SOMMARIO: 1. Una crescita economica difficilmente quantificabile. 2. Il pericolo dell'inflazione. 3. La questione del GATT e del WTO. 4. La posizione americana e le iniziative cinesi. 5. Mercato internazionale e problemi interni.
1. Una crescita economica difficilmente quantificabile.
Dal 1980 ad oggi il Prodotto Interno Lordo1 (PIL) cinese è cresciuto con una media del 9.4% annuo e con punte, come quella del primo quarto del 1994, del 13.7%2 . Questo equivarrebbe, secondo studi della Banca Mondiale, ad un reddito pro-capite di 370 USD per il solo 1990 (cioè un anno dopo i fatti di Tiananmen, cui ha fatto seguito un periodo di forte contrazione degli investimenti in Cina). La cifra è ancora superiore se si tiene conto del reale potere d'acquisto
(purchasing power) del RMB: sempre secondo le stime della Banca Mondiale, il reddito pro-capite sarebbe pari a 2.000 USD l'anno3 . In altri termini, se moltiplichiamo questo reddito pro-capite per un miliardo e duecento milioni di cinesi, sarebbe come dire che le dimensioni dell'economia cinese sono simili a quella giapponese.
Non è però facile calcolare esattamente il purchasing power del RMB in un paese che sta attraversando una fase di transizione socio-economica veloce ma indefinibile nelle sue principali direttrici macro-economiche. Il noto studioso di economia cinese Nicholas Lardy in base ad altri modelli di calcolo riduce invece la stima del reddito pro-capite cinese per il 1990 a 1.000 USD, calcolando per lo stesso anno una produzione di ricchezza globale del paese valutabile intorno ai 1.200 miliardi di dollari4 .
Altre stime, che forse sopravvalutano il purchasing power del RMB, fissano il reddito pro-capite cinese a 2.600 USD. Se fossero valide queste ultime e se la Cina riuscisse a mantenere la crescita media del suo PIL attorno al 9% annuo, allora ci troveremmo già di fronte alla terza potenza economica mondiale, in grado di divenire la prima entro il 2010. Tenendo conto invece dei calcoli più cauti di Lardy, che prevede ad esempio un graduale rallentamento della crescita del PIL dal 9% al 5% annuo dopo il 2000, l'economia cinese sarebbe in grado di superare gli Stati Uniti in produzione di ricchezza solo nel 2040.
Per quanto riguarda le tendenze per il futuro, qualsiasi previsione su un periodo di quasi cinquant'anni è soggetta però all'imponderabile.
2. Il pericolo dell'inflazione.
Tornando alla situazione presente, non sembra che la dirigenza cinese, nonostante gli straordinari risultati raggiunti finora, sia ancora riuscita a coordinare questo improvviso sviluppo economico. Anzi essa stessa rischia di essere il vero ostacolo al pieno sviluppo di un'economia di mercato.
Parallelamente all'impressionante crescita del PIL e della produzione industriale (salita nel mese di ottobre del 17.8% rispetto allo stesso mese dell'anno precedente), il tasso di inflazione nazionale ha toccato il 25%, con punte del 30-35% nelle grandi aree urbane5 . Gran parte di questa ondata inflazionistica è dovuta al fatto che il governo non ha saputo ancora creare quelle direttrici macroeconomiche indispensabili per la gestione della domanda aggregata, strumenti garantiti da tempo in tutte le altre economie di mercato del mondo.
Zhu Rongji, vice-premier e responsabile del settore economico, ha recentemente indicato due vie per arginare questo aumento del tasso di inflazione. Esse consistono in primo luogo nel congelare per decreto lo sviluppo economico. L'obiettivo è quello di bloccare l'aumento del PIL al 9% annuo, rifiutando quindi ulteriori crediti alle compagnie nazionali che volessero investire. L'altra via è quella di calmierare i prezzi dei prodotti su cui lo Stato ha ancora un controllo diretto e di imporre regole restrittive sui prezzi di quei mercati dove l'industria pubblica esercita solo un'influenza indiretta6 . Zhu si è detto certo che in questa maniera il tasso di inflazione scenderà sotto il 10%. La riduzione dell'aumento del PIL al 9%, per il vice-premier, ha anche un secondo scopo: quello di non superare gli standard di sviluppo economico necessari per continuare a far parte dell'OECD (Organisation for Economic Cohoperation and Development) e poter beneficiare dei prestiti internazionali della Asian Bank. L'IMF (International Monetary Fund), garante di questi finanziamenti, ha infatti già previsto che il PIL cinese scenderà sotto il 10%.
