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EDITORIALE

Luci ed ombre nella Cina della "seconda rivoluzione nella stabilità"

di Vittorino Colombo

1. Politica estera, politica interna: una immagine di alto profilo

Viene da chiedersi quale può essere la ragione dell'accentuato attivismo della Cina nelle relazioni internazionali in questi ultimi mesi.

Tra maggio e settembre, il capo dello Stato e Segretario del Partito Comunista Cinese (P.C.C.) Jiang Zemin, il premier Li Peng, il presidente della Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese (C.C.P.PC.) Li Ruihuan, sono stati in Europa, in visita ufficiale, in una decina di paesi. Già in aprile Li Peng era stato impegnato in un tour esplorativo in Asia Centrale. Tra gli accordi sottoscritti con le nuove repubbliche centro-asiatiche figura in primo piano il progetto di un gasdotto dal Turkmenistan al Giappone attraverso la Cina. Inoltre, dal 23 al 24 settembre si è tenuta a Pechino la conferenza ministeriale sulle "Applicazioni della tecnologia spaziale nello sviluppo dell'Asia-Pacifico", presenti i rappresentanti di trenta paesi aderenti alla CESAP (Conferenza economico-sociale per l'Asia-Pacifico), una agenzia dell'ONU.
Sorge poi spontanea la domanda sul rapporto che può esserci tra questo rilancio in grande stile della iniziativa internazionale e la contemporanea ripresa di grandi progetti di sviluppo economico.

Oltre l'area di sviluppo Shanghai-Pudong, si pubblicizzano le prime fasi della realizzazione dell'area economica internazionale del Tumen sul Mare del Giappone, l'avvio dei lavori di infrastruttura nella nuova area intorno al Mare di Bohai centrata su Tianjin, il grande progetto di adduzione delle acque dal sud al nord del paese, un sogno lungo quaranta anni, ora in fase di progettazione. Si tratta di interventi che, già nella fase della progettazione e più ancora della iniziata realizzazione, danno la misura della tensione della attuale fase di sviluppo della Cina.

Un primo dato certo è che questi avvenimenti di politica estera e queste iniziative di politica economica interna al paese, costituiscono l'immagine di alto profilo di una Repubblica Popolare Cinese impegnata a gestire una nuova fase, una nuova accresciuta dimensione del suo sviluppo interno e quindi di un suo più impegnato ruolo internazionale.

Per quanto riguarda la politica estera, Jiang Zemin - parlando a Mosca (3 settembre) nel corso della sua recente visita in Europa - presenta l'immagine di "una Cina che avanza verso il resto del mondo"; di una Cina "impegnata a fare quello che le sue parole dicono"; una Cina affidabile al punto che "il mondo intero può considerare la Cina paese amico e può contare su di essa".

La politica "indipendente" della Cina, spiega Jiang Zemin, non significa equidistanza tra blocchi contrapposti che ormai, oltre tutto, non ci sono più. Significa indipendenza da tutti e, nello stesso tempo, apertura a tutti i paesi del mondo, in obbedienza ai "cinque principi"1 della coesistenza pacifica, una sorta di protocollo etico che non solo viene prima della politica dei blocchi e dei trattati quali che essi siano, ma ne contestano l'efficacia e gli esiti.

Così operando la Cina dimostra di voler gestire, da paese leader, un primato sui generis. Un primato non fondato sulla pur incontestabile riuscita del suo progetto economico. Non fondato sul potenziale militare: non c'è nulla che renda comparabile Cina e Usa. Non fondato su un primato scientifico e tecnologico che oggi la Cina non può vantare. Ma un originale primato che consiste nella capacità di proporre e di gestire, e garantire per la sua parte, una strategia che può generare una politica: la strategia della pace e della cooperazione universale, secondo una sorta di escatologia laica, la "Grande Armonia" come fine della storia, familiare alla tradizione cinese.

È il "nuovo punto di vista", dice a Mosca Jiang Zemin, che può governare il mondo nel periodo che si apre con il XXI secolo. "Tutti i paesi grandi e piccoli, poveri o ricchi, potenti o deboli, debbono essere uguali sulla scena internazionale". Questo principio della pari dignità si esplicita ulteriormente: "i paesi deboli debbono esseri certi del loro sviluppo; i paesi poveri debbono poter accedere progressivamente alla prosperità; i paesi ricchi debbono continuare a svilupparsi".

