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SAGGI

La ricezione del marxismo in Cina

di Federico Avanzini

Premessa - 1. L'infanzia del marxismo cinese - 2. Scontro tra linee e sinizzazione del marxismo (1927-1956) - 3. La critica del modello sovietico: dal Grande Balzo alla morte di Mao - 4. L'oggi della Cina

Premessa

Ricezione e non influenza del marxismo in Cina, proprio per sottolineare l'atteggiamento positivo e critico che la Cina ha tenuto nei confronti del marxismo e del leninismo, teorie entrambe elaborate in un contesto storico e culturale profondamente diverso, come analisi di un modo di produzione particolare, quello capitalistico, che la Cina non ha conosciuto. Mi preme sottolineare cioè, un troppo facile errore di prospettiva che è stato spesso commesso, quando si è ridotta l'esperienza della rivoluzione comunista cinese ad un caso particolare già contenuto nel modello sovietico di transizione. In questo modo si è però stati costretti a leggere la storia della Cina contemporanea in modo profondamente deformato, inserendola di forza nella storia del sovietismo, senza riconoscerne la specificità. Mi pare invece che non sia possibile capire la Cina di oggi, senza riconoscere le peculiarità del marxismo cinese, senza sottolineare il processo di sinizzazione operato dagli intellettuali radicali cinesi fin dal momento in cui le dottrine di Marx ed Engels vennero in rapporto con la cultura cinese.

Non possiamo, a mio parere, prescindere dal peso della cultura tradizionale, dalla influenza che le categorie del pensiero classico (confuciano, legista e taoista) hanno esercitato sul marxismo, rivisitandolo criticamente, entrando con esso in conflitto o in relazione mutuale.

Ma dovendo affrontare la questione della ricezione del marxismo, per chiarezza, ma anche per scelta interpretativa, distinguerei quattro grandi periodi nella storia della Cina contemporanea, diversamente caratterizzati dall'atteggiamento tenuto nei confronti del marxismo.

Il primo periodo abbraccia un arco di storia che va dalla fine dell'Ottocento al 1927. È questa un'epoca caratterizzata dalla presa di coscienza da parte di una élite di intellettuali delle elaborazioni culturali dell'Occidente e dunque anche del marxismo.

Il succedersi degli avvenimenti è dato dai fermenti di rinnovamento che permetteranno la rivoluzione del 1911 e più in particolare dal successivo movimento del maggio 1919, dalla fondazione del Pcc nel 1921, dal periodo di collaborazione tra comunisti e nazionalisti, fino al bagno di sangue del 1927 che sancisce la fine di questo lungo periodo di gestazione del comunismo cinese.

Il secondo periodo comprende gli eventi tra il 1927 e il 1956, attraverso cui il gruppo dirigente del Pcc matura una linea politica e una strategia di transizione che culminerà nella presa del potere nell'ottobre del 1949 e nell'elaborazione del primo piano quinquennale. È questo un periodo segnato da vicende e lotte di linea molto complesse che dopo il 1935 sanciranno la vittoria della posizione maoista all'interno del partito.

Il terzo periodo lo farei coincidere con l'arco temporale compreso tra gli anni 1957 e 1976, facendolo terminare con la morte di Zhou Enlai e Mao. Questo periodo è caratterizzato dalla politica del Grande Balzo e dalla Rivoluzione Culturale che segnano il dibattito sul modello di società socialista e la polemica nei confronti dell'URSS.

L'ultimo periodo, il quarto, è quello caratterizzato dalla leadership di Deng Xíaoping in cui il gruppo dirigente del Pcc, ormai ampiamente rinnovato, si trova di fronte ai problemi del dopo Mao e alle necessità della modernizzazione del Paese.

Cerchiamo ora, seguendo questa periodizzazione, di tracciare lo sviluppo del dibattito sulla sinizzazione del marxismo, cogliendone gli elementi più significativi.

1. L'infanzia del marxismo cinese

Chiaramente esula dalla nostra trattazione l'esame delle pur importantissime vicende storiche che hanno preceduto e segnato la costituzione della repubblica del 1911. Mi limiterò pertanto a ricordare alcuni antefatti che costituiscono anche un importante punto di riferimento ideale per il dibattito teorico sulla validità del marxismo quale strumento di analisi politica capace di offrire soluzioni percorribili alla crisi della Cina post imperiale. E cioè le utopie sociali delle grandi rivolte contadine dei Taiping e dei Nian nella Cina settentrionale (tra gli anni 1850 e 1864)1; voglio ricordare i primi movimenti di modernizzazione proposti dagli agrari, volti più che altro a recuperare dall'esperienza occidentale le nuove tecnologie agricole e l'efficienza amministrativa, sulla base del principio di "mandare avanti gli affari cinesi alla maniera dell'Occidente"2. E ancora il formarsi di quelle associazioni, quali la "Società per lo studio e il rafforzamento", fondata a Pechino nel 1885, o la "Società agronomica di Shanghai" del 1897. Associazioni di ispirazione progressista e radicale. Così come non possiamo non ricordare l'attività di Kang Youwei, ispiratore di quella fallita "Riforma dei cento giorni" (giugno-settembre 1898).

Di Kang, sincero riformatore di tradizione neoconfuciana, dobbiamo ricordare l'opera più famosa, il Datong shu (Libro della Grande unità), a cui si ispirò l'attività politica del giovane Mao Zedong, e naturalmente non possiamo non citare l'opera politica di Sun Yatsen, il padre della repubblica del 1911. Ma sarebbe scorretto ridurre le influenze premarxiste a questi aspetti del nascente nazionalismo cinese a cavallo tra i due secoli. Devo pertanto sottolineare l'importanza delle tendenze anarchiche, ispirate all'antica scuola taoista, vivacissime ed organizzate intorno a quei giovani studenti cinesi che a Tokio e a Parigi mantenevano stretti rapporti con la loro patria dando vita a tutta una serie di riviste. A Parigi nel 1907 Zhang Jingjiang, Li Shizeng e Wu Zhihui dettero vita ad una rivista in cinese Shijie (Il Mondo) e al settimanale Xin shiji (Il nuovo secolo). In quegli stessi anni a Tokio si stampavano il Tianyi bao (Principi naturali) e lo Heng bao (Misura), entrambi di ispirazione anarchica3.