Anche se la manovra descritta da Zhu Rongji, della doppia azione sul PIL e sui prezzi, riuscirà quasi sicuramente a far scendere il tasso di inflazione sotto il 10%, essa produrrà altrettanto certamente degli effetti paralleli molto pericolosi. La decisione del governo di calmierare ad esempio il prezzo del grano sta creando notevoli problemi nelle campagne: molti agricoltori infatti l'anno scorso non avevano messo sul mercato l'intero raccolto, convinti che, visto il forte sviluppo del mercato nel corso del 1993, si sarebbe arrivati entro quest'anno ad una
deregulation dei prezzi agricoli. Ora quegli agricoltori rischiano di trovarsi a navigare in pessime acque7 .
Sul fronte industriale, il blocco dei nuovi crediti e dei sussidi alle compagnie pubbliche, insieme alla recente approvazione della legge sul fallimento delle imprese, è stato già causa della chiusura di molte di queste. I primi casi si sono verificati in aprile: una delle più importanti industrie tessili di Shanghai, la Weave Band, ha dichiarato bancarotta e altre dieci importanti aziende statali di Shanghai stanno per fare la stessa fine. Quando si saranno creati gli strumenti adatti al mercato ci sarà il rischio di non trovare più una forte base imprenditoriale nazionale a cui indirizzarli8 .
In sostanza questa duplice manovra del governo rischia di mettere in crisi proprio quella stabilità sociale che è lo scopo principale della lotta all'inflazione.
Non bisogna poi dimenticare che il 25% del PIL cinese proviene dal settore delle esportazioni, e che qui il motore principale della crescita è stato il riconoscimento della clausola MFN
(Most Favourite Nation) da parte degli Stati Uniti. Questa clausola potrebbe in futuro non essere riconfermata a causa della questione dei diritti umani (problema su cui è fallito il viaggio di Christopher in marzo)9 .
La dipendenza cinese dal capitale estero nelle esportazioni quindi è pressoché totale. Gli investimenti diretti in società di proprietà o in
joint-ventures (che, secondo notizie di stampa sarebbero addirittura 210.00010 ) corrispondono ai due terzi delle risorse del mercato cinese dell'esportazione. Si calcola infatti in 26 miliardi di dollari il capitale straniero investito nel settore nel solo 1993, e le approvazioni per investimenti futuri sono già arrivate a 110 miliardi di dollari11 . Tutto questo non fa che sottolineare l'estrema vulnerabilità dell'economia cinese proprio nel momento del suo massimo sviluppo.
3. La questione del GATT e del WTO.
Proprio sul problema dei capitali esteri si apre la questione del GATT, un altro fronte di rischio per il governo di Pechino.
La storia delle trattative per permettere alla Cina di rientrare nel GATT (General Agreement on Tariffs and
Trade) ha quasi le caratteristiche di una telenovela. Essa ha inizio con la richiesta ufficiale cinese avanzata nel 1986 e che fino ad oggi ha sortito solo due risultati: conquistare il record storico della trattativa più lunga (otto anni), e manifestare apertamente il carattere marcatamente politico di quella che dovrebbe essere una trattativa portata avanti su basi economiche12 .
