervenire con la costituzione di una specifica banca italo-cinese: la Sino-Italian
Bank avente lo scopo di facilitare gli affari del nostro Paese in Estremo
Oriente. Era il 18 febbraio 1920. L’istituto (dotato di un capitale misto di
1,2 milioni di dollari cinesi e 4 milioni di lire-oro) apriva sedi in
Pechino, Shanghai e Tien-Tsin, agendo sotto il regime legislativo di Roma.
L’ufficio centrale si trovava nella Concessione francese di
Tien-Tsin, rue de France 38; l’agenzia di Pechino nel quartiere delle
Legazioni, a Regine’s Building; l’agenzia di Shanghai era locata presso il
palazzo ex-Carlovitz nella centralissima Kiukiang Road.
Il quadro dirigente vedeva alla presidenza Shu Shih Ying,
già ministro della Repubblica cinese, e Lionello Scelzi, console generale del
Regno d’Italia; membri: da un lato Lu Tiao Yuan, Wang Ta Chen, Sze Sao Tsao,
Su Chi Yu, e Tuan Hung Yeh, tutte personalità di rilievo sotto il profilo
politico e patrimoniale; dall’altro Carlo Orsi, direttore del Credito
Italiano, Giuseppe Feltrinelli, presidente della Banca Unione e in seguito anche
del Credito Italiano, Giuseppe Balzarotti, Ernesto Denegri, Egidio Marzoli; la
direzione dell’istituto era ripartita tra Chin Yu Shu e Cesare Marmont.
Il primo esercizio si chiudeva con un profitto netto di 417
sterline e 119mila dollari. Risultato buono, anzi superiore alle speranze,
considerate le difficoltà incontrate per colpa di una concorrenza sleale9.
Dal canto loro, le autorità italiane - nel desiderio
di mettere in risalto la sovranità del Regno - avevano ritenuto
necessario mettere in circolazione una specifica carta moneta: una serie di
biglietti da 1, 5, 10, 50 e 100 yuan, ordinati all’American Bank Note
Company. Portavano sul verso la dicitura The Chinese Italian Banking
Corporation, il valore e i numeri progressivi di serie, la conferma di
cambio da parte delle autorità cinesi, e infine - cosa alquanto
inconsueta - la data di emissione: 15 settembre 1921; sul retro la
traduzione cinese attorno ad una vignetta raffigurante una pagoda e un ponte sul
lago Kunming. Il biglietto - assai simile al classico dollaro - aveva
diversi formati: da 133 per 70 millimetri per il minore a 170 per 87 per i due
prezzi maggiori. Non esiste, tuttavia, la certezza che questa emissione abbia
avuto effettiva circolazione10, pur essendo stati rintracciati numerosi
esemplari da parte di collezionisti. Probabilmente, qualche perplessità sull’uso
di questa cartamoneta poteva derivare dal continuo deprezzamento del cambio. In
seguito all’incapacità del potere centrale di gestire l’immenso Paese e al
moltiplicarsi di conflitti locali, la moneta ufficiale perdeva valore rispetto
alle divise estere; e il biglietto italo-cinese, legato alla consistenza
delle riserve in taels d’argento, avrebbe sofferto di questa sindrome
finanziaria.
3. La breve unione con la componente cinese
La vita in comune con il partner indigeno subiva
continui attriti sia sul piano strategico sia nei rapporti umani. Gli italiani
avevano un’idea di fare banca alquanto diversa da quella cinese; i primi
tendevano a comandare, gli altri a non subire. Troppo diversi apparivano i ritmi
e le finalità tra i due soci. Ne derivava un’alterna produttività ed uno
scadimento di immagine poco accettabile per il vertice del Credito Italiano che,
da Milano, vigilava attentamente sulle attività delle società affiliate.
Scarsa meraviglia, pertanto, destava il ritiro della componente cinese che
preferiva disimpegnarsi affidando l’intera impresa nelle mani italiane. Il 23
giugno 1924 veniva trasformato l’assetto cambiando la ragione sociale in
"Banca italiana per la Cina" (o meglio, The Italian Bank for China)
e spostando la sede sociale a Shanghai con filiale a Tien-Tsin.