È tuttavia importante sottolineare che, pur nella diversità delle impostazioni ideali, tutto l'asse del dibattito di quegli anni a cavallo del nostro secolo, era costituito dalla crisi della cultura tradizionale e in particolare dall'attacco al neoconfucianesimo, canonizzato quale ideologia di legittimazione dell'impero. È dalla critica radicale della cultura ufficiale che prende le mosse il movimento intellettuale della giovane Cina repubblicana, sarà ancora la critica al confucianesimo e alla tradizione che ispirerà il movimento del maggio 1919, alla cui scuola si formeranno i giovani che poi ritroveremo tra i promotori della svolta marxista. Con il movimento del quattro maggio 1919 entriamo finalmente nel vivo della nostra indagine, in quanto queqli avvenimenti hanno la loro preparazione nel lavoro di due grandi figure di intellettuali e di politici, Chen Duxiu e Li Dazhao, che ritroveremo tra i fondatori del Pcc nel 1921.

È attraverso l'opera di questi due intellettuali, molto diversi tra loro, che il marxismo viene introdotto a pieno titolo nel dibattito culturale e politico. La rivista fondata a Shanghai nel 1915 da Chen Duxiu, "Xin Qingnian" (Gioventù nuova), costituisce il portavoce più autorevole di queste posizioni. Anche per Chen, grande ammiratore della cultura e della storia francese, il principale ostacolo al progresso della nuova Cina è costituito dalla cultura tradizionale. Confucio e il confucianesimo sono dunque i principali ostacoli da abbattere per consentire alla nazione cinese di inserirsi a pieno titolo tra le nazioni moderne. Il primo numero di "Gioventù nuova" si apre con il famoso appello di Chen alla gioventù perché si assuma il compito di rovesciare i vecchi idoli e di trasformare la società. "Siate indipendenti e non servili... Siate progressisti e non conservatori... Siate aggressivi e non pronti a ritirarvi... Siate internazionalisti e non isolazionisti... Cercate l'utilità e non il formalismo... Siate scientifici e non immaginativi..."4. È l'esortazione di Chen ai giovani, il manifesto di lotta per il progresso, un inno di fiducia nel futuro. È una carta dell'indipendenza intellettuale contro un passato formalista e conservatore; possiamo essere d'accordo con la Collotti Pischel nel definire il pensiero di Chen: "Una sorta di progressismo scientifico, positivista e illuminista"5. Chen è un occidentalista radicale, come molti altri intellettuali della sua generazione di formazione confuciana imputa tutti i mali della Cina alla inefficienza e all'incapacità della cultura tradizionale e sostiene che soltanto dall'Occidente può venire una teoria politica in grado di risolvere le contraddizioni della Cina. Oggi possiamo ritenere questo atteggiamento di Chen forse un po' ingenuo, ma credo che dobbiamo riconoscere l'enorme passo avanti compiuto da questo gruppo di intellettuali nei confronti delle posizioni sostenute dallo stesso Sun Yatsen, il quale cercava in fondo di conciliare l'inconciliabile, cioè di coniugare modernizzazione e democrazia insieme alla morale tradizionale.

Molto diversa è invece la figura di Li Dazhao, fondatore nel 1918 della "Società per lo studio del marxismo", in lui si riannodano e confluiscono assieme temi del pensiero occidentale e della tradizione filosofica cinese non confuciana. Li non nega il passato, ma cerca di leggerlo criticamente, non rifiuta la vecchia Cina, perché riconosce nella storia passata autentici momenti di grande cultura, che non possono essere respinti: "Il passato trova nel presente il suo termine e vi si riposa, mentre il futuro ha origine dal presente; il presente è il frutto dei lunghi sforzi del passato e deve iniziare il progresso nel futuro; nel presente si realizza continuamente il giovane spirito del mondo e lo spirito umano nel presente si rigenera, gettando lontano da sé l'incubo del passato".6

C'è nelle affermazioni di Li Dazhao il gusto di un argomentare dialettico, già proprio alle scuole filosofiche preconfuciane, del resto egli compì studi approfonditi sul buddhismo e sul taoismo. Li pensa alla Cina come nazione proletaria, che può dunque riscattarsi dal passato come popolo e la sua attenzione si rivolge al mondo contadino: "Io ritengo che nella grande evoluzione cosmica la prosperità e la decadenza si compiano circolarmente, senza fine; la vita non può fare a meno della morte, ciò che è caduto in rovina deve essere necessariamente ricostruito, ciò che prima era forte deve decadere, alla vecchiaia fa seguito la gioventù, la nascita di una nuova vita avviene sovente tra le tombe. Il nostro Paese e il nostro popolo hanno un passato nobile e unico nella storia, che non ha eguali dall'antichità sino ad oggi"7.

Come si può notare anche da questa breve citazione, Li dimostra una profonda avversione verso il positivismo, per gli stessi motivi rimane sempre riluttante ad accettare il materialismo storico da lui identificato con il materialismo dialettico e quindi con il determinismo8.

Sarà la rivoluzione dell'Ottobre del 1917 a costituire il vero punto di svolta nei confronti del marxismo dell'intellettualità radicale e rivoluzionaria cinese.

La vittoria leninista contro la potenza della Russia zarista, pone il marxismo in una muova luce, perché esso si è dimostrato pensiero dotato di efficacia pratica. Insisto sull'aggettivo "efficace", perché spiega la ragione dell'adesione al marxismo dei giovani intellettuali cinesi, prevalgono cioè motivazioni utilitaristiche, pragmatiche e positiviste in questo interesse verso una teoria occidentale che ha permesso al partito bolscevico di conquistare il potere.

"La vittoria del bolscevismo è - per Li - la vittoria dello spirito dell'umanità tutta".