Il gruppo misto di lavoro che, a Ginevra, sta studiando la richiesta cinese di ingresso al GATT, deve fare i conti con un complesso intreccio di alleanze e di veti che hanno reso finora impossibile il pronunciarsi in una qualsiasi direzione. Dopo l'interruzione degli incontri nel 1989, a causa dei fatti di Tiananmen, la Cina è riuscita a crearsi diversi alleati pronti ad appoggiarla, primi fra tutti il Giappone e l'Unione Europea, ma non è ancora riuscita a scrollarsi di dosso l'ostilità di quel paese che paradossalmente, in altri ambiti, è il suo maggiore alleato: gli Stati Uniti.
Entrare nel GATT costituirebbe per la Cina un ingresso ufficiale nel mercato internazionale, ma vorrebbe dire soprattutto diventare automaticamente uno dei paesi fondatori della WTO
(World Trade Organization) l'organizzazione che, in base agli accordi
dell'Uruguay Round siglati definitivamente a Marrakech lo scorso 15 aprile, sostituirà il GATT all'inizio del 1995. La Cina diverrebbe così sicuramente uno dei maggiori fruitori delle innovazioni sancite
nell'Uruguay Round13 . Nell'insieme delle esportazioni cinesi la parte del leone è svolta dal settore manifatturiero, tessile in particolare. Alcune delle proposte avanzate nel corso
dell'Uruguay Round e che verranno messe in pratica dalla nascitura WTO, tendono a liberalizzare in termini più rapidi il commercio manifatturiero rispetto a quello in materie prime. Queste ultime costituiscono in genere la porzione principale delle esportazioni dei paesi più poveri. Secondo statistiche della Banca Mondiale, mentre la media dei paesi più poveri godrebbe quindi di un aumento delle esportazioni solo del 15%, quelle cinesi verso gli Stati Uniti, l'Unione Europea ed il Giappone, aumenterebbero del 40%. È facilmente comprensibile come per la Cina l'ingresso nel GATT oggi costituisca un passo fondamentale per un suo ulteriore sviluppo economico domani.
La Cina è salita dalla trentunesima posizione del 1980 tra i paesi più commerciali del mondo alla undicesima del 1993. Pechino si rende ben conto che più aumentano i suoi successi economici e più aumentano, se non si affretta ad entrare a far parte di questo organismo di controllo del commercio internazionale, i rischi di politiche protezioniste nei suoi confronti da parte degli altri paesi14 .
Sul suo cammino verso l'ammissione al GATT si sono però venuti a creare diversi ostacoli: alcuni di natura oggettiva, altri di natura più politica.
Peter Sutherland, direttore generale del GATT, è sicuramente uno dei grandi sostenitori dell'ingresso cinese nella struttura, ma è al tempo stesso un arbitro inflessibile sulle condizioni alle quali concedere questa ammissione. La Cina, secondo Sutherland, deve ancora compiere notevoli sforzi di adattamento al mercato internazionale. Durante la sua breve visita a Pechino l'undici maggio scorso, il direttore ha espresso al governo cinese le perplessità "tecniche" di alcuni dei paesi membri del GATT riguardo l'ingresso della Repubblica Popolare Cinese. Sutherland ha innanzitutto ribadito la necessità di creare in Cina un mercato più uniforme: gli esportatori stranieri fino ad oggi si sono sempre trovati di fronte a regole di importazione che cambiano di città in città e a politiche tariffarie ugualmente difformi. Preoccupa molto gli europei la politica economica portata avanti da Pechino secondo lo schema del
two-tracks (doppio binario), ovvero della concessione di privilegi e di sussidi pubblici quasi esclusivamente alle cosiddette zone economiche speciali come Shenzhen a scapito del resto del paese che, inevitabilmente, rimane indietro rispetto alle politiche di investimento internazionale. Sutherland, pur ammettendo notevoli progressi, giudica ancora scarsa la condizione dei servizi finanziari offerti al settore privato cinese ed internazionale, e troppo insidiosa la concorrenza sul mercato delle aziende di Stato che, protagoniste assolute di quasi tutti gli accordi commerciali, rischiano di soffocare le non tutelate compagnie private. Rimane infine aperta la questione dei tassi di cambio e di convertibilità della moneta cinese, uscita solo a gennaio da un sistema di doppia valuta15 .
