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EDITORIALE

Riflessioni su un anniversario

di Giuliano Bertuccioli

Ricorre quest'anno un anniversario, che pochi ricordano e certamente nessuno celebrerà, benché esso sia l'anniversario di un avvenimento che segnò la scomparsa di una delle più tipiche creazioni della civiltà cinese antica.

Esattamente novant'anni fa, nel quinto mese del 1904, gli esami statali per l'ammissione alla carriera dei mandarini vennero tenuti per l'ultima volta. Quando essi furono conclusi, calò per sempre il sipario su una istituzione che era durata più di tredici secoli. Un anno dopo infatti ne venne decretata la soppressione e la loro fine segnò anche la fine della potentissima classe dei burocrati: dei mandarini cioè, che per secoli avevano governato ed amministrato l'impero cinese e che erano stati reclutati proprio mediante il sistema degli esami statali.

Mai burocrazia era stata così potente come quella dei mandarini, mai una classe dirigente era riuscita a conservare il potere per così lungo tempo, passando indenne attraverso le movimentate vicissitudini della storia cinese: succedersi di dinastie, di rivolte, di usurpazioni, di invasioni, di diffusione di credi stranieri. «Gli imperatori passano, i mandarini restano... » poteva ben dirsi, adattando alla storia della Cina un noto detto occidentale, ed infatti erano rimasti al loro posto per secoli, fin da quando, nel lontano 181 a.C., un imperatore illuminato, assistito da consiglieri altrettanto illuminati, aveva deciso che le cariche dello stato fossero assegnate non per censo, non per nobiltà di sangue, non per valore sul campo di battaglia e neppure per scioltezza di eloquio, ma solo a chi avesse dimostrato di possedere un determinato, elevato grado di istruzione. La riforma dell'impero, avviata da quell'imperatore, ma portata avanti e perfezionata nel corso dei secoli dai suoi successori, finì per stabilire che il possesso delle qualità ritenute necessarie per governare ed amministrare l'impero fosse accertato mediante prove scritte di esame, aperte a tutti e vertenti sulla conoscenza dei Classici confuciani.

Era stato infatti Confucio (551﷓479 a.C) a porsi il problema della scelta dei "migliori" e a suo avviso potevano considerarsi tali solo coloro che alle superiori doti di intelligenza e di carattere univano anche una solida preparazione culturale. Confucio non era riuscito a realizzare i suoi programmi di riforma in un'epoca in cui la Cina era dilaniata da guerre feroci tra stati retti ancora a regime feudale. Il problema però era sentito e furono i seguaci delle teorie confuciane che alcuni secoli dopo diedero attuazione al sogno di Confucio: "il potere solo a chi ha dimostrato di sapere". Col tempo vennero fissate delle regole per stabilire come dovessero svolgersi gli esami per l'ammissione e per il successivo andamento della carriera. Gli esami erano suddivisi in vari livelli. Al livello più basso, quello di distretto, erano tenuti ogni tre anni e non davano automaticamente l'accesso alla carriera mandarinale, ma chi li superava otteneva una specie di abilitazione o diploma. Venivano poi quelli a livello di prefettura, che, se superati, aprivano le porte della carriera, poi quelli provinciali ed infine i più difficili di tutti, quelli tenuti a corte e che qualificavano per ricoprire le più alte cariche dello stato. Ci volevano anni di studio "matto e disperatissimo" per superarli: chi ci riusciva aveva di regola almeno cinquant'anni e anche in tal caso era considerato come relativamente giovane.