Ma doveva essere il movimento del 4 maggio 1919 l'evento che avrebbe costituito, per così dire, il catalizzatore capace di mutare le posizioni dei giovani raccolti intorno a Chen e a Li, nel vivo dello scontro sociale, nel rapporto diretto con le contraddizioni espresse dalle forze sociali in lotta. È dopo il 1920 infatti che sia Chen che Li si dichiareranno apertamente marxisti, anche se questa dichiarazione non può certo dirsi il frutto di una adesione consapevole alla teoria di Marx ed Engels, quanto piuttosto il segno di una volontà di cambiamento. Il marxismo viene cioè accolto come uno strumento di lavoro politico nuovo, scarsa è invece l'esperienza teorica e la consapevolezza ideologica. Così all'interno di quei primi gruppi comunisti possiamo ritrovare conviventi tra loro tendenze anarchiche, nazionaliste di sinistra, corporativiste e riformiste radicali. Questa nuova fase apertasi dopo il maggio 1919 è il risultato di due concomitanti processi, l'uno interno alle correnti più radicali del movimento, l'altro provocato dai delegati del Komintern approdati in Cina per sondare la possibilità di costituire delle sezioni dell'Internazionale.

Dopo il 7 novembre del 1920 il gruppo comunista di Shanghai inizierà la pubblicazione di una nuova rivista teorica Gongchandang (Il partito comunista), in cui saranno tradotti in cinese numerosi articoli teorici forniti da Mosca.

Di Marx fino a quel momento i cinesi conoscono ancora molto poco. Il Manifesto del partito comunista viene tradotto tra il 1919 e il 1920, anche se già nel 1908 la rivista anarchica Tianyi bao ne aveva tradotto il primo capitolo. Sulla stessa rivista sempre nel 1908 era stato tradotto un capitolo de "L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato" di F. Engels, mentre nel 1912 il Xin shiyi (Il nuovo secolo) traduceva "Il socialismo dall'utopia alla scienza" sempre di Engels.

Le prime opere di Lenin vennero tradotte in cinese solo dopo il 1919, insieme a "Merce, lavoro e capitale" di Marx e a "Lotta di classe" di K. Kautsky.

Così quando nell'estate del 1921 a Shanghai viene fondato il partito comunista cinese, il dibattito sul marxismo non ha ancora avuto modo di svilupparsi pienamente ed è già condizionato dalle esigenze politiche poste dalla terza internazionale. Le differenze riscontrate tra Chen e Li si struttureranno in due tendenze politiche, costituendo il presupposto per analisi e strategie non facilmente mediabili. Chen Duxiu infatti pone al centro della sua analisi e della sua politica le concentrazioni urbane, ritenendole perno della trasformazione socialista, mentre Li Dazhao, più preoccupato di non separarsi dalla concretezza della situazione cinese, esorta i giovani a prendere contatto con la realtà contadina, forza motrice della nazione proleraria che deve liberarsi. In realtá il dibattito tra le posizioni del gruppo di Shanghai e quello di Pechino non avrà mai luogo. L'internazionale appoggerà le scelte di Chen, più comprensibili per l'ortodossia marxista-leninista, e questi pagherà gli errori della sua politica, o meglío la sua fedeltà all'internazionale, con 1'espolsione dal partito, dopo i gravi fatti di sangue del 1927, in cui troverà la morte lo stesso Li Dazhao.

Con il 1927 si chiude questo primo periodo che abbiamo definito dell'infanzia del marxismo cinese, lasciando irrisolti i problemi interpretativi e di linea posti da Chen e Li9.

2. Scontro tra linee e sinizzazione del marxismo (1927-1956)

La sconfitta della linea di Chen Duxiu apre un periodo di approfondimento critico all'interno del gruppo dirigente del partito comunista cinese e da quel momento il gruppo di Mao Zedong diviene perno di una lenta e graduale sinizzazione del marxismo. Il vecchio discepolo di Li Dazhao non dimentica la lezione del maestro e si pone su un piano di aperta rottura con le correnti positiviste e dogmatiche all'interno del partito. Al suo fianco, anche se non direttamente assimilabili a lui, ritroveremo Zhu De, Peng Dehuai, e in seguito Zhou Enlai, Liu Shaoqi e Deng Xiaoping. Li ritroviamo uniti in quella che è forse una delle fasi più drammatiche della storia della Cina comunista, durante la guerra civile e il durissimo scontro di linea con il gruppo di Wang Ming, i cosiddetti "ventotto bolscevichi" e contro Li Lisan10.

Lo scontro tra la linea politica di Li Lisan e quella sostenuta da Mao culminò in un brutto episodio (incidente di Futian del dicembre 1930) in cui vennero passati per le armi molti oppositori della linea di Mao. Anche in questo caso al centro dello scontro è la questione contadina, proposta all'attenzíone del partito dal saggio di Mao sul movimento contadino hunanese del 192711. La divergenza si radicalizza con l'intervento del gruppo dei "ventotto bolscevichi" di Wang Ming, di rigida formazione stalinista. Tra il 1931 e il 1935 la linea di Wang Ming domina il partito, forte dell'appoggio dell'Internazionale; Mao Zedong viene ripetutamente attaccato come deviazionista anarchicheggiante e piccolo borghese per le sue tesi sul movimento contadino12.

La conferenza di Zunyi del 1935 segnò il declino delle posizioni del gruppo di Wang Ming e il graduale affermarsi della linea maoista nel partito, ma le antiche divergenze tra il gruppo di Shanghai e quello di Pechino, a cui si era aggiunta la complessa vicenda dei "ventotto bolscevichi", non vennero risolte. Esse riemergeranno dopo il 1949 durante il dibattito sulle scelte di pianificazione, ci si accorgerà allora che i differenti approcci alla teoria marxista hanno impedito il formarsi di un gruppo dirigente omogeneo. Questo di per sé non costituirebbe un ostacolo insormontabile, se il partito fosse in grado di fare interagire le differenti posizioni assumendole positivamente come espressioni di una dialettica interna. Cerchiamo ora di enucleare i principali temi del dibattito politico, al centro della divergenza la questione della cosiddetta "sinizzazione del marxismo", il giudizio sul modello sovietico di pianificazione e l'atteggiamento da adottare nei confronti delle tecnologie occidentali.

