Grande rilievo ha avuto sulla stampa italiana ed internazionale la
Quarta Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sulle Donne, che si è svolta a Pechino dal 4 al 14 settembre 1995. I giornali si sono intensamente occupati di questo vertice, dedicandovi ampio spazio: oltre a reportages di atmosfera, interviste esclusive e dichiarazioni polemiche, non sono mancati articoli retorici, resoconti nostalgici e trafiletti annoiati.
Parlare delle donne e dei loro problemi per molti non è più di moda ormai, dato che, in una società come la nostra, si discute di femminismo da circa vent'anni; ma quando decine di migliaia di donne, appartenenti alle culture più diverse, si riuniscono per confrontare le proprie esperienze, l'evento non può essere assolutamente ignorato. Tanto più che ad ospitare questo incontro è la Cina, un Paese che, sebbene non attiri più l'attenzione dei
mass-media come qualche tempo fa, stimola ancora abbastanza l'immaginario collettivo.
Ciò che ha colpito maggiormente gran parte dei cronisti presenti a Pechino è stato lo stridente contrasto tra la sparuta rappresentanza delle donne occidentali e la stragrande, colorata e prorompente presenza di donne africane, asiatiche e dell'America Latina. La testimonianza di queste donne, vittime di discriminazioni sessuali, di persecuzioni politiche, di guerre, degli effetti di uno sviluppo economico selvaggio fa sì che la loro condizione debba essere equiparata a quella di tutte le persone sfruttate, impoverite, emarginate ed oppresse del nostro pianeta. È una realtà molto diversa da quella di noi donne dei Paesi cosiddetti avanzati, che, sebbene lontane dall'aver risolto i veri problemi nei rapporti interpersonali e nel contesto sociale, siamo riuscite a modificare alquanto la nostra condizione. Ciò che noi abbiamo già largamente sperimentato, l'imparare a confrontarci con altre donne, lo scoprire le affinità dei nostri problemi con quelli di altre, è invece per le donne dei Paesi in via di sviluppo una conquista recente. Sono state loro le protagoniste indiscusse dei temi trattati nel corso dei lavori, incentrati principalmente sui diritti umani, la salute, l'istruzione e il ruolo delle donne nell'economia e nella politica.
Una conquista può essere considerata anche il testo della dichiarazione finale, frutto di non facili trattative e lunghe mediazioni: in esso, tra i punti più salienti, figura, per la prima volta, l'equiparazione a tutte le altre violazioni dei diritti umani dello stupro, usato contro le donne in tutte le guerre. Le altre enunciazioni di principio incluse in questo documento sono state: la libertà sessuale e il diritto all'autodeterminazione, il riconoscimento dei diritti alla procreazione, la parità con gli uomini nelle questioni ereditarie (non riconosciuta invece nei Paesi islamici) e i diritti delle bambine. È stato, però, evitato di menzionare i diritti delle donne omosessuali a causa dell'opposizione dei Paesi islamici e del Vaticano, i quali hanno criticato la connotazione fortemente laica di questa piattaforma. Secondo la Chiesa cattolica, infatti, sarebbe stato dato più spazio al sesso che al matrimonio e poca attenzione alla famiglia e al ruolo della donna come madre.
Molti dei reportages più incisivi sembrano suggerire una chiave di lettura interessante per questa conferenza, che si è articolata su due livelli ben distinti, non solo dal punto di vista spazio-temporale: quello delle delegazioni ufficiali dei Paesi partecipanti e quello delle organizzazioni non governative. Aver voluto ghettizzare queste ultime ad Huairou, distante circa un'ora di viaggio da Pechino, evitando che i diversi gruppi potessero incontrarsi e interagire nel corso dei lavori, ha sollevato un'opposizione molto forte e violenta nei confronti degli organizzatori cinesi. È nel
forum delle organizzazioni non governative che è esplosa l'insofferenza contro gli stretti controlli e l'interferenza della polizia, accusata di interrompere seminari, di sequestrare materiale, di impedire la formazione di cortei spontanei. Comunque le autorità cinesi hanno dovuto assistere, loro malgrado, alle denunce di Amnesty International, che riguardavano anche casi di cittadine cinesi, come quello della giornalista Cao Yu, condannata a sei anni per aver scritto sulla manipolazione delle votazioni nei congressi del partito e quello della sindacalista Lu Jinghua, imprigionata per aver portato acqua agli studenti che facevano lo sciopero della fame in piazza Tian'anmen. Non sono inoltre mancate le proteste delle donne tibetane, che denunciavano il genocidio del proprio popolo e la dura condanna a 17 anni di detenzione della monaca Phuntsong Niydrou, colpevole di aver preso parte ai disordini del 1989 in Tibet. I
media cinesi hanno poi evitato di riportare il messaggio video contro l'intolleranza dei regimi autoritari e la violenza contro le donne ad opera della dissidente birmana Daw Aung San Suu Kyi, condannata per sei anni agli arresti domiciliari per aver guidato un movimento di protesta nel proprio Paese nel 1989.
