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EDITORIALE

Una partita per Hongkong?

di Giuliano Bertuccioli

In Estremo Oriente si sta giocando da qualche tempo una partita a poker. La giocano l'Inghilterra e la Cina e la posta in gioco è il destino di Hongkong, che il 1 ° luglio 1997 sarà restituita alla Cina: destino democratico, come sembra arguirsi dagli accordi firmati da ambo le parti il 19 dicembre 1984 e che prevedono che per cinquanta anni dopo la restituzione, lo status di quella città non venga cambiato. Tutto sta però ad intendersi su questo punto e siccome le posizioni dei due governi, inglese e cinese, sembrano adesso non concordare pienamente ecco quindi il perché della partita in corso.
Vediamo dunque in dettaglio sia la posta in gioco (cioè i termini del contendere) sia le carte di cui dispongono i due giocatori. La posta in gioco è lo status democratico che Hongkong riuscirà a conservare dopo che sarà tornata a far parte della grande Cina.

Colonia inglese fin dal 1841, l'isola di Hongkong, cui poi si aggiunsero nel 1860 la penisola di Kowloon e, a partire dal 1° luglio 1898 e in fitto per 99 anni, i cosiddetti Nuovi Territori, ha conosciuto dopo il 1950, cioè dopo l'avvento del regime comunista in Cina, una straordinaria crescita e prosperità economica grazie ad un concorso forse irripetibile di fattori: la posizione geografica, da sempre eccezionale; l'immigrazione dal continente di mano d'opera a buon mercato; il trasferimento, sempre dal continente, di capitali e di esperienze manageriali; la ben nota intraprendenza ed alacrità della razza cinese; l'altrettanto ben nota capacità amministrativa dei governanti inglesi. Il risultato è stato il miracolo di quella città, che è divenuta il monumento al liberismo più sfrenato, al capitalismo trionfante, antitesi vittoriosa del diverso tipo di sviluppo economico e di gestione statalista della cosa pubblica instaurato invece nel continente cinese.

Il 1 ° luglio 1997 la colonia dovrà far ritorno alla Cina. In realtà solo i Nuovi Territori dovevano essere restituiti perché a quella data si compivano i 99 anni durante i quali essi erano stati ceduti in fitto all'Inghilterra dall'Impero cinese. L'isoletta di Hongkong e la penisola di Kowloon non erano soggette a scadenze, ma ovviamente, una volta private dei Nuovi Territori, il loro mantenimento da parte inglese sarebbe stato politicamente, economicamente e militarmente impossibile. Per questo motivo, il governo inglese colse l'occasione della restituzione dei Nuovi Territori per restituire anche la colonia di Hongkong per prevenire così le possibili rivendicazioni cinesi, cui non avrebbe potuto opporsi, e per negoziare in una migliore posizione le complesse questioni connesse al passaggio di sovranità.

La Dichiarazione congiunta, firmata il 19 dicembre 1984, (vedine il testo in Mondo Cinese, n. 50, giugno 1985, pp. 69-83) prevede che a partire dal 1° luglio 1997 verrà costituita dal Governo cinese una "Regione Amministrativa Speciale di Hongkong" (art. 3/1), che godrà di un elevato livello di autonomia (art. 3/2), sarà dotata dei poteri esecutivo, legislativo e, in maniera indipendente, giudiziario fino al più alto grado (art. 3/3) e avrà un governo composto dai locali abitanti e il cui capo dell'esecutivo sarà nominato dal Governo cinese sulla base dei risultati di elezioni e consultazioni tenute localmente (art. 3/4). L'attuale sistema sociale ed economico di Hongkong resterà immutato, come anche il modo di vivere, con i diritti e libertà, inclusi quelli della persona, di parola, di stampa, di riunione, di associazione, di viaggio, di movimento, di corrispondenza, di sciopero, di scelta dell'occupazione, di ricerca scientifica e di fede religiosa, garantiti per legge (art. 3/5). Questi punti, nonché altri, verranno stipulati in una Legge Fondamentale della Regione Amministrativa Speciale di Hongkong da parte del Congresso Nazionale del Popolo della Repubblica Popolare Cinese e resteranno immutati per 50 anni (art. 3/12).
Completano e confermano questa dichiarazione congiunta tre allegati, dei quali il primo è una "Illustrazione da parte del Governo della Repubblica Popolare Cinese dei punti fondamentali della sua politica riguardo a Hongkong", in cui praticamente si ribadisce quanto già esposto nella dichiarazione, mentre il secondo prevede la costituzione di un Comitato di Collegamento Sino-britannico per agevolare, mediante consultazioni e scambio di informazioni, il tranquillo trasferimento del governo nel 1997.
Già fin dal giorno in cui i termini dell'accordo erano stati resi noti non erano mancate voci discordi che non si erano unite al coro di coloro che esaltavano la saggezza dimostrata dai due governi nel concluderlo e si dichiaravano certi - come ad esempio disse la signora Thatcher - che quei termini così solennemente sottoscritti sarebbero poi stati lealmente rispettati. Non era mancato neppure chi aveva previsto che, col passare del tempo, il governo inglese si sarebbe trovato sempre più con le mani legate e avrebbe dovuto sempre più render conto del suo operato ai governanti di Pechino.