Quando diciamo "sinizzazione del marxismo" intendiamo riferirci alla battaglia intrapresa da Mao Zedong contro le interpretazioni positiviste e terzinternazionaliste del marxismo. "... Se non abbiamo creato la nostra teoria conforme alle necessità concrete della Cina, una teoria che è nostra e ha il suo carattere specifico, commetteremmo una assurdità definendoci teorici marxisti", l'antica lezione di Li Dazhao viene ripresa e sviluppata dal discepolo che aggiunge: "Pertanto la sinizzazione del marxismo, cioè imprimergli in ogni manifestazione il segno delle particolarità cinesi e applicarlo quindi in conformità alle particolarità cinesi, è un problema che tutto il partito deve comprendere e risolvere senza indugi"13.

Negli anni 1937-1942, quando sosteneva queste tesi, Mao non era certamente consapevole della rottura ermeneutica che stava avviando suggerendo una simile lettura del marxismo, così nettamente in contrasto con il Diamat stalinista. Fino alla metà degli anni cinquanta Mao Zedong crede di poter ancora conciliare le proprie tesi sul marxismo con il punto di vista sovietico, la politica del Grande Balzo del 1957-58 segnerà il momento di presa di coscienza dell'impossibilità della conciliazione. La critica degli errori del primo piano quinquennale, avviata da Mao nello scritto "Sui dieci grandi rapporti" (1956)14, costituisce un importante punto di svolta che anticipa la riflessione degli anni sessanta sugli errori dello stalinismo. Del resto fino a quel momento l'unica esperienza storica a cui la nuova Cina comunista possa guardare, è quella fornita dall'URSS. Accogliere il modello sovietico significava dare priorità assoluta allo sviluppo dell'industria pesante; il polo mancese, unico veramente attrezzato, era del resto caratterizzato da una forte presenza dell'industria siderurgica: sembrava dunque naturale optare, in quei primi anni cinquanta, per il modello sovietico. Del resto l'imitazione dell'URSS si imponeva, non soltanto per l'inesperienza dei nuovi dirigenti cinesi in materia economica, ma per una serie ben più rilevante di ragioni che cercheremo di illustrare brevemente.

Prima fra tutte, il riferimento comune ad un movimento comunista internazionale che legava ideologicamente il Pcc al Pcus, molti dei dirigenti cinesi negli anni tra il trenta e il quaranta, si erano formati alla scuola dell'internazionale comunista e pertanto condividevano in ampia misura le concezioni sovietiche del potere, del partito e dello Stato nel socialismo. Inoltre non deve essere dimenticato che l'URSS era l'unica potenza economica che si era dichiarata disponibile ad aiutare finanziariamente la nuova Repubblica popolare cinese, che Mosca considerava ormai inserita di diritto nella sua area di influenza. Così le esperienze del Jiangxi e di Yan'an vengono allontanate nel passato, come episodi di una lotta contadina, utile, forse necessaria, ma ormai superata dalle nuove necessità della pianificazione industriale, che vede le città al centro della strategia di sviluppo15. Il modello sovietico si presentava del resto come il più idoneo, all'interno di una concezione della transizione che non si voleva conflittuale con quella di Mosca, per dar vita ad un progetto di accumulazione e di modernizzazione tecnologica, in assenza di una borghesia nazionale capace di esprimere una propria egemonia politica. Anzi, quella borghesia nazionale, politicamente incerta ed economicamente debole, poteva essere recuperata nel modello di sviluppo con funzioni tecnico-manageriali. Riemergono così quelle posizioni teoriche che facevamo risalire al gruppo di Shanghai, frutto di un marxismo inteso in chiave scientista e positivista, come strumento normativo di lavoro e anche come codice di comportamento morale. Un marxismo che si fa economia politica, modello rigoroso su cui progettare la nuova società socialista.

La chiave di lettura dello sviluppo è saldamente ancorata allo schema staliniano classico dei cinque stadi, scanditi sullo sviluppo delle forze produttive. Tuttavia sbaglieremmo se identificassimo le posizioni di Liu Shaoqi, il più autorevole esponente di questa corrente del partito, con lo stalinismo, infatti non dobbiamo dimenticare che, al di là delle divergenze, anche Liu, come Mao, si era opposto alla linea politica del gruppo di Wang Ming. Il dissenso pertanto non può essere spiegato se non a partire da un esame del complesso intreccio di relazioni che legano, in modo diverso, i membri del gruppo dirigente del Pcc alle diverse correnti del pensiero tradizionale. Ci accorgiamo allora che lo "stalinismo" di Liu Shaoqi è in realtà il risultato di un'opzione statualista che affonda le sue radici culturali nel neoconfucianesimo Song; nella concezione di Liu il buon comunista si identifica con il buon funzionario della tradizione confuciana, scrupoloso amministratore dello Stato centralizzato. Così l'adesione al modello sovietico di transizione è dettata più da motivi di utilità che non da ragioni ideologiche, o meglio, Liu accetta dal marxismo sovietico quelle tesi che possono in qualche modo "modernizzare" la filosofia politica neoconfuciana. Lo stesso pragmatismo di Deng Xiaoping è consostanziale alle posizioni confuciane, anche se deve essere evidenziata poi una diversa attenzione di Deng nei confronti del. modello di industrializzazione occidentale16.

3. La critica del modello sovietico:dal Grande Balzo alla morte di Mao

Il dibattito sugli obiettivi del secondo piano quinquennale da un lato, e le scelte del Pcus dopo la morte di Stalin (XX Congresso) dall'altro, convincono Mao Zedong della inconciliabilità delle proprie tesi politiche con l'ortodossia marxista-leninista. La ragione dell'inconciliabilità è ancora quella già evidenziata (sia pure problematicamente) da Li Dazhao nel 1919 nella controversia sul "problema degli ismi"; la diversa valutazione dei fenomeni economici.