4. La posizione americana e le iniziative cinesi.
Pechino, per bocca del suo vice ministro per l'economia, Gu Yongjiang, presente alle trattative in corso a Ginevra, ha garantito in aprile la piena convertibilità del RMB sul mercato internazionale entro il 2000. Nello stesso mese il vice ministro per il commercio, Yu Xiaosong, è stato latore di una proposta cinese, volta a tranquillizzare l'UE ed il Giappone, concernente l'abbassamento del massimo tariffario sulle importazioni in Cina al 40% per almeno 2500 prodotti16 . La proposta di Yu Xiaosong è stata accompagnata dalla promessa di creare un sistema di regole unitarie sulle importazioni in Cina e da quella di livellare ulteriormente il massimo tariffario al 35 % entro il 1998.
Il vero ostacolo da superare per arrivare al GATT è costituito comunque dalla situazione delle relazioni politiche tra Cina e Stati Uniti (unico paese ad aver posto un veto provvisorio all'ingresso della Cina). Per gli americani la minaccia di ritardare l'ingresso della Cina nel GATT, costituisce l'ultima arma a loro disposizione per ricattare Pechino e conquistare una posizione favorevole nell'ambito del mercato cinese17 . Se la Cina entrerà a far parte del GATT, beneficerà di quelle regole che impediscono a qualsiasi paese il rifiuto di benefici commerciali nei confronti di un altro paese membro, a meno di non considerarsi automaticamente fuori dal GATT.
I cinesi, forti delle loro alleanze europee e giapponesi, hanno aperto lo scontro con gli Stati Uniti facendo fallire, in marzo, la missione Christopher e rischiando di non far rinnovare la tanto preziosa clausola MFN. Al segretario di Stato americano è stata rifiutata qualsiasi concessione sulla questione dei diritti umani e non è stato concesso né alla Croce Rossa di visitare le carceri dove sono trattenuti i dissidenti politici, né a Voice of America di aprire una sua stazione radio in Cina. Gli americani venivano anche ammoniti da Pechino sul fatto che a rimetterci di più dall'eventuale mancato rinnovo della clausola (per motivi poi che esulano da questioni economiche) sarebbero gli Usa e non la Cina18 .
Sulla questione GATT, Clinton, a Washington, si muove sin dalla primavera scorsa su di un terreno molto paludoso. La maggioranza dei lobbysti operanti all'interno del Congresso sta premendo sui propri senatori per bloccare qualsiasi iniziativa del governo che possa danneggiare gli interessi commerciali americani derivanti dal commercio con la Cina. Gli stessi senatori democratici, scegliendo come portavoce Sam Nunn, hanno ammonito Clinton: se la Cina non entrerà nel GATT per il veto americano bisognerà essere coscienti di dover affrontare in futuro una situazione di guerra commerciale totale con la stessa Cina. Una guerra che potrebbe avere anche delle forti conseguenze sull'attuale assetto internazionale (il riferimento è soprattutto ai timori americani per il forte armamento nucleare della Corea del Nord, paese confinante con la Cina e possibilissimo satellite economico di una Cina obbligata a rivolgersi esclusivamente ad un mercato asiatico) e che potrebbe obbligare gli Stati Uniti a doversi di nuovo concentrare politicamente e militarmente su scenari geografici lontani da casa, con conseguenti pesanti spese per il bilancio e perdita di favore nei confronti dell'opinione pubblica.
Bisogna cominciare ad aprire uno spiraglio ai cinesi.
Detto, fatto. A fine aprile una missione commerciale cinese si reca negli USA e torna a casa con un pacchetto di contratti per un valore complessivo di 11 miliardi di dollari, tra i quali figura la prima grande importazione cinese di materiali stranieri: 600 milioni di dollari in equipaggiamenti americani. Clinton riceve a Washington il 4 di maggio il vice premier cinese Zou Jiahua affermando poi alla stampa americana di essere sicuro del superamento di qualsiasi difficoltà fra Cina e Stati Uniti19 .