Ne consegue l'impegno per tutti, dice Jiang Zemin, "a fare entrare nel nuovo secolo un mondo caratterizzato dalla pace, dalla uguaglianza, dalla cooperazione, dalla stabilità e prosperità". Dobbiamo individuare la strada da percorrere, perché "il nuovo secolo possa realizzare tale splendore".
Questa sorta di prospettiva ecumenica è certamente un fatto di cultura; ma è innanzi tutto, nello stesso tempo, una condizione essenziale perché la seconda rivoluzione nella stabilità, in atto in Cina, possa proseguire il suo corso.

Rilanciando i grandi progetti di sviluppo, tali da polarizzare l'attenzione e l'interesse di mezzo mondo, la Cina mostra di voler sottoscrivere altrettanti impegni a sostegno della politica planetaria di cooperazione e di pace. Ne va di mezzo il buon avvio della seconda rivoluzione, strada maestra, per la Cina, verso il XXI secolo.

I due livelli (politica estera, politica interna) sono infatti strettamente correlati, quasi aspetti funzionali distinti di una medesima politica, espressione di una inedita entità statuale; una sorta di Cina-Mondo, di cui si cominciano a intravedere le modalità operative; punto di arrivo dei cambiamenti avviati da Deng Xiaoping con la prima rivoluzione nella stabilità, sostenuta da una remota memoria storica, di una Cina-Mondo come è stata nel passato; oggi essa stessa parte di un mondo totale2 . Per rendere trasparente questo ruolo che essa si attribuisce, per avere i titoli necessari per gestirla, la Cina è impegnata in una riflessione su se stessa per aggiornare o innovare istituzioni e strumenti operativi.

2. Prima rivoluzione (1978) e seconda rivoluzione (1993): nella stabilità

Mi trovo sottomano, diligentemente conservato tra pochi altri documenti di archivio, il comunicato della 3a sessione plenaria del CC eletto dall'XI Congresso del P.C.C. Porta la data del 22 dicembre 1978.
A questa e alle altre date che seguono occorre prestare attenzione.

Questo comunicato - annuncio di una nuova maggioranza, di una nuova politica, di una nuova economia - viene dopo i primi decenni di faticoso assestamento interno della RPC; dopo il "grande balzo in avanti", dopo le "comuni popolari", dopo la "rivoluzione culturale". Rompe con quel difficile passato della storia recente della Cina; avvia il "nuovo corso" tuttora in fase di attuazione, i cui esiti positivi sono sotto gli occhi di tutti: quindici anni di una prima rivoluzione nella stabilità (1978-1993), di sviluppo ben conformato, che fanno da premessa alla nuova fase storica, a questa seconda rivoluzione nella stabilità che, in questo fine di millennio, la Cina si accinge ad affrontare.

Di questa seconda rivoluzione, di questo ciclo nuovo che comincia, non ci siamo quasi accorti; forse perché non presenta nulla di spettacolare. Non c'è nulla di spettacolare infatti nei deliberati del 3° Plenum del XIV Congresso del P.C.C. del novembre 1993 (attenzione alle date!), che del nuovo che comincia è il primo annuncio manifesto. A differenza del 3° Plenum dell'XI Congresso (dicembre 1978) non segna una rottura ma conferma una continuità; una continuità, tuttavia, aggiornata e trasformata dalle radicali innovazioni introdotte, tali da cambiare, sotto molti aspetti, il contesto di insieme come si è venuto consolidando in questi ultimi quindici anni (1978-1993). È il socialismo dinamico, alla maniera cinese, che si evolve e si modernizza: è il "socialismo dai colori cinesi".

Le riforme strutturali, deliberate e che cominciano a essere introdotte (sistema delle imprese, sistema finanziario, sistema fiscale, sistema commerciale) danno un senso più definito al socialismo di mercato. La suggestione delle immagini cede sempre più spazio alla concretezza di strumenti operativi, in larga parte desunti dalla esperienza del mondo occidentale. Questi strumenti, nel giudizio degli economisti e dei politici cinesi, non sono di per sé né capitalisti, né socialisti, in quanto rubricati come semplici mezzi tecnici ben collaudati nella loro efficacia.