"Noi non possiamo ritenere giusto il materialismo storico quando dice che i fenomeni economici hanno una natura sostanzialmente immodificabile"17, scriveva Li Dazhao, denunciando il meccanicismo determìnistico del marxismo sovietico e rilevando l'esistenza di una divergenza che si sarebbe approfondita col tempo.

Il rifiuto di Mao di analizzare il mondo contadino con le categorie del marxismo terzinternazionalísta, già negli anni venti, costituivano le premesse di un profondo dissenso teorico. Mao non accetta la categoria di arretratezza, così come viene mutuata dalla teoria staliniana dello sviluppo delle forze produttive; in lui c'è la consapevolezza, mutuata dalla pratica, che il mondo contadino è una realtà complessa e contraddittoria, non riducibile ad una analisi di mera subalternità economica. Mao sembra preoccupato di non tradire l'insegnamento di Li Dazhao, che sente istintivamente più aderente al suo modo di pensare, al suo bisogno di essere ad un tempo rivoluzionario e nazionalista. L'obiettivo anche per Mao è quello di creare un fronte unico delle masse popolari al fine di conquistare la liberazione nazionale della Cina. Così già nell'articolo sull'analisi delle classi, del febbraio 1926, Mao Zedong scriveva: "Quanti sono i nostri veri amici- Trecentonovantacinque milioni. Quanti sono i nostri veri nemici- Un milione". E aggiungeva: "Trecentonovantacinque milioni, unitevi!", proponendo un vasto fronte unito, comprendente di fatto il novantacinque per cento del popolo cinese18. Giustamente S. Schram osserva che Mao poteva ritenere queste sue tesi omogenee al marxismo-leninismo, a causa sostanzialmente di un equivoco semantico, di non facile soluzione. Scrive lo Schram: " Le espressioni cinesi coniate per tradurre i termini borghesia e proletariato, significano letteralmente classe possidente e classe non possidente"19.

In tal modo Mao, come Li Dazhao, poteva sostenere una linea di grande unità nazionale, come unità delle classi non possidenti, cioè del proletariato, inteso però in termini non più rigorosamente marxistileninisti, e non avvertire ancora il conflitto ideologico e politico che stava innescando. Ma al di là di questo equivoco semantico, dobbiamo rilevare una diversa attenzione in Mao nei confronti del movimento contadino e della sua storia, che si esprime in una capacità di leggere il passato come una prefigurazione del futuro della Cina. Nelle sue lotte il movimento contadino (dai turbanti gialli ai Taiping) ha anticipato, senza riuscire mai a realizzarlo un mondo nuovo, che Mao ritiene di poter rivendicare come parte importante di "un'utopia concreta"20. Per questo motivo egli rifiuta la categoria di arretratezza come categoria capace di cogliere la verità del mondo contadino cinese. C'è in questa tesi una sorprendente analogia con l'elaborazione blochiana e in particolare con le considerazioni sulla categoria della non contemporaneità (Ungleichzeitigkeit)21. In questo caso la non contemporaneità del mondo contadino cinese, è capace di farsi critica del mondo presente, portando in sé un segno di ambigua ambivalenza, perché la critica potrebbe diventare nostalgia di un mitico passato di armonia e di pace, ma potrebbe anche trasformarsi in speranza in un futuro diverso. Mao ha saputo cogliere questa ambivalenza e si è battuto per rivendicare un ruolo protagonista al movimento contadino, recuperando la memoria storica delle rivolte contadine del passato, utilizzando i linguaggi, le immagini, le forme di lotta e di organizzazione che le masse rurali avevano elaborato.

Questa attenzione al mondo contadino permette a Mao Zedong di elaborare una strategia per la presa del potere e un'ipotesi di transizione completamente originali rispetto alle tesi suggerite dall'internazionale comunista e in aperto conflitto con il modello stalinista. L'ipotesi di industrializzazione diffusa che Mao propone con il Grande Balzo tende ancora una volta a recuperare le strutture economiche tradizionali del mondo rurale, l'imprenditorialità di villaggio, le rísorse produttive della piccola industria artigiana, le tecnologie tradizionali, per recuperare e utilizzare tutti quei momenti organizzativi propri della realtà contadina, che il piano sovietico aveva relegato frettolosamente in un passato ormai morto. Al contrario, la proposta di Mao di "prendere l'agricoltura come base e l'industria come fattore guida" tende a recuperare ogni potenzialità contenuta nel passato dell'economia rurale; scompare a livello di analisi la coppia arretrato-avanzato, come coppia di categorie antitetiche, mentre si precisano le critiche al modello sovietico che viene accusato di sacrificare le masse rurali al processo di industrializzazione e di identificare il socialismo con lo sviluppo quantitativo delle forze produttive. Ma è sull'analisi delle contraddizioni che si consumerà l'irreversibile rottura tra il marxismo di Mao e il marxismo sovietico. Il primo saggio "Sulla contraddizione" è del 1937, anche se è doveroso ricordare che non verrà stampato fino al 1952, solo quattro anni prima del più consapevole e meglio argomentato "Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo". Mao tornerà ancora sul tema della contraddizione in una serie di interventi negli anni sessanta, in gran parte ancora inediti nella Rpc22.

Dai saggi sulla contraddizione è possibile evidenziare la peculiare lettura che Mao tenta della dialettica marxista attraverso una contaminazione con l'antico pensiero taoista. A mio parere cioè non si può capire la teoria maoista delle contraddizioni se non si evidenzia il legame tra questa e il taoismo.

Scrive Mao: "Lo sviluppo delle cose e dei fenomeni è suscitato dalle loro contraddizioni interne"23. E poco oltre aggiunge: "Contrariamente alla concezione metafisica del mondo, quella materialisticodialettica esige che, nello studio dello sviluppo delle cose e dei fenomeni, si proceda partendo dall'analisi dei loro contenuti intrinseci e dei rapporti che collegano l'oggetto studiato con gli altri..."24.