In giugno viene confermata alla Cina la clausola MFN.
Sulla soluzione della questione MFN si è inserita anche la politica di sostegno all'ingresso della Cina nel GATT da parte dell'UE e del Giappone. La netta sensazione che gli Stati Uniti stessero tentando di estorcere vantaggi economici dai cinesi attraverso la polemica sui diritti umani e la minaccia, sollevata dagli americani, di riprendere i rifornimenti di armi a Taiwan (ricchissimo mercato considerato però tabù da tutte quelle nazioni che vogliano avere relazioni commerciali con la Repubblica Popolare Cinese), hanno spinto europei e giapponesi a vincere ogni paura nei confronti delle future massicce esportazioni cinesi nei loro paesi e a caldeggiare lo sblocco della questione della Cina nel GATT entro l'autunno.
L'autunno è arrivato, ed anche l'inverno, ma la reintegrazione della Cina nel GATT (ed il conseguente ingresso nel pool di nazioni che daranno vita al WTO) sembre ancora lontana nell'orizzonte politico orientale.
Il capodelegazione cinese alle trattative di Ginevra, Long Yuntu, ha annunciato il 28 novembre scorso che la Cina ha deciso di fissare una scadenza entro la quale i negoziati potranno dare esito positivo alle richieste cinesi. La data, è ovvio, è quella del primo gennaio del 1995. La Cina dopo quella data non farà più alcuna offerta di adeguamento alle norme commerciali internazionali ed in materia di accesso al mercato20 .
È un gioco al rialzo diretto soprattutto contro gli Stati Uniti che ancora sono i principali fautori di tutti i veti che si frappongono fra la Cina ed il GATT e che tengono il punto cercando di ottenere più vantaggi possibili. È un gioco pericoloso, perché il congresso americano in questo momento non è solo attivo per rallentare le richieste cinesi, ma è contemporaneamente in subbuglio per la sua stessa adesione al GATT. Democratici protezionisti e repubblicani nazionalisti stanno dando battaglia a tutto campo per evitare l'ingresso degli Stati Uniti nel GATT-WTO21 . L'impasse momentaneo può dunque trasformarsi in una situazione di stasi senza sbocchi per entrambi i paesi. Essere fuori da un organismo commerciale internazionale come il WTO potrebbe portarli, ognuno all'interno della sua sfera di interessi economici, a guerre commerciali estremamente lesive per entrambe le economie.
Bisognerà poi comunque vedere se, in caso di ammissione nel GATT, la Cina, come auspicato da Sutherland, riuscirà a darsi quegli assetti regolamentari, in ambito legislativo ed amministrativo, necessari all'inserimento della Cina in una struttura come il WTO che controlla l'andamento del mercato internazionale e che richiede, di conseguenza, degli standard di "regole di mercato" uguali per tutti i suoi paesi membri.
5. Mercato internazionale e problemi interni.
In questo delicato quadro si inserisce, in casa cinese, la questione della successione di Deng, oramai novantenne e malato. Non è una questione secondaria. La troika formata da Jiang Zeming, Li Peng e Zhu Rongji viene venduta all'occidente mostrando Zhu come il nuovo uomo forte della Cina, come colui che ha tracciato definitivamente la via delle riforme e del grande sviluppo. Non è di questo parere ad esempio Tung Chiao, direttore del quotidiano di Hongkong
Minbao ed acuto osservatore delle vicende di Pechino. Secondo Tung
"il futuro politico di Zhu Rongji è tutto da stabilire. L'astro nascente della politica cinese non ha un potere consolidato. Tutto dipenderà da come e se riuscirà a controllare l'inflazione. ...Se i prezzi continuassero a crescere e ci fossero maggiori problemi sociali potrebbe essere deposto e ritenuto il solo responsabile della
situazione22 ". L'inflazione per ora non accenna a fermarsi ed il governo centrale, forse proprio perché privo di una forte guida, ha bloccato per il momento l'attuazione della privatizzazione di massa delle imprese pubbliche considerate improduttive. Il che vuol dire per Pechino dover continuare ancora a pompare valuta su queste aziende per impedirne il fallimento e per non far salire il malcontento sociale. Per Zhu non è dunque un momento facile.