La conferma che queste pessimistiche previsioni non erano infondate si cominciò ad avere nel 1989, allorché l'allora governatore David Wilson formulò un piano che secondo lui avrebbe dato fiducia e slancio ad Hongkong: la costruzione di un mega aeroporto del costo di oltre 20 miliardi di dollari, che avrebbe dovuto sostituire l'attuale, di cui tutti coloro che hanno avuto la ventura di atterrare a Hongkong conoscono la pericolosità. Purtroppo non si preoccupò di procurarsi il preventivo assenso cinese, col risultato di offrire in tal modo a Pechino un ottimo strumento di pressione e ricatto, dato che senza il suo accordo nessuna banca finanzierà i lavori con prestiti rimborsabili dopo il 1997.

Fu proprio per sbloccare il progetto che il primo ministro inglese John Mayor si recò nel 1991 a Pechino: primo capo di governo occidentale a riprendere i contatti con la Cina. Ma dopo che aveva annunziato il successo della sua missione, da parte cinese vennero sollevate nuove obiezioni. Per ripicca, Mayor decise di sostituire il governatore e al posto del burocrate Wilson, dimostratosi poco aggressivo, nominò Chris Patten.

A differenza dei suoi predecessori, funzionari della carriera coloniale, portati ad atteggiamenti guardinghi, Patten, giovane e brillante uomo politico, arrivò il 9 luglio 1992 a Hongkong ben deciso a promuovere non solo quelle iniziative economiche destinate a migliorare le strutture della colonia, come ad esempio la costruzione dell'aeroporto, ma anche e soprattutto a porre le basi di salde strutture democratiche, modellate sul sistema inglese. In tal modo sarebbero stati gli stessi abitanti di Hongkong a sapersi gestire democraticamente anche dopo il 1997.

I suoi propositi hanno però cozzato con la decisa opposizione da parte di Pechino.
Per quanto riguarda l'aeroporto, Pechino ha formulato riserve sul costo dell'impresa, a suo dire esorbitante e che graverebbe sulle finanze di Hongkong per gli anni a venire, e si rifiuta di riconoscere gli impegni sottoscritti dal governo coloniale con le ditte appaltatrici. Tali critiche sembrano ignorare le considerazioni di necessità rappresentate dagli Inglesi; le loro assicurazioni che, dandosi fiducia alla finanza internazionale, sarà possibile autofinanziare il progetto e infine la loro intenzione di portare a termine l'impresa, definita colossale, per la data del 1997. I burocrati di Pechino non sembrano lasciarsi convincere dai pragmatici sostenitori del progetto, anche se il loro atteggiamento negativo, ribadito anche di recente (20 maggio), appare, come si è detto, strumentale al fine di esercitare pressioni sugli Inglesi.

Per quanto riguarda il processo di democraticizzazione avviato nell'ottobre 1992 da Patten, la riforma da lui proposta conferma le vecchie intese secondo cui fra tre anni il Consiglio legislativo, che resterà in carica dopo il 1997, verrà composto da 20 deputati scelti dai cittadini, 30 dalle corporazioni e 10 da un consiglio di notabili, ma suggerisce per 9 seggi del secondo gruppo e per i 10 del terzo un meccanismo equivalente in parte a una elezione popolare. Forte della approvazione concessagli dal Consiglio legislativo, Patten ha poi avanzato altre proposte, che dovranno essere approvate prima dell'estate, e fra cui v'è quella diretta ad abbassare l'età per votare a 18 anni.

Queste misure sono state decisamente criticate e respinte da Pechino che nel febbraio di quest'anno ha reso noto che tutti i consigli locali e l'assemblea legislativa verranno fatti terminare allorché Hongkong tornerà alla Cina. "Hongkong - ha dichiarato Lu Ping, uno dei negoziatori cinesi che di recente ha visitato la colonia snobbando Patten - è sempre stata una città economica, mai politica. Non deve far altro che concentrarsi nella produzione di ricchezza, evitando la politica. Sarebbe un disastro per lei se volesse esportare la politica nel continente..."

