Mao Zedong, la sua immagine, gli obbiettivi da lui perseguiti, come sembrava, di un radicale cambiamento della storia, irrompono in Occidente come un messaggio fuori dal suo contesto. Quale può esserne il senso? Quale l'origine e la motivazione? Ci si trova di fronte a un testo senza commento, difficile da interpretare, espressione di una cultura politica, di un movimento di popolo, del cui presente storico si conosce ben poco; oppure si conosce quel tanto che i filtri dell'informazione - a quell'epoca, informazione a una direzione, distorta come non mai - selezionano per l'Occidente. Una informazione di taglio negativo (Mao Zedong, i comunisti cinesi, la guerra civile in Cina presentati come la quintessenza del male che può travolgere il mondo) che la limitata contro-informazione non riesce minimamente a scalfire.
Quale che sia il giudizio che in simili condizioni si può formulare, si avverte comunque che qualcosa di straordinario va maturando in quelle lontane regioni d'Oriente. Nella Cina, ancora intesa sotto molti aspetti come mistero, avanza un movimento di popolo indecifrabile nelle sue motivazioni e nella sua straordinaria capacità di resistenza e di attacco, sotto la guida di un leader prestigioso: Mao Zedong. Ma chi è Mao Zedong?
Oggi, sparito quell'alone di mistero, acquisita ogni conoscenza possibile su Mao Zedong e sul periodo storico che lo vede in posizione dominante, la risposta che si può dare resta una risposta ancora parziale e per molti aspetti controversa. Generalmente condiviso il giudizio su Mao Zedong artefice della unificazione della Cina, il suo primato si afferma lungo tutto un arco di tempo di oltre quaranta anni, a cominciare dal convegno di Zhunyi (1935), tenuto nel succedersi delle drammatiche sequenze della lunga marcia.
Si distingue una prima fase, quella della guerra rivoluzionaria sino alla vittoria finale e alla proclamazione (1949) della Repubblica Popolare Cinese (R.p.c.). Guerra combattuta contro un nemico ben definito e perfettamente individuato come obbiettivo da colpire (Jiang Jieshi, il Giappone invasore), in un confronto di una evidenza e di una semplicità estrema; una guerra assai più semplice della politica, delle sfumate complicazioni della politica, che Mao Zedong si troverà a dovere affrontare in un tempo successivo, nella gestione del tempo di pace...". Si deve imparare a fare la guerra - riconoscerà conversando con Andrè Malraux nella intervista dell'agosto 1965 -. Ma la guerra è più semplice della politica; si tratta di avere più uomini o più coraggio"1 .
E non è detto, precisava in altro contesto2 , che chi ha saputo essere buon soldato in tempo di guerra saprà essere un buon cittadino in tempo di pace. C'è il rischio che "non sappia resistere alle pallottole ricoperte di zucchero della borghesia", alle tentazioni del potere e della vita comoda3 . Nel difficile compito della edificazione economica, "presto dovremo mettere da parte molte cose che conosciamo bene e saremo costretti a occuparci di cose che non conosciamo bene"; e del rischio implicito Mao Zedong farà effettivamente esperienza nella seconda fase, quella della riorganizzazione del Paese, quando dovrà constatare un progressivo, inarrestabile degrado, rispetto al contesto mentale, alla pratica e all'esperienza della guerra civile, quando "tutto era più semplice".
Le ragioni forti, la solidarietà, la parsimonia, che hanno dato consistenza alla forza compatta della lotta rivoluzionaria, ora si sgretolano. Ora non ci sono soltanto quelli che militano per libera scelta nelle formazioni rivoluzionarie, ne condividono i valori e ne accettano la disciplina; c'è ora l'intera società cinese da ricostituire nelle sue relazioni sociali, nei suoi ordinamenti istituzionali, nella molteplicità degli interessi come si vanno costituendo a partire dalla pratica quotidiana; è il tempo della normalità, della politica, che succede al tempo della emergenza, con le sue diverse regole e le sue diverse esigenze: nuove competenze, nuovi poteri, nuove relazioni, che le sovrastanti strutture del partito rivoluzionario non riescono più a convogliare e a governare e che Mao Zedong non riesce a valutare adeguatamente.