Ai massimi vertici politici la situazione è molto fluida. Alcuni uomini vicini a Jiang sembra operino "contro" Zhu. Chen Yuan, figlio di Chen Yun e vice-governatore della banca centrale, è l'uomo di Jiang che ha preso la decisione di emettere ulteriore valuta per salvare le imprese pubbliche, accelerando di fatto l'inflazione23 . Zhu Rongji deve anche fare i conti con una periferia economica sempre più forte e sempre più restia a seguire le direttrici che giungono da Pechino. Il rischio di frazionamento economico, se non politico, è paventato da Jiang e dall'esercito che fanno dell'unità nazionale l'alfiere delle loro critiche politiche all'interno del Politburo.
Se l'unico uomo forte diventasse Jiang, che ha al suo fianco l'esercito, tutto il ruolo economico internazionale della Cina muterebbe radicalmente seguendo delle direttive ancora indefinibili. Certo neanche Jiang auspica un ritorno al passato rispetto ai vantaggi conseguiti dalle riforme, ed anche lui è un uomo di Deng Xiaoping. Ciononostante rappresenta quell'ala già definita "neoconservatorista" che, rispetto a Zhu, ha tutt'altra visione delle linee da seguire per conseguire lo sviluppo del paese.
La risposta sulla Cina come prossima potenza mondiale resta dunque in sospeso, anche se ci appare già chiaro come sia legata a troppe variabili suscettibili di enormi cambiamenti.
Rimane la certezza che, in campo internazionale, le direttrici economiche che la Cina si dovrà dare nel minor tempo possibile per evitare i rischi congeniti in questo suo straordinario sviluppo economico, dovranno essere innanzitutto volte ad un maggior adeguamento al mercato. Dovrà perseguire una maggior liberalizzazione delle normative sul commercio estero (riduzione delle tariffe di importazione, semplificazione dei controlli doganali) e la razionalizzazione del sistema valutario proseguendo nel processo avviato in gennaio con l'abrogazione della doppia moneta FEC-Renminbi.
Se ci riuscirà, saranno i nostri mercati, soprattutto quelli europei, a doversi rapidamente adeguare ad un nuovo protagonista del mercato mondiale.
MONDO CINESE N. 87, SETTEMBRE-DICEMBRE
1994
Note
1 Per Prodotto Interno Lordo (PIL) si intende qui il cosiddetto
Gross Domestic Product (CDP), utilizzato come metro dalla maggior parte degli economisti che si occupano dei paesi dell'Asia Orientale.
2 Dati tratti da: The Economist, Volume 331, Number 7861, 30 aprile- 6 maggio 1994, p. 77.
3 ibidem
4 ibidem
5 China Business Time del 22 marzo 1994
6 The Economist, op.cit.
7 Xinhua She del 7 maggio 1994
8 The Economist, Volume 332, Number 7878, 27 agosto-2 settembre 1994, pag.49
9 The Economist, Volume 330, Number 7855, 19-25 marzo 1994, pagg.67-68
10 Agenzia Reuter del 27 novembre 1994.
11 The Economist, Volume 331, Number 7861, 30 Aprile-6 Maggio 1994, pag.77
12 Agence France Presse del 18 marzo 1994
13 ANSA del 18 marzo 1994
14 The Economist, Volume 331, Number 7863,
14-20 maggio 1994
15 ibidem
16 ANSA del 18 marzo 1994
17 Reuter del 30 marzo 1994
18 The Economist, Volume 330, Number 7855, 19-25 marzo 1994, pagg.67-68
19 Reuter del 21 aprile 1994
20 ANSA del 28 novembre 1994
21 The Economist, Volume 333, Number 7891, 26 novembre-2 dicembre 1994, pag. 61
22 ANSA del 2 dicembre 1994
23 The Economist, Volume 333, Number 7886, 22-28 ottobre 1994, pag.69
|