Mao nel 1937, nel saggio sulla Contraddizione, ritiene ancora di poter conciliare la propria lettura del marxismo con il Diamat staliniano, più semplicemente non rileva la differenza che lo oppone al materialismo di scuola sovietica.

Ma il suo materialismo-dialettico si presenta filtrato all'interno di categorie proprie del pensiero taoista, come il principio di reciprocità tra le cose-evento, la categoria di essere come essere in relazione e quella dell'intrinsecità e universalità della contraddizione, che è alla base di quel principio taoista che J. Needham definisce: "di governo dall'interno"25. Accettando la lezione del Needham, mi pare di poter sostenere che la teoria maoista della contraddizione si fonda sulla categoria del "ji gang" (letteralmente: districare i fili di una rete, porre ordine), che suggerisce una concezione dell'universo costituito da una "trama di rapporti i cui nodi sono costituiti da cose e da eventi" in continuo movimento.

Non a caso Needham reinterpreta questo sistema filosofico riconducendolo all'interno di una spiegazione organicistica della natura; materialismo-dialettico come materialismo organicistico, ma a questo punto del Diamat staliniano non rimane più nulla26.

Il processo di sviluppo e di trasformazione di ogni cosa o evento è segnato dal rapporto con gli altri "nodi" della rete, rapporti che determinano e spiegano la presenza della contraddizione, quali cause esterne agenti sulla "natura contraddittoria essenzialmente inerente alle cose stesse"27. Tale marxismo di Mao ha immediata rilevanza politica, perché il suo modello concettuale esclude la possibilità di costruire una società senza contraddizioni, senza conflitti, sostenere altrimenti sarebbe come proporre la possibilità di uscire dalla storia, cioè non più un'utopia concreta, ma l'assurdo. Le premesse per la critica dello stalinismo sono dunque già poste nel saggio del 1937, anche se dovremo aspettare i secondi anni cinquanta per poter rilevare da parte di Mao Zedong una piena consapevolezza dell'inconciliabilità delle sue premesse teoretiche con il materialismo dialettico.

Un altro elemento di originalità e differenziazione delle tesi di Mao sulla contraddizione è dato dalla sua concezione degli opposti, che tra l'altro ritornerà come slogan politico durante la rivoluzione culturale, sintetizzata nella formula: "l'uno si divide in due". Dove gli opposti di questo "uno" che si divide implicano reciprocamente, e cosa più importante, si implicano reciprocamente sia in quanto alla esistenza, sia in quanto a definizione. "... Gli aspetti contraddittori non possono esistere isolatamente, l'uno senza l'altro. Se uno dei due aspetti opposti e contrastanti manca, le condizioni d'esistenza dell'altro aspetto vengono meno ugualmente"28. Questa concezione sull'identità e la lotta dei contrari non si spiega se non ricollegandola al taoismo del Zhuangzi, e più precisamente a quella particolare categoria costituita dal "xiang sheng" (reciproco nascere), che spiega il reciproco darsi degli opposti. Non è un caso infatti che Mao faccia seguire l'affermazione che abbiamo citato da una serie di esemplificazioni che possiamo ritrovare anche nel Daodejing e nel Zhuangzi: "Senza vita, nessuna morte; senza morte, niente vita. Non c'è alto senza basso, né il basso senza l'alto. Felice è il contrario d'infelice: senza felicità non esiste nemmeno l'infelicità. Senza facile manca il difficile, e viceversa"29. Gli opposti si implicano sempre reciprocamente e ricevono significato l'uno dall'altro. Sul piano politico questo comporta una serie di conseguenze rilevanti, negare infatti come farà Mao. in un intervento su questioni filosofiche del 1964, la possibilità della "negazione della negazione"30, significa sostenere la conflittualità come prassi e il disequilibrio come leuge dello sviluppo.

La rivoluzione culturale si situa all'interno di questa concezione della contraddizione, come tentativo, certamente criticabile, ma non folle, di risolvere quelle che Mao identificava come contraddizioni della fase di transizione, le conflittualità emergenti tra partito e apparati dello Stato, tra questi e le organizzazioni di massa, tra modernizzazione della società e bisogni sociali, tra politica ed economia, ecc.

La contraddizione è il motore della storia, dunque per Mao non può esserci soluzione del processo, ma questa tesi pone immediatamente il problema del come e con quali regole si possa sviluppare il confitto, affinché esso non degeneri necessariamente in guerra e non si trasformi nella dittatura di una posizione sulle altre.

Le soluzioni adottate durante la rivoluzione culturale si sono dimostrate insoddisfacenti o troppo provvisorie per risolvere questi problemi che coincidono con la possibilità di esercitare in modo pieno e sostanziale il controllo democratico sulle istituzioni, garantendone un'effettiva rappresentatività.

Se per Mao l'equilibrio non è affatto un ottimo paretiano, e se per di più esso è comunque soltanto temporaneo, diventa risolutore il ruolo della prassi umana per definire non arbitrariamente la natura delle contraddizioni. È l'intervento dei soggetti sociali, delle classi, dei gruppi organizzati che può determinare il precipitare di una contraddizione in modo antagonista o la sua soluzione; l'incapacità o la non volontà, l'opporsi all'inevitabile gioco delle contraddizioni, può spiegare la crisi; lo sviluppo non è un dato, ma una conquista della ragione inserita nel processo contraddittorio del reale, inteso sia come storia che come natura.