Le prove consistevano nello svolgimento di un tema ispirato ad una frase tratta da un classico confuciano e che naturalmente il candidato doveva essere in grado di localizzare subito e di sviluppare servendosi preferibilmente di altri detti e frasi tratte sempre dai suddetti classici. L'apprendimento a memoria di tali opere era quindi condizione essenziale per superare le prove, che si tenevano in edifici appositamente costruiti, con uno stragrande numero di stanzette (simili alle cabine degli stabilimenti balneari), dove erano rinchiusi i candidati: soli con carta, pennello, cibo e bugliolo. Chi superava tali prove, soprattutto quelle per i livelli superiori, passava da un giorno all'altro dall'anonimato, dal nulla al potere, alla rinomanza, entrava a far parte della classe dominante, dato che un mandarino aveva la precedenza e godeva di un particolare trattamento giuridico rispetto a chiunque altro: contadini, artigiani, artisti, commercianti, ricchi mercanti, latifondisti, religiosi. Incarnava infatti l'autorità dello stato e a lui tutti dovevano cedere il passo, anzi inchinarsi, prostrandosi fino a terra. Un mandarino distrettuale, un prefetto sommava in sé tutti i poteri: era giudice, sindaco, capo della polizia. Al vincitore del concorso si apriva una carriera che lo avrebbe portato, se avesse superato esami sempre più difficili, fino ai massimi gradi: ministro, supremo censore, accademico. Una carriera quindi che molto dava, ma che anche molto pretendeva dai suoi appartenenti. Ad essi non era concesso di svolgere attività commerciali, di prestar servizio nella provincia di origine, di frequentare determinati ambienti. Errori e colpe potevano esser puniti anche con la retrocessione nel grado, come se ai nostri giorni un potentissimo direttore generale di ministero o addirittura un ministro potessero ritrovarsi di punto in bianco retrocessi al grado di capo divisione o addirittura di avventizio. Succedeva nell'antico impero cinese e il timore di incorrere in una simile, umiliante punizione induceva certamente i mandarini a far molta attenzione nell'espletamento delle loro funzioni. E non basta: i mandarini, soprattutto dei gradi più alti, avevano il diritto/dovere di manifestare il proprio pensiero su questioni attinenti al servizio anche se, così facendo, rischiavano di urtare le suscettibilità dell'imperatore, anche se, criticandolo, nessuna "immunità" li proteggeva poi dalla sua ira. La storia cinese è ricca di casi di eroici mandarini che persero in tal modo la vita.

Ma ciò che la carriera soprattutto pretendeva dai suoi appartenenti era il possesso di una più che perfetta cultura classica, che non poteva certo essere improvvisata (almeno venti anni di studio erano ritenuti necessari per affrontare con successo gli esami di ammissione; altrettanti per superare gli ultimi, i più difficili, quelli per i supremi livelli) e che sola permetteva la padronanza dello stile letterario, l'unico ritenuto degno per scrivere componimenti eleganti in prosa e in poesia o documenti d'ufficio: uno stile ingombro di citazioni, allusioni, metafore, riferimenti, che obbediva a rigide regole e che risultava incomprensibile e comunque inutilizzabile da parte di chi non avesse seguito il prescritto curriculum degli studi. La padronanza di questo stile distingueva i mandarini, cioè la classe dei letterati, dal popolo incolto, capace solo di leggere e scrivere in volgare, e rappresentava la miglior arma con cui i primi perpetuavano il loro potere: solo i figli dei mandarini, infatti, erano in condizione di affrontare senza preoccupazioni economiche la lunga preparazione agli esami statali. I figli dei poveri contadini, degli artigiani, costretti sin dall'infanzia a lavorare per vivere, riuscivano raramente e a prezzo di incredibili sforzi a fare altrettanto.

In compenso... nessuno, se non l'imperatore, era al di sopra dei mandarini, la cui carriera culminava praticamente nel massimo grado dell'impero, equivalente a quello di primo ministro. Qui viene spontaneo il confronto con i sistemi attualmente in vigore nei principali paesi occidentali, incluso il nostro, che prevedono che i funzionari, gli impiegati, gli amministratori dello stato vengano di regola (non sempre rispettata) reclutati per concorso (proprio come i mandarini di un tempo), diretto ad accertare la loro preparazione specifica per le funzioni e compiti che saranno chiamati a svolgere. Ma viene previsto anche che la loro carriera si fermi ad un certo grado, al di sopra del quale non c'è solo il sovrano, l'imperatore, il presidente della repubblica etc., ma tutta una pletora di cosiddetti "politici", reclutati mediante un diverso sistema, quello elettivo, che tutto è fuorché idoneo ad accertare la preparazione culturale, sia generica che specifica, dei candidati. Al massimo serve ad accertarne la scioltezza di eloquio, la prontezza di riflessi e la capacità di imbonire la gente.

L'invenzione del sistema elettivo è stato il contributo che la civiltà occidentale ha dato alla soluzione del problema della scelta dei "migliori", cui affidare l'amministrazione e il governo di un paese, così come l'invenzione del sistema degli esami fu il contributo dato dalla civiltà cinese. Il primo sistema premia coloro che sanno parlare, il secondo invece coloro che sanno scrivere. All'epoca dell'incontro/scontro avvenuto tra Occidente e Cina nei secoli XVIII e XIX, l'Occidente prese e adottò dalla Cina il sistema degli esami di ammissione alle carriere amministrative (sconosciuto nel mondo classico, nel Medioevo e nel Rinascimento), la Cina prese e adottò dall'Occidente, sia pur un po' più tardi, il sistema elettivo. I due mondi si scambiarono così le reciproche "invenzioni", fondendo i due sistemi nel modo come noi attualmente li conosciamo. C'è da chiedersi chi in questo scambio ci abbia guadagnato, chi ci abbia rimesso...