I rapporti tra le due parti quindi sono tutt'altro che buoni. C'è da chiedersi però perché ambedue abbiano assunto un simile atteggiamento, che sembra fatto apposta per provocare l'avversario.
Perché mai gli Inglesi, che per tanti anni dal 1841 non si erano mai preoccupati di dare una parvenza di vita democratica alla colonia, ora, a pochi anni dalla fine del loro dominio, si preoccupano tanto di porre le basi di un sistema modellato sul loro? È quello che probabilmente si chiedono i governanti di Pechino, che sospettano chissà quale manovra da parte degli Inglesi per perpetuare in tal modo il loro dominio, sia pur indirettamente, su Hongkong.

Perché mai i Cinesi assumono questo atteggiamento ostile, che non giova certo alla loro immagine internazionale (come non giovano le misure illiberali prese nei riguardi dei dissidenti) e che potrebbe avere conseguenze negative anche in campo economico, provocando timori e fughe di capitali?
A questa seconda domanda si può senz'altro rispondere che i governanti di Pechino, scottati da Tian’anmen, non hanno alcuna intenzione di introdurre altri elementi di dissenso nel loro Paese e per evitare ciò sono pronti anche a correre il rischio di far sì che la gallina dalle uova d'oro (com'è stata definita Hongkong) ne produca in futuro un po' di meno. È noto d'altra parte che l'attuale dirigenza comunista cinese ha costantemente privilegiato gli obiettivi politici anche a scapito, se necessario, del benessere economico.

Alla prima domanda si può rispondere che forse i sospetti dei dirigenti di Pechino non sono poi del tutto infondati. Resta però fermo, a voler dar credito agli Inglesi, che il progresso economico, del tipo di quello conosciuto da Hongkong in maniera così eccezionale, si può avere solo se vi è la massima assenza di vincoli, di controlli, di pastoie burocratiche. Patten lo ha ribadito il 6 maggio allorché ha detto che Hongkong non è solo un esempio di capitalismo efficiente: la sua prosperità è anche il risultato di una società libera e aperta.

Abbiamo visto il motivo del contendere. Resta ora da chiedersi di quali carte dispongano i due giocatori.
Non v'è dubbio che la Cina dispone di carte assai forti, che sono: 1) comunque andranno le cose, Hongkong sarà sua dopo il 1997 e quindi potrà disfare, se lo riterrà opportuno, quelle riforme introdotte dagli Inglesi che ha dichiarato di non poter accettare; 2) la popolazione cinese di Hongkong, composta nella stragrande maggioranza da commercianti, intenti soprattutto a perseguire il profitto, e non da intellettuali, finirebbe sempre per seguire Pechino, se questa saprà assicurarle una ragionevole prosperità economica, passando sopra agli ideali di democrazia e di libertà.

E l'Inghilterra? Anzi, Patten, che più di tutti sembra il più simile ad un giocatore di poker? Forse l'unica carta su cui Patten si basa per condurre il suo gioco è che mancano ancora tre anni al 1997 e in tre anni molte cose possono succedere: la morte di Deng, l'aprirsi di una lotta per la successione, l'accentuarsi dello squilibrio economico fra il Nord, ancora molto burocratizzato e sotto il controllo del governo centrale, e il Sud, in fase di rapido sviluppo e dove sembrano già manifestarsi tendenze centrifughe e autonomiste... Tutti elementi che possono far pensare a Patten che prima o poi fra tre anni le sue riforme finiranno per essere accettate da chi governerà allora la Cina.

Tre anni per fortuna passano presto e così non ci resta che attendere per vedere come andrà a finire.
A meno che non si tratti di una partita truccata, come molti pensano (e alcuni membri della Legislatura di Hongkong lo hanno insinuato anche di recente, il 4 maggio): una partita giocata sulle spalle di quella popolazione tra Inglesi e Cinesi. Sotto sotto, si sarebbero già messi d'accordo (o sarebbero prossimi a farlo) per annacquare tutti i progetti di democraticizzazione, ma per motivi di faccia continuerebbero a far finta di litigare. Secondo questa tesi gli Inglesi terrebbero fino ad un certo punto alla democraticizzazione di Hongkong: quel tanto necessario per esercitare anche loro una forma di pressione sui governanti di Pechino al fine di ottenere migliori vantaggi economici. Pechino per parte sua, considerando il grande sviluppo economico che tutta la Cina costiera prenderà nel prossimo futuro e corrispondendo alle istanze dei circoli industriali e commerciali di Shanghai (da sempre rivale di Hongkong e, prima del 1950, rivale vittoriosa), tenderebbe a privilegiare proprio quest'ultima, situata in una posizione più centrale, come il futuro, grande centro commerciale della Cina.

MONDO CINESE N. 85, GENNAIO-APRILE 1994

 

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