A questo punto non si possono ipotizzare soluzioni definitive, vittorie irreversibili, perché è sempre possibile intervenire in modo sbagliato sulle contraddizioni. Mao Zedong introduce così un elemento nuovo nella sua analisi sulla contraddizione, dopo gli anni cinquanta, che ho voluto definire in termini di "ritmo"; mi sembra cioè di poter sostenere che nell'analisi e nella soluzione delle contraddizioni, che Mao definisce "in seno al popolo", diventa decisivo il concetto di "ritmo", come ritmo delle trasformazioni socio-economiche e come ritmo scandito dal succedersi delle contraddizioni stesse, legge interna agli eventi e alle cose. Conosciuto il ritmo dello sviluppo delle contraddizioni storico-sociali, per Mao la preoccupazione principale diventa quella di inserirsi in tali scansioni temporali con dinamismo, senza mai ostacolare i necessari processi di rinnovamento: "saper essere serpente e drago insieme"; saper provocare cioè grandi sommovimenti, ma saper anche all'occorrenza muoversi con estrema cautela, secondo una legge del movimento che non è mai data arbitrariamente, ma posta nei fatti e dai fatti della storia. Anche questa concezione della dialettica come ritmo, Mao Zedong la rielabora accettando la lezione della scuola taoista, che fonda il wu wei come prassi politica proprio per non ostacolare il "ritmo cosmico". Il wu wei si fa allora concreta ed attiva adesione al mutamento, capacità di leggere i più piccoli segni del formarsi di nuove condizioni ner accelerare la trasformazione della base socio-economica, per favorire nuovi livelli di aggregazione sociale. Wu wei dunque come affermazione di una razionalità che non è mai sinonimo di razionalizzazione dell'esistente, ma gusto per il conflitto, che si fa legge dello sviluppo; wu wei come critica del potere inteso stalinianamente come dittatura verticale del partito; wu wei come critica dell'economia politica, secondo la lezione di Marx, cioè come critica di quella teoria dello sviluppo delle forze produttive che pretende di fondarsi su improbabili leggi di natura.

Per Mao Zedong il ritmo delle contraddizioni nella società è scandito dalla lotta di classe, dalla lotta tra il vecchio e il nuovo, dalla lotta per conquistare migliori livelli di organizzazione produttiva e di vita. Il ponte tra taoismo e marxismo è ancora una volta fornito dall'opera teorica di Li Dazhao, che negli anni venti durante la polemica sugli "ismi", aveva valorizzato la teoria della lotta di classe contrapponendola al materialismo dialettico, da lui ritenuto eccessivamente deterministico31. Per questo motivo ribadisco che il materialismo di Mao si presenta più come organicismo che come materialismo dialettico. Materialismo organicistico o filosofia dell'organismo, che si costruisce a partire dalla categoria di "essere in relazione", come rapporto di soggettività antagoniste. L'oggetto non è mai posto al di fuori e al di là del soggetto, come qualcosa che si può definire in sé; senza implicare in qualche modo nella definizione il soggetto stesso. L'uno spiega l'altro e viceversa, in un darsi dell'oggetto che è anche un porsi del soggetto, come due poli di una contraddizione32.

4. L'oggi della Cina

Dopo la morte di Mao (settembre 1976) e la sconfitta del gruppo dei radicali di Shanghai, le cui posizioni sono state troppo frettolosamente assimilate a quelle di Mao, all'interno del partito comunista cinese ha ripreso quota, per opera di Deng Xiaoping, una concezione del marxismo per molti aspetti riconducibile a quella elaborata negli anni venti da Chen Duxiu, un marxismo cioè inteso prima di tutto come teoria economica dello sviluppo socialista e come scienza sociale.

L'accento è posto pragmatisticamente sulle necessità di sviluppo e di modernizzazione del Paese, i temi della rivoluzione culturale sono stati abbandonati per far posto all'ideologia del progresso e della crescita economica. Se negli anni venti, durante il dibattito sugli "ismi", l'adesione fiduciosa ai miti scientisti dell'Occidente e la fede in uno sviluppo senza aggettivi, potevano essere comprensibili, vero è che oggi, di fronte alla crisi che investe la nozione stessa di progresso, e di fronte alle sempre più gravi contraddizioni che travagliano il socialismo reale, appare assai poco credibile riproporre un marxismo in termini di scienza normativa, senza fare i conti apertamente con il proprio recente passato, in primo luogo con il marxismo di Mao. Un'ottica pragmatica ben difficilmente può risolvere l'insieme di problemi posti dalla crisi del marxismo sovietico, a meno che l'obiettivo non sia quello di muoversi, con piccoli spostamenti progressivi, verso una concezione pluralistica della società e una ipotesi " laica " dello Stato. Nulla però fino ad oggi può incoraggiare una simile interpretazione, ma è anche inutile pensare di poter suggerire risposte dall'esterno, conosciamo infatti quale esito hanno avuto i tentativi fatti per esportare modelli occidentali nei Paesi del terzo mondo.

Così come la Cina ha saputo sinizzare il marxismo, deve saper scoprire ed elaborare contando sulla propria esperienza passata, nuove forme di democrazia socialista. Non solo le contraddizioni del presente, le necessità poste dal processo di modernizzazione, richiedono altre soluzioni, ma i sempre più stabili rapporti con i Paesi occidentali, gli scambi commerciali, culturali e tecnologici, impongono un riesame approfondito delle ragioni teoretiche del mutamento. Finora le soluzioni sono state temporanee, legate a momenti congiunturali di una lotta politica aspra interna al gruppo dirigente del partito; ma i grandi interrogativi sul futuro rimangono ancora senza risposta.

Che significa modernizzare la Cina? Quali sbocchi dovrà avere, in termini di trasformazioni politiche e sociali, l'attuale sforzo di crescita economica?

Come confrontarsi con l'Occidente e che cosa recepire dall'Occidente rimane ancora il vero problema irrisolto, da quando la Cina è entrata in rapporto con le potenze occidentali; l'incontro con la tecnologia occidentale ha accelerato drammaticamente una crisi culturale che probabilmente si sarebbe manifestata in tempi e modi diversi, aprendo lacerazioni profonde nel tessuto sociale del Paese, mettendo a nudo le debolezze e gli errori di una vecchia classe dirigente e costringendo gli intellettuali a fare frettolosamente i conti con il passato, a dividersi tra occidentalisti e nazionalisti. L'adesione al marxismo, come ho cercato di dimostrare, non ha permesso di superare la divisione, ma l'ha soltanto riproposta in termini diversi all'interno stesso del partito comunista. Mao, cosciente di questa pluralità di tendenze, aveva tentato ripetutamente di definirne le possibilità di espressione (dialettica delle contraddizioni in seno al popolo), ma come osserva giustamente la E. Masi -: "In quella logica (marxistaleninista), ogni differenziazione di interessi e di orientamenti confluisce nella spaccatura di classe fondamentale e quindi dà luogo allo stato di guerra; oppure è classificata come secondaria, e tendenzialmente assorbita e annullata, in funzione della guerra contro il nemico comune"33. Di fronte alle necessità dello sviluppo socio-economico, Mao aveva tentato di superare i limiti di una teoria che si presentava come legittimazione di un potere onnivoro e sclerotizzante, incapace tra l'altro di ripensare l'economico al di fuori della dicotomia piano/mercato.