Ma si tratta di una tecnicità semplicemente presunta, che le esperienze in corso si fanno carico di smentire.

Che è quanto puntualmente avviene, tra l'altro, nel caso delle società per azioni, dove investitori privati siedono accanto all'investitore pubblico nei consigli di amministrazione con piena parità di diritti, in una sede di confronto in cui è regola la pari dignità sociale, destinata a influenzare altre sedi e altri rapporti. Si fa per dire "tecnicità neutra". È una tecnica che veicola una cultura, che sollecita il CC ad auspicare "lo sviluppo delle organizzazioni professionali intermediarie del mercato (revisori dei conti, organismi di arbitrato e di controllo della qualità, notai) e dei loro servizi"; lo sollecita a programmare lo sviluppo delle associazioni economiche e delle camere di commercio, organizzate secondo un meccanismo di funzionamento autonomo. Lo sollecita, cioè, a creare quel sistema di supporto, di servizi e competenze professionali, il cui sbocco finale tutto può essere meno che l'applauso al partito unico.

3. Prima rivoluzione "un compito centrale e due punti fondamentali". Una politica per i prossimi cento anni

Ora, considerando l'arco di tempo che va dal dicembre 1978 al novembre 1993, quel comunicato del CC che avviava il nuovo corso, la prima rivoluzione nella stabilità, appare oggi, a distanza di quindici anni, come una timorosa quanto incerta petizione di principio. In una società praticamente senza regole, quale era stata sino agli anni '70 la società cinese frequentemente scossa da sconvolgimenti anarchici, si cerca di introdurre se non un sistema di regole per tutti vincolante, quanto meno un sistema di principi da valere come norma condivisa di comportamenti personali. La ricerca della stabilità fa premio su tutto.

Se prima del 1978 c'erano stati gli "anni neri" della rivoluzione culturale, delle comuni popolari, del grande balzo in avanti, prima ancora di quegli avvenimenti, prima del 1949, c'erano stati gli anni della guerra civile, della lotta antigiapponese. Si può capire, allora, di che cosa avesse soprattutto bisogno la Cina: stabilità come bene sommo, come preoccupazione costante, sino a rendere spiegabile quell'oscuramento della ragione sopravvenuto quando gli avvenimenti di Tiananmen minacciarono di mettere in forse quella acquisizione fondamentale.

Premessa di tutto ciò, recita il comunicato, è il costituirsi di "una atmosfera politica in cui regnino insieme centralismo e democrazia, disciplina e libertà, unione delle volontà, una condizione di spirito fatta di coinvolgimento e di impegno personale".

Più preciso nei contenuti, anche se mortificato dalla pedanteria del linguaggio burocratico, il riferimento alle quattro modernizzazioni: "esse comportano necessariamente molteplici cambiamenti in tutti quegli aspetti dei rapporti di produzione e della soprastruttura che non corrispondano allo sviluppo della produttività; esigono che siano cambiati criteri di gestione, modi di agire e di pensare oggi sorpassati. Questo compito che ci assumiamo costituisce di per sé una rivoluzione vasta e profonda".

A queste prescrizioni a maglie larghe, necessariamente generiche perché il compromesso raggiunto potesse reggere, fanno seguito le riforme annunziate del sistema politico in senso proprio. Queste riforme sono intese a "codificare la democrazia in un sistema e in una forma giuridica". Questo sistema e questo ordinamento giuridico debbono assumere un carattere di stabilità e di continuità, di grande autorità, in modo che vi siano leggi alle quali si possa fare riferimento; leggi che siano rispettate, 
applicate in modo rigoroso".

Riassunti nella estrema sintesi formulata dal XIII congresso (1987), questi orientamenti convergono nella formula: "un compito centrale e due punti fondamentali"; dove il compito centrale consiste nello sviluppo economico e i due punti fondamentali consistono nel rispetto dei quattro principi cardinali3 e nel proseguimento delle riforme e della apertura al resto del mondo.