È una normalità incerta, patteggiata, alla quale Mao Zedong non si adatta. Sfocia in una crisi interna violenta, distruttiva. Si svolge nel confronto fra due linee che si scontrano nel partito e nel paese. Due linee, due voci.
Quella di Mao Zedong: vuole bruciare i tempi procedendo a tappe forzate per instaurare il modello di società che lui ha in mente (cooperazione forzata nelle campagne, balzo in avanti, comuni popolari), in sintonia con i valori e le idee-forza rivoluzionarie; una società militarizzata.
Quella degli oppositori (Liu Shaoqi, Deng Xiaoping): vedono la necessità di cambiare registro nella dimensione delle relazioni politiche, mediando la disarmonia delle contraddizioni che insorgono. Un contesto eretico secondo la ortodossia di Mao Zedong e dunque il "nemico" da isolare e da battere.
Individuato l'obiettivo, torna a prevalere la strategia e la tattica della guerriglia. La testa del drago si annida nel cuore del potere, nel partito e nello Stato. E contro il partito e lo Stato, Mao Zedong scatena il suo attacco. “Bombardare il quartiere generale!" È la parola d'ordine, in una continuità senza interruzione delle ragioni e degli obbiettivi della sua permanente militanza. Ma quali sono queste ragioni, quali gli obbiettivi di questo straordinario excursus storico?
C'è chi trasferisce il nucleo forte del suo pensiero e della sua personalità nel contesto occidentale dell'orizzonte marxista e di questo pensiero fa di Mao Zedong una sorta di profeta di valenza universale. La rivoluzione da lui promossa in Cina sarebbe da collegare alla rivoluzione comunista dell'Occidente; ne sarebbe "il riferimento più diretto e più attuale: il comunismo come programma immediato, non ipotesi di domani ma leva dell'oggi, condizione della rivoluzione occidentale”4 .
C'è invece, e ci sembra l'apprezzamento più convincente, chi ritiene accessorio il progetto comunista rispetto al contesto cinese nel quale Mao Zedong è fortemente radicato più di qualsiasi altro leader. È il contesto cinese che fornisce la prospettiva istituzionale: il funzionamento "padre e madre"; la trasformazione della società tanto nel suo insieme, quanto nel suo elemento costitutivo che è l'uomo; l'armonia delle relazioni sociali costituita a partire dalla pratica confuciana della benevolenza esercitata dall'uomo nuovo che è l'uomo sognato dalla cultura politica cinese come obbiettivo permanente della pratica sociale.
È l'uomo che viene prima delle istituzioni, che sulle istituzioni prevale, sino al punto da svalutarne la necessità e le funzioni, con tutti i limiti e le conseguenze nella costituzione di uno Stato moderno. E dell'uomo bisogna innanzitutto salvaguardare la dignità, che è quanto non si verifica nelle condizioni di vita oggi in Cina, ancora nella prima metà del XX secolo.
Nel passato, ricorda Mao Zedong conversando con A. Malraux, "avevo conosciuto la grande carestia di Changsha con le teste dei rivoltosi tagliate e conficcate in cima ai pali, ma l'avevo dimenticata. A tre chilometri dal mio villaggio, certi alberi non avevano più corteccia fino a quattro metri di altezza; gli affamati l'avevano mangiata. Con uomini costretti a mangiare cortecce potevamo fare combattenti migliori che con gli autisti di Shanghai". Ma Borodin, all'epoca inviato del Comintern in Cina, "non capiva niente dei contadini", commenta sarcasticamente Mao Zedong, alludendo alla disparità di giudizio sulla strategia da adottare, insorta tra lui e Borodin, vincolato dai principi teorizzati in Occidente.