Restavano gli stessi obiettivi per sostenere le attività commerciali italiane;
inoltre, il nostro Governo si accordava con quello di Pechino, affinché il
pagamento delle indennità Boxers avvenisse in dollari USA attraverso la
Banca italiana. La gestione di questo debito, tuttavia, incontrava serie
difficoltà a causa delle mutazioni politiche in Cina, tra cui nel 1928 la
formazione di un nuovo governo (sotto l’egida del Guomindang, partito
nazionalista) e nel 1931 l’occupazione della Manciuria da parte giapponese. A
quei tempi, il consiglio di amministrazione era costituito dal ministro
plenipotenziario Lionello Scelsi, presidente, Ferruccio Bolchini, Carlo
Feltrinelli, Carlo Orsi, Arrigo Stoffel, consiglieri, Giuseppe Balzarotti,
segretario. Alla direzione si trovava il torinese Ugo Marcello Tavella
coadiuvato fino al 1933 dall’italo-britannico Wilfrid Archibald
Sterling, per breve periodo sostituito dal fiorentino Giovanni Fantechi e in
seguito dal veneto Oreste Petit.
In questo periodo erano state avviate altre imprese
economiche - da ricordare una "Banca commerciale e industriale per l’Estremo
Oriente" a Tien-Tsin e una "Compagnia italiana" per
diffondere prodotti italiani in Cina a Shanghai - ma l’interscambio non
riusciva a decollare in modo sufficiente: l’Italia esportava prevalentemente
manufatti, tessuti di lana, fibre artificiali, e importava semi oleosi, seta
greggia, cascami di seta, the. I collegamenti tra i due Paesi erano assicurati
soltanto da uno scalo mensile del Lloyd Triestino.
Di tante incertezze, a fine 1930, si faceva portatore il
Consiglio di amministrazione della Banca italiana per la Cina. La relazione del
presidente affermava esplicitamente: "La grave crisi economica non ha
risparmiato la Cina, duramente provata dalla contrazione dei commerci, dal
ristagno degli affari e dalla generale cedenza dei prezzi... Occorre accennare
anzitutto all’insistente deprezzamento dell’argento con conseguente diretta
incisione sulla moneta nazionale, deprezzamento che è stato durante il 1930 di
circa il 40 per cento... La crisi ha messo in luce la necessità di una radicale
riforma monetaria... Altro elemento aggravante le difficoltà economiche
continua ad essere rappresentato dalle lotte interne, che peraltro sembrano
avviate ad una progressiva attenuazione... Le considerazioni di carattere
generale spiegano la contrazione verificatasi negli impieghi della Banca,
contrazione che ha avuto come conseguenza una certa limitazione di utili
lordi". Tuttavia, a conforto degli azionisti, veniva assicurato un
dividendo del 4% sul capitale investito. Le speranze espresse dal presidente
Scelzi si traducevano in certezze, almeno parzialmente, nel corso del successivo
esercizio: il bilancio chiuso al 31 dicembre 1931 vedeva The Italian Bank for
China crescere sull’intera linea; in particolare i depositi in conto
corrente e vincolati (Deposit Accounts) salivano da 1.396.045 a 2.162.952
dollari con un incremento pari al 28,2 per cento.