Risultato della coesistenza e dell'osservanza di questi tre comandamenti è, appunto, la stabilità politica; e questa linea fondamentale "deve restare immutata per ancora cento anni e non deve subire aggiustamenti", sostiene ancora oggi Deng Xiaoping. Le novità introdotte dalla seconda rivoluzione, annunziata dal CC del 14 novembre 1993, non attengono a queste premesse, caposaldo politico anche di questo secondo ciclo. Resta immutato il sistema, ma al suo interno sono programmati cambiamenti che ne alterano profondamente la natura.

Il fondamento di questa politica, molto organica in sé, sta però nel mantenimento della stabilità dell'intero sistema.
Ed è proprio su questo fronte che sono emerse le ombre più preoccupanti che è necessario controllare. Sul piano strettamente economico, a fronte di notevoli successi, lo sviluppo ha interessato solo una parte della popolazione (forse 200-300 milioni) quella delle zone costiere, delle zone speciali mentre l'altra parte (900-1000 milioni) ha subito notevoli contraccolpi. Lo stesso dicasi per il settore del terziario e del manifatturiero rispetto a quello agricolo; ed ancora il vertiginoso arrivo nelle città di milioni di immigrati dalla campagna. In questa situazione è facile creare situazioni di tensione fino a mettere in crisi il principio fondamentale della "unità nazionale".

Sono fatti, questi, puramente congiunturali dovuti proprio alla fase di transizione sopportabili dall'intero corpo sociale, quindi superabili in tempo relativamente breve?
È ciò che spera l'attuale classe dirigente.
Certo che la cifra di 80 milioni di cinesi che si troverebbero, oggi, al di sotto dei limiti di sussistenza rappresenta un fatto grave e carico di grande preoccupazione.

4. Economia e società: problematica aperta alla seconda rivoluzione

Questi quindici anni, prima fase della marcia della Cina verso una modernità dai connotati sempre meglio definiti, sembrano scorrere in prevalenza sul binario del "compito centrale", che è quello dello sviluppo economico. Le innovazioni introdotte - una seconda rivoluzione, dopo quella del dicembre 1978 - sia per quanto riguarda la funzionalità delle istituzioni, sia per quanto riguarda il coinvolgimento delle persone e l'appello ad assumersi personali responsabilità di iniziativa, sono ora tali da mettere in rilievo l'aspetto politico-sociale implicito nelle riforme introdotte.

Non ci sono mutamenti appariscenti, come sopra si è detto. Il sistema di proprietà pubblica, si legge nei deliberati del CC, continua a prevalere, "resta a fondamento dell'economia socialista di mercato". Ma pochi mesi prima di quel deliberato, nella sessione annuale del marzo 1993, l'Assemblea Nazionale del Popolo (A.N.P.) aveva provveduto a cambiare un punto centrale della Costituzione. L'economia, viene stabilito, non figura più come "settore gestito dallo Stato" ma come "settore di proprietà dello Stato". Lo Stato possiede, ma non gestisce; organizza la gestione della economia introducendo altri soggetti, condividendo con loro diritti e doveri.

Nella forma della società per azioni, la prevista presenza di investitori privati introduce nuovi titolari, proprietari parziali dell'impresa. In funzione dei capitali investiti, essi godono del diritto di partecipare alle decisioni strategiche dell'impresa e alla scelta dei membri del consiglio di amministrazione. Lo Stato è uno degli azionisti per la sua propria quota parte, non sempre maggioritaria, salvo che nelle imprese più importanti e nelle industrie di base. A questo punto viene da chiedersi quanto sia la quota di socialismo in una simile organizzazione, destinata ad espandersi come forma giuridica prevalente della organizzazione dell'impresa. Sempre più rarefatto, il socialismo cinese continua a cedere spazio a una struttura dell'impresa che si configura sempre più esplicitamente come proprietà capitalistica.
Dove resta lo Stato? Quale ruolo attribuisce a se stesso? "Le funzioni dello Stato nella gestione dell'economia, consistono soprattutto nel definire e mettere in opera politiche di controllo macro-economiche, nel farsi carico dei lavori di infrastruttura; nel creare un insieme di condizioni favorevoli allo sviluppo economico". Queste intenzioni, nel passato, più o meno negli stessi termini, anche se non con la stessa precisione, erano state più volte enunciate. Erano rimaste semplici intenzioni, perché lo Stato ha mostrato di non avere né la necessaria autorità né i mezzi per assolvere a questo ruolo. Avendo adesso guadagnato in autorità, si è messo a guadagnare in poteri istituzionali e in mezzi materiali; i deliberati del CC del novembre 1993 confermano questo mutamento.