"Non esiste il marxismo astratto. È un marxismo concreto, adatto alla realtà concreta della Cina: gli alberi nudi come la gente perchè la gente li sta mangiando". Così nell'intervista a Malraux.
È il tormento dei suoi anni giovanili, prima ancora della fondazione del Partito Comunista Cinese (P.c.c.), il tormento dei primi anni di militanza di partito5 , quando in tutti i modi cercava di sostenere le associazioni di contadini che si andavano autonomamente organizzando anche nella sua provincia.
"In passato - scrive nel n. 2 della Rivista del fiume Xiang, organo della Unione degli studenti da lui fondata - solo l'Imperatore non era uno schiavo... Oggi le cose stanno diversamente; pretendiamo libertà in ogni campo: libertà di pensiero, libertà politica, libertà dell'economia, libertà per uomini e donne, libertà nell'insegnamento. Tutte queste cose vogliono a viva forza uscire a vedere il cielo, finalmente liberate dalla ingiusta condizione cui sono state soggette"; che era l'esposizione analitica del principio della "democrazia come qualità spirituale" enunciato da Li Dazhai.
Nel corso della Conferenza di Yan'an sulla letteratura e l'arte (1942) insiste sulla centralità di questo riscatto, di questo rispetto delle masse diseredate. "Io sono uno che ha studiato - diceva, facendo riferimento alla sua esperienza personale - e a scuola avevo acquistato abitudini da studente. Allora credevo che gli intellettuali fossero le uniche persone pulite al mondo, a confronto delle quali gli operai e i contadini erano gente sporca... Diventato rivoluzionario, ho vissuto tra gli operai, i contadini e i soldati dell'esercito rivoluzionario e a poco a poco familiarizzai con loro. Allora, e solo allora, cambiai radicalmente il mio modo di sentire. Riuscii a capire che, paragonati agli operai e ai contadini, gli intellettuali non rieducati non erano puliti, e che, in fondo, i più puliti erano gli operai e i contadini. Ecco cosa intendo per cambiamento del proprio modo di sentire: sostituire il modo di sentire di una classe con quello di un'altra"6 .
Prima ancora del lavoro politico in senso proprio, acquista, dunque, rilevanza - in quella che è una vera e propria pratica educativa in Mao Zedong - l'atteggiamento interiore, la mentalità e l'intenzione, la "conversione", con cui ciascuno si dedica al proprio compito. Un cambiamento del proprio modo di sentire, necessario in particolare per l'uomo di cultura, da sempre punto di riferimento e "maestro" nella comunità cinese. Ma per gli uomini di cultura, precisa Mao Zedong, si pone il problema di conoscere bene gli operai, i contadini, i soldati, ai quali è destinato il loro lavoro; significa che i loro pensieri e i loro sentimenti "devono fondersi in un tutto unico con quelli delle masse degli operai, dei contadini, dei soldati". E per giungere a questa identificazione, occorre attentamente studiare il linguaggio delle masse; "se questo vi riesce inintelligibile, come potete parlare di esemplificazione artistica?"
C'è, dunque, prevalente sulle tesi politiche e sulle strategie operative, questa radicale opzione di natura etica, che consiste nel perseguire l'obbiettivo della società giusta, della salvaguardia della dignità umana.
In questa prospettiva, conferma Mao Zedong ad A. Malraux, "noi non abbiamo conquistato il popolo facendo appello alla ragione, ma sviluppando la speranza, la fiducia, la fratellanza. Di fronte alla fame, la volontà di uguaglianza prende la forma di un sentimento religioso". E non mancarono, infatti, e non c'è da stupirsi, riviste di ispirazione cattolica che videro la stessa rivoluzione culturale - proiezione estrema di questa utopia protesa a trasformarsi in realtà storica - come un impegno politico diffuso per esaltare la posizione centrale dell'uomo "coscienza dell'universo".