4. Subentra la politica negli anni Trenta
Superata la crisi del 1929, negli anni Trenta le relazioni
politiche e commerciali tra Cina e Italia miglioravano grazie all’intesa
diplomatica del regime fascista nei confronti del governo nazionalista. Ne
diventava vessillifero il ministro plenipotenziario Galeazzo Ciano (genero di
Mussolini) il quale riteneva fondamentale accrescrere i nostri interessi verso
quel vastissimo mercato. "Ciano aveva due obiettivi tra loro connessi: 1)
assicurare all’industria italiana grosse ordinazioni che consentissero un
salto di qualità rispetto al tran tran del commercio tradizionale; 2) far
assumere dal governo cinese consiglieri militari”11. E si potrebbe aggiungere
un altro scopo, sotteso, di natura ideologica: costituire in Cina una base
ideologica per l’espansionismo fascista in Estremo Oriente, anche per
contrastare l’egemonia di Tokyo che stava chiaramente emergendo (come aveva
dimostrato l’invasione della Manciuria). In sostanza, Ciano "vagheggiava
la formazione di una sorta di fascismo cinese e a tale scopo stringeva amicizie
tra gli esponenti militari e governativi. Particolari attenzioni ebbe con il
mancese Chang Hsueh-liang detto "il giovane maresciallo" che
mostrava di apprezzare gli sviluppi dello Stato corporativo alla maniera
fascista”12. Intanto l’interscambio migliorava sotto il profilo qualitativo
più che quantitativo: l’Italia esportava macchinari, autovetture, utensili,
prodotti chimici; la Cina ci inviava materie prime per il settore tessile,
prodotti artigianali e alimentari; oscillando il tutto tra l’uno e il due per
cento del complessivo commercio estero cinese (con la Germania la quota era
assai più alta, oltre il 10%). Riceveva maggiore impulso, invece, la
cooperazione sia militare sia civile. L’Italia forniva piloti, istruttori,
tecnici e velivoli; un ammiraglio diventava consulente per la riorganizzazione
della marina; veniva creata a Nanchino una fabbrica per il montaggio degli S.81,
velivoli da bombardamento (poi distrutta dai giapponesi). Dal nostro Paese
giungevano tecnici ed esperti di ogni campo, per sovrintendere la costruzione di
ferrovie, la sovrintendenza delle dogane, la direzione delle poste, persino la
revisione del codice penale e la modernizzazione dell’apparato finanziario.
Con risultati confortanti, sempre elogiati dai governanti cinesi.
Sul versante dei rapporti culturali decisivo appariva il loro
sviluppo: nel 1933, a Roma nasceva l’Istituto italiano per il medio ed estremo
Oriente (Ismeo, ancora oggi in piena attività) sotto la presidenza del filosofo
Giovanni Gentile e di un orientalista famoso quale Giuseppe Tucci;
contemporaneamente, a Pechino si apriva un Circolo sino-italiano mentre
due Università cinesi avviavano corsi di lingua italiana.
Quanto alla banca, la gestione Scelzi-Tavella (l’organigramma
aveva perso il consigliere Ferruccio Bolchini; come sindaci firmavano Aiazzo
Aiazzi, Luigi Gaetano Ponza, Dino Tirinanzi, Bruno Brunetti ed Emilio Pigni)
proseguiva con cautela e sicurezza. Rivolgendosi agli azionisti nel 1934, il
presidente doveva rilevare: "La svalutazione del dollaro USA, unitamente
all’insuccesso della Conferenza economica di Londra e all’aggravarsi e all’estendersi
della concorrenza da parte del Giappone, hanno contribuito largamente durante lo
scorso anno ad acutizzare il marasma economico del commercio mondiale. La Cina,
che meno direttamente aveva sofferto della crisi, cominciò a sentire abbastanza
intensamente gli effetti della depressione... Nell’interno, la non ancora
raggiunta stabilità politica non poté migliorare le condizioni economiche.
Tale situazione portò ad un largo afflusso di persone ed averi a Shanghai e da
ciò l’incremento edilizio della città e l’aumento continuo degli stocks d’argento
delle banche. Lo sviluppo della rete stradale, iniziatosi in proporzioni
rilevanti tre anni fa, ha raggiunto lo scorso anno risultati importanti... Pure
accentuato è lo sviluppo industriale che si sta irradiando da Shanghai in vari
altri centri con la fabbricazione sempre più varia di prodotti prima importati.