Sino a ieri, rispetto all'universo dei poteri locali, sempre più rampanti e tendenzialmente sempre più autonomi, lo Stato disponeva, in materia economica, solo del potere di gestire la politica monetaria. Troppo poco per assolvere al proprio compito di direzione dell'economia e di ricerca dell'equilibrio nello sviluppo del paese. Troppo poco, se non integrato da altri fondamentali poteri. Soprattutto in materia di politica fiscale. Le novità più grosse, che la riforma intende introdurre, sono proprio in questo settore, potendosi intravedere un capovolgimento di ruoli tra centro e singole regioni, che è anche, e soprattutto, un capovolgimento di mentalità, di abitudini, vecchie quanto è vecchia la Cina.

Sino a ieri, mancandone le condizioni, non esisteva una politica fiscale dello Stato. Lo Stato si è trovato nella necessità di dare mandato alle provincie di farsi collettori di imposte anche per conto dello Stato medesimo, potendo contare, lo Stato, per la quota che gli viene annualmente attribuita, su dei forfait, stabiliti caso per caso contrattualmente, non legati ai risultati effettivi delle esazioni e per di più falcidiati da tutta una massa di esenzioni il più delle volte artificiosamente acquisite.

Si tratta ora di dare corso a un vero e proprio capovolgimento. Al sistema attuale di responsabilità fiscale delle autorità locali, su base contrattuale tra centro e periferia, "va sostituito - si stabilisce - un sistema di ripartizione delle imposte sulla base di una divisione razionale del potere di esazione tra autorità centrale e autorità locali, e vanno introdotti sistemi separati di imposta a livello centrale e a livello locale".

Che è come volere rimuovere le montagne; tali e tante saranno le resistenze prevedibili. Ma lo Stato è obbligato a intervenire; anche perché sono troppe le ombre che turbano il contesto, in sé nell'insieme positivo, della attuale fase di sviluppo della Cina, e una prolungata latitanza del potere centrale, non in grado di intervenire per mancanza di poteri effettivi, rischia di innescare fenomeni di disgregazione a cominciare dal settore economico. Dunque, una vera e propria azione di forza non rinviabile.

5. Nel contesto Cina-Mondo, come cambia il rapporto società-politica

Si profila, dunque, un punto di svolta dalle implicazioni imprevedibili. La relazione Cina-Mondo, nella configurazione sempre più marcata che va assumendo ("la Cina avanza verso il resto del mondo"), e il progressivo coinvolgimento di comparti sempre più numerosi della stessa società cinese nel processo di sviluppo, rendono quanto mai visibile il nodo non risolto degli istituti politici di partecipazione, tuttora carenti. È il grosso problema della "democrazia politica". Nella specifica situazione cinese, non è tanto problema di una pluralità di partiti, della forma-partito come tale.

Parlando a Mosca e a Parigi, Jiang Zemin dà un insolito rilievo al tema della riforma politica. Non è esatto dire, egli sostiene, che la Cina si limita a riformare l'economia trascurando la riforma politica. Una tale affermazione è quanto meno frutto di un malinteso; si guarda alle riforme "con angolature diverse, in modo differenziato" da come vengono viste e vissute in Cina.

Ci sono quanto meno due ambiti istituzionali di partecipazione politica, conferma Jiang Zemin: le Assemblee popolari ai diversi livelli, la Cooperazione e consultazione politica tra partiti qualificati come democratici (entità minime) sotto la direzione politica del P.C.C. (entità politica massima). Data l'unità di contesto della struttura politica, è difficile dire quale sia l'effettivo grado di autonomia di queste due istanze.