È bene chiarire subito qui che, come tutte le istituzioni create dall'uomo, neppure il sistema degli esami statali, neppure la carriera mandarinale andavano esenti da difetti. Cattivi funzionari, avidi, corrotti, intriganti e magari impreparati sono sempre esistiti sotto ogni latitudine, da noi come in Cina. Non ne sono mancati quindi neppure tra i mandarini. Anche nella Cina imperiale governi miopi, stretti da difficoltà finanziarie causate da guerre, da carestie, dall'eccessivo lusso di corte, non esitavano talvolta ad immettere in carriera senza concorso gente non degna, impreparata, ma disposta a pagare. L'ope legis, le sanatorie, i condoni non sono dei mali propri solo della nostra attuale società. Anche nella burocrazia imperiale poteva essere determinante ai fini dell'avanzamento in carriera o della destinazione nelle sedi più ambite, l'appartenenza a questo o a quel gruppo, consorteria, massoneria, mafia etc.: chi non godeva di qualche santo patrono e non era per di più assistito dalla fortuna rischiava sovente di finire in qualche distretto sperduto nella periferia dell'Impero, mentre i suoi colleghi ben raccomandati riuscivano a prestar servizio nella capitale o in qualche piacevole località. Infine tutta la straordinaria cultura classica dei mandarini, che nelle epoche più antiche poteva considerarsi comprensiva di tutto lo scibile, si rivelò negli ultimi secoli inadeguata per far fronte alle esigenze poste dai contatti con l'Occidente. L'incapacità della classe dei mandarini di adeguare a tali nuove esigenze il curriculum degli studi per la preparazione agli esami di concorso fu certamente una delle cause che determinarono l'abolizione del sistema degli esami e la soppressione della carriera.

Nonostante ciò, il mandarinato resta tutto considerato uno dei migliori prodotti della civiltà cinese. Termino riportando qui di seguito una descrizione fatta in chiave umoristica della figura tipica di un mandarino, non certo dei migliori, anzi forse uno dei peggiori, ma tale da destare nel lettore nonostante tutto simpatia non per le qualità personali del personaggio, ma per la carriera cui egli apparteneva.

Di buoni mandarini in Cina ce ne sono stati tanti in ogni epoca, ma anche un mandarino corrotto era però sempre un piacere incontrarlo. Le sue maniere ricompensavano infatti ampiamente coloro i quali erano costretti a passargli qualche bustarella. La sua voce era profonda e sonora, il suo portamento posato e calmo, il suo eloquio un'arte e la sua personalità una combinazione di erudizione, soavità e furfanteria. Ci fu un'epoca in cui parlare come un mandarino era un'arte che richiedeva tutta una vita per essere posseduta. Non bastava aver un determinato accento "in", come per gli Inglesi è l'accento di Oxford, che qualsiasi ragazzino può imparare in tre mesi. L'accento naturalmente aveva la sua parte. L'eloquio mandarinale aveva un timbro profondo e risonante, il ritmo onduleggiante dell'accento pechinese, le pause sapientemente scelte, le risatine abilmente programmate. Roba da morir di piacere a sentirlo! Ma non era solo questione di accento. Tutto doveva essere perfetto: l'ambiente, in cui il mandarino parlava, il mobilio della stanza, il senso del decoro, il tono della voce, il frasario ricercato, il ventaglio di seta, gli stessi baffi spioventi. E poi la calma, il tono, la sicurezza che presupponevano dignità, compiacenza, cultura, esperienza ed anche coraggio. E infine la fraseologia. Richiedeva almeno vent'anni di studio per essere posseduta. Un mandarino poteva citare a memoria pagine su pagine di saggi letterari, versi su versi di poesie, poteva parlarvi di storia e di filosofia, di letteratura e di linguistica, di pittura e di porcellane. Non era insomma un semplice burocrate o un semplice cortigiano. Era uno studioso, un erudito, un letterato oltre che un funzionario.

Sì, il mandarino del buon tempo antico poteva anche derubare il popolo, ma lo derubava in maniera così elegante, in maniera così raffinata che le vittime finivano per trovare il tutto quasi piacevole!
Il guaio è quando, come da noi adesso, i "mandarini" rubano senza aver neppure l'eleganza, la raffinatezza e la cultura che rendevano in fondo simpatici i mandarini cinesi di un tempo!

MONDO CINESE N. 87, SETTEMBRE-DICEMBRE 1994

 

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