Questi due fattori, sviluppo stradale ed industriale, stanno modificando
gradualmente alcune caratteristiche del commercio estero cinese. Per esempio,
diminuiscono notevolmente le importazioni di manufatti di cotone mentre
aumentano quelle di cotone greggio. Si accentua pure l’incremento di attività
dell’elemento cinese con partecipazione di uomini e capitali nelle imprese
bancarie e commerciali, prima quasi monopolizzate dall’elemento straniero. La
nostra Banca, in vista dell’aggravata situazione mondiale e delle attuali
condizioni del commercio in Cina, si è strettamente attenuta alla sua
tradizione di prudenza. Il nostro bilancio riflette questo risoluto programma di
smobilizzo e di cautela in qualsiasi forma d’impiego di disponibilità,
nonché la preoccupazione costante di mantenere liquida la posizione dell’Istituto.
Gli utili si sono mantenuti ad un livello soddisfacente, grazie alla vigilanza
incessante sulle spese generali ed alla rinuncia di qualsiasi affare che non
presentasse garanzie di solidità nonché per l’opera assidua e volenterosa
del personale della Banca"13. L’utile ammontava a quasi 50mila dollari
USA consentendo un dividendo del 4 per cento oltre a un consistente riporto sul
fondo di riserva.
Nella sua relazione il ministro Scelsi aveva fatto soltanto
un cenno al personale. Esso era costituito da sei operatori italiani in pianta
stabile nonché da un numero variabile di contabili e fattorini cinesi ai quali
era riservato un trattamento alquanto diverso. I primi percepivano lo stipendio
fissato dai contratti vigenti in patria, oltre alle indennità speciali di
trasferta, mentre per i secondi la paga e le condizioni seguivano -
secondo una prassi consolidata - le norme in uso presso la Banca belga per
l’estero. La tutela sindacale era minima, con possibilità di licenziamento
immediato14 pur garantendo una indennità variabile secondo i casi: a) per
errori o incapacità, tre mesi di stipendio; b) per mancanze gravi, solo il
lavoro prestato fino al momento della chiusura del contratto; c) in casi
speciali, per esempio riduzione di personale, tre mesi di stipendio per
anzianità di 15 anni, 4-6 mesi di stipendio per anzianità maggiori. L’orario
di lavoro apparentemente era lieve: sei ore al giorno dal lunedì al venerdì (9-12
e 14-17) e cinque il sabato (9-14) ma - come precisava il
direttore Tavella all’Ufficio centrale del personale, in Milano -
"il personale si tratteneva spontaneamente oltre l’orario" fino al
completamento di tutte le operazioni e nessuna indennità veniva pagata per
questi straordinari salvo la concessione di un pasto serale.
Alla vigilia della seconda Guerra mondiale, nel 1939, le
condizioni economiche e sociali della Cina non lasciavano presagire nulla di
buono. Diventava allarmato il tono della relazione al Consiglio di
amministrazione, nel quale figurava il conte Pier Gaetano Venino, senatore del
Regno e presidente del Credito Italiano, subentrato al posto del Grande
ufficiale Carlo Feltrinelli. Lionello Scelsi ricordava che "ai movimenti
militari e politici si aggiunse la grave iattura delle inondazioni nelle
province del Nord mentre la moneta cinese subiva un nuovo svilimento di circa il
50 per cento". Tuttavia, il presidente poteva rassicurare gli azionisti
perché "altre regioni della Cina e particolarmente Shanghai poterono
trarre benefici dalla migliorata situazione industriale americana e dagli
acquisti bellici europei, e difatti il totale del commercio estero cinese
espresso in oro fu superiore del 26% e per Shanghai del 90%". Per la Banca
il quadro era tranquillo: "I risultati dell’esercizio si compendiano in
un utile netto di dollari USA 46.659 che, col riporto dell’esercizio
precedente, forma un utile di dollari USA 50.113"15.
5. La guerra e il calvario degli italiani lontani dalla
patria
La situazione doveva precipitare con la dichiarazione di
guerra italiana, il 10 giugno 1940. Negli anni di guerra gli affari si erano
drasticamente ridotti. L’attività bancaria aveva registrato momenti
abbastanza precari: i depositi assottigliati, scomparse le indennità dei Boxers,
i collegamenti con la madrepatria saltuari e insicuri. L’ombrello militare
giapponese aveva funzionato in virtù della cobelligeranza. Poi, la fatidica
svolta dell’8 settembre 1943 cambiava radicalmente il rapporto con gli
occupanti. In Cina, a causa del differente fuso orario, la notizia dell’armistizio
raggiungeva i nostri connazionali soltanto nella mattinata del 9 settembre. A
Tien-Tsin e altrove, analogamente ai tedeschi, le truppe nipponiche
imponevano l’immediato disarmo del battaglione San Marco (140 fanti e 30
marinai) incapace di reagire sia per mancanza di ordini sia per carenza di
mezzi, trasferendolo in un campo di concentramento.