In realtà si può facilmente immaginare come, per le autorità di Pechino, che sicuramente avevano valutato l'iniziativa in termini di grande
business economico e turistico, ospitare questo forum si sia rivelato un'arma a doppio taglio, una specie di bomba che ha fatto esplodere i soliti e irrisolti problemi del mancato rispetto dei diritti umani in generale e di quelli delle donne in particolare.
Per quanto riguarda i discorsi delle delegazioni ufficiali, mentre molti interventi si sono distinti per la loro banalità, come quello della rappresentanza italiana, che ha sollevato non poche critiche sulla stampa del nostro Paese, estremamente provocatorio è stato, invece, il discorso di Hillary Clinton. La first lady americana ha sottolineato l'inscindibilità del rispetto dei diritti delle donne da quello dei diritti umani in generale e ha attaccato in modo indiretto, ma evidente, la Cina, dove alle donne è negato il diritto alla libera pianificazione familiare, mediante la politica del figlio unico e attraverso l'aborto e la sterilizzazione forzata.
La reazione ufficiale a queste parole da parte cinese è stata molto dura: la portavoce del governo ha ribadito che il suo Paese non gradisce interferenze nella propria politica interna e ha sottolineato come la condizione della donna nella Repubblica Popolare sarebbe migliore che negli Stati Uniti, dal momento che in Cina l'uguaglianza dei diritti è sancita dalla Costituzione.
A tale proposito, al di là della facile retorica sui diritti costituzionali, è opportuno effettuare una rapida riflessione sulla reale condizione delle donne in una Cina che si sta velocemente trasformando.
Bisogna innanzitutto ricordare che una delle prime leggi emanate dalla Repubblica Popolare nel 1950 è stata quella sul matrimonio, un testo legislativo largamente a favore della donna, in base al quale veniva proibita la pratica del concubinaggio e veniva riconosciuto alle donne il diritto di scegliere da sole il marito, di chiedere il divorzio e di possedere proprietà. Sebbene le campagne di mobilitazione lanciate fino al 1953 per applicare queste disposizioni siano riuscite a far sciogliere un altissimo numero di unioni indesiderate e abbiano cancellato alcuni abusi feudali, come il matrimonio tra bambini, esse non hanno portato a una reale emancipazione della donna; non più subordinata alla famiglia patriarcale di stampo confuciano, essa è stata sottoposta all'ordine nuovo dettato dal partito-stato.
E già al periodo di Yan'an, negli anni '40, risalgono le prime accuse da parte di scrittrici, come Ding Ling, verso il partito, i cui ideali rivoluzionari non trovavano applicazione in una reale parità tra i sessi.
Nell'ultimo decennio di riforme è però emersa una nuova consapevolezza del contrasto esistente tra la vecchia retorica dell'uguaglianza e l'esperienza reale di discriminazione. Oltre alle federazioni femminili ufficiali, strettamente affiliate al partito, sono sorte anche le prime organizzazioni più indipendenti, come l'Associazione di Studi sulle Donne, costituita a Zhengzhou nel 1985 e trasformatasi due anni dopo nel
Centro di Studi sulle Donne. In altre città come Shanghai, Tianjin, Shantou, Xi'an sono sorte simili associazioni, di natura accademica e di diffusione limitata, che attraggono soprattutto le giovani intellettuali. Persino in Europa, le donne cinesi che studiano e lavorano in Gran Bretagna hanno costituito l'Associazione Cinese di Studi sulle Donne, che rivolge particolare attenzione agli effetti che lo sviluppo economico sta avendo sulla condizione della donna.