Come non c'è da stupirsi se ci sono stati gruppi politici marxisti, i quali, sotto la spinta degli avvenimenti cinesi, tornano a pensare come realizzabile il contesto di una società giusta, di eguali, cioè la società comunista, in ogni parte del mondo, Occidente compreso.
Eminenti sinologi vedono la scelta politica fatta dai cinesi, di gettare le basi di una nuova umanità, come la vera questione proposta al mondo dalla Cina del XX secolo: quella di mostrare ciò che essa intende fare dell'uomo. In questo progetto è compreso l'obbiettivo di portare la Cina ai livelli dei Paesi più avanzati, "senza cadere nelle terre desolate della decadenza e della degradazione che caratterizzano attualmente la società borghese e la sua bancarotta spirituale", secondo E. Show7 ; un progetto che si propone di "far giungere l'uomo completo del mondo contadino alla libertà tecnologica, senza pagare il pedaggio piccolo-borghese che in questo momento stanno pagando l'URSS e tutti gli altri Paesi del blocco sovietico", secondo A. Moravia8 .
Ma erano gli anni '60, gli anni magici fra il 1966 e il 1969, quando la medesima utopia infiammava le masse cinesi e i movimenti di ispirazione analoga sorti in Occidente.
Erano gli anni in cui ci si appropriava degli slogan gridati dalla rivoluzione culturale. "Abbiate fiducia nelle masse" era la parola d'ordine in Cina. "Appoggiatevi ad esse e rispettate la loro iniziativa. Liberatevi dalla paura. Non abbiate paura del disordine". Queste parole d'ordine erano state formulate e diffuse dal Comitato Centrale del P.c.c. nell'appello dell'agosto 1966. Le masse, si affermava, non hanno maestri; "debbono educare se stesse e imparare a distinguere tra il vero e il falso, tra il modo giusto e quello falso di operare".
Quale fosse, poi, nei comportamenti quotidiani, la consistenza effettiva e la effettiva capacità di una azione in qualche modo ordinata da parte di questo indefinito soggetto storico evocato da Mao Zedong quale nuovo protagonista della storia del mondo, veniva dimostrato dal disordine distruttivo dei primi mesi della rivoluzione culturale; una condizione di anarchia assoluta che minacciava di travolgere lo stesso Mao Zedong e l'intera Cina nelle sue strutture sociali e nelle sue istituzioni. Si imponeva necessariamente il ritorno alla ragione e alla ragione politica in primo luogo; una ragione necessaria, che ogni utopia a sfondo umanitario può orientare e stimolare ma non sostituire; una ragione e una dimensione che in Mao Zedong, alla prova dei fatti, faceva difetto.
Nell'ombra, attraverso l'azione di Zhou Enlai in primo luogo, la politica tornava a ricostruire lentamente le condizioni per un minimo di coesistenza sociale. Gli studenti tornavano nelle scuole, gli operai nelle fabbriche, i militari si tiravano fuori da ogni coinvolgimento. L'esaltazione calava di tono, in una lenta, progressiva inversione di marcia, che avrebbe portato la Cina di ieri alla Cina di oggi.
Se c'è da rimpiangere la non compiuta capacità di mobilitazione di un grande sogno - ma non poteva darsi esito diverso - di una società di eguali, resta il dato di fatto che i contadini cinesi non sono più costretti a mangiare la corteccia degli alberi, che la Cina costruisce per sè le strutture di un Paese moderno portando avanti la sua "ricerca di democrazia".
Quel sogno, dunque, almeno in parte ha funzionato; per la parte restante, l'obbiettivo maggiore non realizzato resta nel cuore degli uomini a stimolarne la ricerca e il cammino. Quello che era fuori della realtà, e tale è rimasto, era quella volontà di conclusione della storia del mondo nello spazio di una generazione.
MONDO CINESE N. 85, GENNAIO-APRILE
1994