La Banca chiudeva i suoi sportelli, bloccando ogni
operazione. Un autentico dramma si era abbattuto sopra i civili, sollecitati ad
esprimersi a favore o contro il governo di Badoglio: una cinquantina di persone
confermava la propria fede fascista ottenendo di restare nelle proprie case, in
libertà vigilata; trentadue italiani (tra cui i funzionari di banca)
rispondevano diversamente e venivano internati nel campo di Weihsien nello
Shantung, a metà strada tra Tien-Tsin e Shanghai. La loro detenzione
durava due anni fino all’arrivo delle truppe americane, il 17 agosto 1945,
otto mesi dopo il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Roma e la nuova
Cina, espressa dal governo di Chang Kai-shek insediato a Nanchino16. In
tutto questo periodo i famigliari residenti in Italia poco o nulla avevano
saputo dei propri parenti nonostante lettere e suppliche inviate alle autorità
e alla Croce rossa internazionale.
Nella trappola cinese erano rimasti bloccati il direttore
responsabile Ugo Marcello Tavella, il direttore Oreste Petit, il condirettore
Giovanni Fantechi, il capocontabile Sergio De Paoli, gli impiegati Enrico
Cargnino e Pietro Crespi. Di essi nessuna notizia fino all’11 ottobre 1945
quando a Milano perveniva un telegramma firmato Tavella-Petit: "Salvi
in mani alleate. Speriamo presto a casa. Per scrivere indirizzare Liberated
Civilian Camp, Melbourne". In seguito, da Shanghai con data 15 ottobre,
alla presidenza della Banca perveniva una lunghissima lettera firmata dagli
stessi Tavella e Petit che riassumeva le vicende cinesi. Ecco le parti
essenziali: "Dopo venticinque mesi di internamento a Weihsien nell’Università
della Missione presbiteriana americana siamo giunti qui con Fantechi, Crespi e
le nostre famiglie. In complesso siamo discretamente in salute ma con il sistema
nervoso piuttosto in disordine. La vita del campo lascerà purtroppo spiacevoli
tracce in tutti noi e specialmente nelle nostre Signore... La Banca è chiusa
come d’altronde lo sono ancora tutte le banche straniere di qui. Sulla nostra
Banca non vi è alcun controllo per ora ed abbiamo accesso alla stessa... L’assemblea
delle banche straniere, presieduta ora dal Direttore della Central Bank, ha
tenuto tre riunioni per discutere la riapertura ma sono restie a farlo in vista
del nuovo regolamento bancario cinese... Naturalmente non esiste più
extraterritorialità. Le banche straniere stanno trattando... La Banque de l’Indochine
è stata radiata perchè rimasta aperta durante l’occupazione nipponica ed è
accusata di aver cooperato con il nemico. La nostra Banca non fu invitata alle
riunioni dell’Associazione e stiamo tastando il terreno per chiarire la
situazione, certo complicata dal fatto che l’Italia non ha ancora firmato il
Trattato di pace con gli alleati (Cina compresa)... Stiamo preparando un
rapporto dettagliato sulla vita Banca dal 9 settembre 1943 ad oggi corredato
dalle situazioni contabili relative... La Banca non aprì i battenti durante
tutto questo periodo e si limitò a fare alcuni versamenti ad italiani e neutri
in valuta locale, quindi è chiaro che la Banca non collaborò con gli invasori
mentre peraltro fino alla data della sua chiusura - attraverso le rimesse
per il Consolato svizzero e la negoziazione delle stesse - contribuì
largamente a far pervenire agli internati alleati i sussidi dei rispettivi
governi. Questa nostra attività costituì una delle principali ragioni del
nostro internamento... Queste ragioni dovrebbero essere fatte presenti subito da
Roma al rappresentante Diplomatico ora in viaggio, in modo che al suo arrivo si
adoperasse per chiarire la situazione dell’Istituto e per evitare
provvedimenti repressivi da parte del Governo cinese... Ci troviamo qui senza
risorse e i prezzi a Shanghai stanno salendo alle stelle, specialmente a causa
dell’enorme raggruppamento di forze americane e di rimpatriandi alleati. Ci è
perciò necessaria per provvedere alle spese della Banca e al nostro
mantenimento una rimessa di fondi. Vi preghiamo di aprire per filo un credito di
franchi svizzeri centomila attraverso la Union de Banque Suisse presso la
Chekiang Industrial Bank di Shanghai... Vogliate inoltre informare tutte le
nostre famiglie del nostro ritorno"17.