Torna alla mente l'interessante dibattito che, su questi temi, ha preceduto i lavori del XIII congresso (1987). Si teneva conto della necessaria gradualità, perché "la democrazia è essa stessa un processo di sviluppo"; ma si affermava nello stesso tempo che "la forma politica non è puramente decorativa. Ciò che conta, sono i suoi effetti sulla società. Un alto grado di democrazia è ciò verso cui si orienta naturalmente lo sviluppo socialista".

Sette anni fa, si è dimostrato essere prematuro teorizzare questo intreccio; ma oggi è proprio questa fisiologica correlazione dinamica che, nei fatti, prende il sopravvento.

Riconosciuta una tale esigenza, allora non si andava oltre: 'fin tanto che non si è determinata la forma della partecipazione politica e risolti i problemi conseguenti al processo di democratizzazione, troppa fretta rischia di causare instabilità sociale4 . E non si va oltre nemmeno oggi. La forma della partecipazione politica ancora non si intravede e gli strumenti istituzionali oggi operanti (Assemblee Popolari, cooperazione e consultazione politica tra più partiti) continuano a manifestare i propri limiti.
Ma la società cinese va avanti con le proprie gambe, il mutamento sociale si precisa in termini sempre più netti, in obbedienza alle proprie dinamiche interne. In sintonia con questa situazione di fatto, la seconda rivoluzione nella stabilità e i deliberati del Comitato Centrale dello scorso novembre che ne enuncia i capisaldi, prefigurano una società con ritmi di crescita economica, con una mobilità sociale, con richieste di partecipazione, con la formazione di gruppi di interesse, che comportano l'allargamento della politica e del consenso. Così come è, il P.C.C. riesce con difficoltà ad assolvere alla sua funzione di strumento di unità della società cinese. I rispettivi confini operativi (società-partito) non sono oggi sovrapponibili, essendo assai più estesi quelli della società in movimento.

A questo punto, a problema aperto, c'è da fare solo delle ipotesi. Per un atto di fiducia nella capacità di inventiva del paese, che è capacità di ricavare la verità dai fatti, ci soffermiamo sulla ipotesi più ottimista.

Come il sistema attuale - questo partito, queste Assemblee Popolari, questa Consultazione Politica tra più partiti - è 'frutto della storia", risultato di molti anni di esperienza, si può analogamente pensare che il processo di sviluppo oggi in atto, il mutamento sociale che ne consegue, potranno produrre in via di fatto la "forma politica" di cui la Cina ha oggi bisogno. Così è stato per la impensabile coesistenza di socialismo e di mercato; così è stato per il principio "uno Stato due sistemi da applicare ad Hong Kong; così comincia a essere per l'utopia della pace universale. Così potrà essere, ci auguriamo, per la forma politica di cui la Cina è alla ricerca; ma la strada è ancora lunga e irta di grandi difficoltà. Questo è il compito della nuova dirigenza del "dopo Deng Xiaoping". Non ci resta che esprimere fervidi auguri.

MONDO CINESE N. 86, MAGGIO-AGOSTO 1994

Note

1  Rispetto reciproco della sovranità e della integrità territoriale, mutua non aggressione; non ingerenza negli affari interni gli uni degli altri; uguaglianza e vantaggio reciproco; ricerca di rapporti di pace.
2 "Assistiamo alla nascita di un nuovo impero. Un impero che non avrà la sua capitale né a Washington, né a Bruxelles, né a Tokyo, né a Mosca. Nessuna evidenza territoriale, nessun gruppo dominante si imporrà. Questo impero non sarà né una super-nazione, né una repubblica universale. Non sarà governato da un imperatore... Si può pensare all'impero romano e, forse, all'impero cinese. Due spazi politici in cui i sovrani contavano meno delle regole che sono loro sopravvissute. La Cina fu una cultura prima di essere uno Stato". Con un saggio centrato su questi temi, Jean-Marie Guéhenno chiude il numero monografico dei Cahiers Français, ott.-dic. 1993, su "Ordre et disordre dans le monde". Tema del dossier: Caduto l'ordine Est-Ovest, quale nuovo ordine nel mondo?
3  Fedeltà alla via socialista, alla direzione del P.C.C., alla dittatura di democrazia popolare e al marxismo leninismo secondo Mao Zedong.
4  Beijing Information nn. 48-49, dicembre 1987.

 

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