È stato proprio il nuovo corso delle riforme economiche a far rifiorire vecchie pratiche di discriminazione nel mondo del lavoro: i dirigenti delle imprese sono adesso riluttanti ad assumere manodopera femminile, preferendo in caso di riduzione del personale licenziare innanzitutto le lavoratrici e non riconoscendo loro i diritti per la maternità. Nelle imprese a capitale straniero la maggior parte delle dipendenti è assunta senza contratto e nelle rampanti imprese private sono ignorati completamente i diritti delle lavoratrici madri. Sebbene nei settori industriale e commerciale le donne costituiscano circa l'80% degli addetti, la maggioranza di esse non occupa posizioni gerarchicamente elevate e, in moltissimi casi, il loro salario è inferiore a quello dei colleghi maschi con pari qualifica.
Inoltre in alcune Zone Economiche Speciali, come Shenzhen, sarebbe ritornata la vecchia pratica del concubinaggio, dato che molti ricchi uomini d'affari di Hong Kong tendono a formarsi una nuova famiglia in queste aree, dove operano e investono.
Nelle campagne, l'attuata decollettivizzazione e la rivalutazione produttiva del nucleo familiare ha permesso che la manodopera femminile ridiventasse lavoro sommerso e non retribuito all'interno della famiglia; precedentemente, invece, nelle organizzazioni collettive, il lavoro svolto dalle donne veniva valorizzato e retribuito per mezzo della distribuzione dei punti-lavoro. La condizione femminile nelle campagne è penalizzata anche dalla scomparsa dei servizi sociali e dei presidi sanitari, costituiti con í fondi delle unità collettive.
Nelle aree rurali, a causa della politica di pianificazione familiare del figlio unico, è spesso ancora praticata la vecchia e deplorevole usanza di sopprimere le neonate, con la speranza di poter avere un altro figlio, questa volta di sesso maschile. Infatti il ruolo del figlio maschio, il cui lavoro permette di rinnovare e sviluppare l'impresa familiare e di provvedere ai genitori con l'avanzare degli anni, è stato nuovamente rivalutato dalla nuova organizzazione produttiva agricola. I dati forniti dalla Federazione delle Donne Cinesi indicano che in alcune province, negli anni '80, il tasso di eccedenza dei maschi rispetto alle femmine è stato molto alto, circa il 16%, rispetto a un tasso normale del 6%. Ciò genera la difficoltà di trovar moglie, la quale viene, in moltissimi casi, acquistata al mercato nero: non sono pochi, ad esempio, i contadini ricchi disposti a pagare per procurarsela. Queste donne vendute sono molto spesso rapite in province lontane, dopo essere state adescate con il miraggio di occupazioni lucrative in alcuni mercati in cui si offre forza lavoro. In questi mercati confluisce la manodopera in eccesso delle campagne, costituita principalmente da donne, le quali, costrette a spostarsi nelle città alla ricerca di occupazioni occasionali sono frequentemente vittime di abusi sessuali e di ogni tipo di sfruttamento.
Ma proprio le profonde trasformazioni dell'economia e della società stanno creando nelle donne più emancipate una nuova coscienza individuale, che rifiuta di confondersi come un tempo nel gruppo di appartenenza e di identificarsi completamente nell'unità di assegnazione lavorativa. Sta inoltre emergendo una riscoperta della femminilità, appiattita così a lungo in abiti informi e sgraziati, mortificata con la messa al bando di cosmetici e acconciature particolari. È ormai lontano il tempo in cui le nostre coetanee cinesi spiavano timorose, senza osare imitarlo, il modo di vestire e di truccarci di noi occidentali. L'ormai largo uso di abiti alla moda, di
make-up, di bigiotteria e di gioielli, oltre che un segno del nuovo consumismo e dell'aumentato benessere economico, deve essere inteso anche come una riappropriazione da parte delle donne cinesi della propria identità femminile.
MONDO CINESE N. 90, SETTEMBRE-DICEMBRE
1995