Qualche mese più tardi, il 1° febbraio 1946 tramite il
Credito Italiano di Milano, l’impiegato Sergio De Paoli inviava una lettera
alla sorella Bruna residente a Trieste raccontando molti particolari del periodo
buio. Diceva di essere stato arrestato dalla gendarmeria giapponese il 9
settembre, interrogato e portato in un campo di concentramento dove aveva patito
una vita assai dura. Rientrando nel suo alloggio a Shanghai lo aveva trovato
(forse dagli stessi giapponesi) ripulito di beni per un valore pari a circa
ventimila dollari-oro. Poi proseguiva: "La banca è chiusa e non
sappiamo ancora se e quando riaprirà. I nostri piani sono di partire in marzo
per l’America e poi proseguire per la Francia e la Svizzera prima di rientrare
in Italia. Tutto è condizionato a quanto il Credito deciderà per il mio
futuro. Qui è tutto cambiato. La città è sporchissima, molto agitata,
scioperi ecc. Circa cinquemila stranieri sono partiti; fra questi molti nostri
amici”18.
Quale futuro poteva esserci per l’istituto promosso dal
Credito Italiano? Poco o nulla considerate le clausole del Trattato di pace in
base alle quali l’Italia rinunciava ai diritti acquisiti con l’accordo del
1901 e particolarmente "a qualsiasi domanda di indennizzo"19. Chiusa la
questione politica, restava invece aperto il problema di gestire le pendenze
collegate alla banca. Ci aveva provato, ma inutilmente considerato il buio
assoluto di informazioni, l’assemblea degli azionisti riunita il 21 marzo 1944
a Milano, presso la sede centrale del Credito Italiano. Erano presenti: Lionello
Scelsi, presidente; Pier Gaetano Venino e Arrigo Stoffel, consiglieri; assenti
giustificati (per motivi bellici) Carlo Orsi e Giuseppe Balzarotti. Va rilevato
che sul verbale - nonostante fosse steso in piena Repubblica di Salò, e niente
sfuggisse alle autorità tedesche - il titolo dell’impresa figurava
ancora nell’originale inglese: The Italian Bank for China. La relazione
del presidente era estremamente sintetica: "Signori, in seguito all’interruzione
di ogni comunicazione postale e telegrafica con la Cina, che ci ha privato di
qualsiasi elemento informativo e contabile sul lavoro e sui risultati
conseguiti, non è possibile quest’anno presentare il bilancio e il conto
profitti e perdite per l’esercizio 1943. Vi preghiamo pertanto di rimandare a
quando le circostanze lo consentiranno, la formazione e la presentazione degli
stessi"20. Analogo buio nei due anni successivi.
6. Da istituto bancario la SINIT si trasforma in società di
affari
Dopo la Liberazione, recuperate formalmente le forze, la
presidenza dell’istituto era affidata al rientrato Carlo Orsi. Sul tappeto si
presentavano mille questioni, dal recupero del patrimonio (cosa assai
improbabile, per le condizioni politiche) al rilancio delle attività.
Chiaramente, puntare ancora sulle piazze orientali avrebbe comportato eccessivi
rischi, almeno sul medio periodo. La posizione dei nazionalisti appariva
alquanto instabile mentre la rivoluzione proletaria andava prendendo piede
persino nelle città costiere. La Banca italiana per la Cina doveva anzitutto
recuperare la sua visibilità, come accertava l’assemblea degli azionisti
convocata il 2 luglio 1946 sotto la presidenza di Carlo Orsi e con la
partecipazione di Giuseppe Balzarotti, Carlo Corti, Emilio Pigni e Antonio
Tamburlini. Lo stato logistico e patrimoniale non era svanito del tutto: chiusa
e abbandonata la sede di Tien-Tsin, restava attivabile la "Shanghai
Branch" che risultava custodire ancora depositi per 23.349 dollari USA
riferibili ad una trentina di residui clienti: diversi privati; alcune entità
come la Missione francescana e i Padri Lazzaristi oltre all’Ambasciata e alla
Croce rossa internazionale; varie aziende tipo le Assicurazioni Generali, la
Compagnia italiana di navigazione, l’Italviscosa, l’Italrayon. Si imponeva
la liquidazione di ogni attività in Estremo Oriente finché la situazione non
fosse totalmente chiarita.
Guardando allora allo scacchiere europeo si muovevano gli
amministratori indicendo il 2 luglio 1947, esattamente un anno più tardi, l’assemblea
straordinaria della Banca italiana per la Cina (sottotitolata sul verbale in due
lingue: Italianische Bank fuer China e The Italian Bank for China). Si
decideva subito di trasportare la sede legale da Shanghai a Vaduz nel
Principato del Liechtenstein. Una mossa vincente che preludeva a due obiettivi:
mettere i propri beni al riparo da qualsiasi pretesa politica, avviare la
trasformazione societaria senza incorrere nelle maglie del fisco lasciando il
capitale all’estero.
Dopo altri ventiquattro mesi, il 14 giugno 1949, veniva convocata una nuova
assemblea suddivisa in due parti, la prima ordinaria e la seconda straordinaria.
Significativamente, tale incontro avveniva in territorio svizzero, presso la
Banca Unione di Credito con sede a Lugano. Sotto la presidenza di Carlo Orsi, si
ritrovavano i consiglieri Carlo Corti ed Emilio Pigni accanto agli azionisti
Arrigo Stoffel e Francesco Colonna; da segretario fungeva Luigi Gaetano Ponza il
quale annunciava la rappresentanza dell’intero capitale sotto forma di 100mila
azioni depositate presso il Credito Italiano di Milano. Espletate le formalità
di bilancio, nella seconda parte dell’assemblea veniva affrontata la decisione
di maggiore rilievo. Gli amministratori infatti decidevano di ampliare il
ventaglio delle finalità societarie adeguandosi ad esse, anche visivamente,
attraverso una ragione sociale che mantenesse un legame con la tradizione ma
cancellasse la dizione Banca italiana per la Cina, ormai inerte e superata dalle
circostanze. Così, ricorrendo alla sigla telegrafica dell’antica Sino-italian
Bank, nasceva la SINIT (Società per Iniziative Finanziarie, Bancarie e
Commerciali; ovvero Societé d’Initiatives Financières Bancaires et
Commerciales, in francese, e Gesellschaft fuer Faerderung von Finanz Bank
und Handelsgeschaeften, in tedesco). Con successiva delibera in data 31
gennaio 1950, il Consiglio di amministrazione provvedeva a modificare e
registrare il nuovo Statuto21. Veniva in tal modo ad estinguersi un’originale
esperienza bancaria che il Credito Italiano aveva promosso e attentamente
seguito per ben ventitre anni nella (allora) lontanissima Cina, oggi resa vicina
dalla massa degli affari e dalle reciproche conoscenze culturali. A parte la
facilità di comunicazioni che consente di colloquiare via computer in tempo
reale come pure a trasferire via aerea all’incirca in dieci ore, fisicamente,
cose e persone da Roma a Pechino o viceversa.
MONDO CINESE N. 091, MAGGIO-AGOSTO
1996