L'ottica pragmatica non può fornire soluzioni durevoli, e ritengo che l'attuale gruppo dirigente non potrà evitare di fare un bilancio meditato della lezione maoista, in particolare penso al problema posto dall'uso delle tecnologie occidentali, già affrontato durante la rivoluzione culturale sotto l'aspetto del management, o a quello dell'imprenditività che Mao aveva cominciato ad intuire negli anni del Grande Balzo. Con il Grande Balzo, Mao Zedong aveva infatti cercato un'integrazione tra attività agricole ed industriali sul territorio, puntando ad un decentramento industriale e fondandolo sulla realizzazione di unità produttive piccole e medie. Voleva far leva sull'imprenditorialità tradizionale del mondo rurale, sulla tradizione dell'impresa artigiana di villaggio, sull'iniziativa diretta dei produttori34.

Credo che sarebbe importante ritornare a riflettere su questa ipotesi che definisco di «imprenditorialità diffusa», senza sentirsi vincolati dalle forme in cui Mao l'ha pensata, comunque ad una tale riflessione difficilmente potrà sottrarsi il Pcc, se vorrà evitare le aporie dello stalinismo e gli errori del socialismo realizzato.

MONDO CINESE N. 47, SETTEMBRE 1984

Note

1 Sul movimento dei Taiping si possono leggere, J. Reclus, La rèvolte des Tai'ping (1851-1864), Paris 1972; F. Michael, The Taiping Rebellion, Seattle 19661971; J. Chesneaux, Le mouvement paysan cbinois (1840-1949), Paris 1976.
2 È questo l'obiettivo del vangwu yundong (movimento per le attività all'occidentale), promosso e sostenuto tra il 1885 e il 1894 dai principali governatori generali quali Li Hongzhang, Zhang Zhidong, Zeng Guoquan e Liu Kunyi. Sulle origini del movimento e sulla sua storia, cfr. J. Chesneaux, Histoire de la Chine, Paris 1969-1972, trad. it. La Cina 2 volumi, Torino 1974, in particolare pp. 254-305 del 1° vol. e pp. 23-81 del 2° volume.
3 R.A. Scalapino, G.T. Yu, The chinese Anarchist Movement, Berkeley 1961.
4 Xin Qingnian, vol. 1° n. 1; il testo dell'articolo di Chen Duxiu è parzialmente tradotto in: E. Collotti Pischel, Le origini ideologiche della rivoluzione cinese, Torino 1979, 2a ed., pp. 69-70; in J. Chesneaux, Histoire de la Chine, op. cit., vol. 2° della trad. it., pp. 252-255; e in J. Chesneaux, La Cina contemporanea, Bari 1963, pp. 170-180.
5 E. Collotti Pischel, Le origini ideologiche della rivoluzione cinese, op. cit., p. 171.
6 Li Dazhao, "Jin" (Adesso), Xin Qingnian vol. IV, n. 4, 15 aprile 1918 pp. 307-310; anche in Li Dazbao xuanji (Opere scelte di Li Dazhao), Pechino 1959, pp. 93-96. Sullo stesso argomento Li si era già chiaramente espresso in un articolo pubblicato su Xin Qingnian, nel settembre del 1916, dal titolo Qingchun (Primavera), in cui tra l'altro leggiamo: "La vecchia Cina è il frutto da cui è nata la giovane Cina, la giovane Cina è il fiore per mezzo del quale la vecchia Cina rinasce. La vecchia Cina è un fiore appassito, la giovane Cina è un fiore in boccio. Una nuova fioritura deve sempre essere preceduta dall'appassire di quella precedente". Li Dazhao, "Qingchun", in Xin Qingnian, vol. II, n. 1, 1 settembre 1916, pp. 1-12, anche in Li Dazbao xuanji, Pechino 1959, pp. 65-76.
7 Li Dazhao, " Chen zhong zhi shiming " (La missione della Campana del mattino), in Chen zhong pao, n. 1, del 15 agosto 1916, in Li Dazhao xuanji, pp. 58-63. Traduzione italiana in V. Costantini, Il socialismo in Cina prima di Mao, Milano 1980, pp. 233-235.
8 Li Dazhao ritiene di poter superare le tendenze positivistiche del marxismo proponendo un'interpretazione della teoria della lotta di classe che gli consenta di valorizzare il primato dell'autocoscienza e dell'etica come imperativo naturale di ogni attività umana. "Soltanto l'etica è quella specie di cosa che possiede in sé una autorità naturale. Questa autorità naturale non deriva dal cielo, essa è la voce del cuore umano, lo spirito dell'autosacrificio" (Li Dazhao, Wuzhi biandong yu daode biandong (Mutamento materiale e mutamento etico) in Li Dazbao xuanji, op. cit, pp. 256-273, anche Li Dazhao Wode Makesizhuyi guan (Il mio punto di vista marxista) scritto tra il maggio e il novembre del 1919, ora in Li Dazhao xuanji, pp. 173-211). Alla base dell'atteggiamento critico di Li è implicito il rifiuto di considerare ciò che in termini marxisti è definita sovrastruttura, quale prodotto di leggi dello sviluppo economico-sociale. Li, ribadendo la lezione della filosofia classica cinese, sostiene che le radici del socialismo sono prima di tutto etiche, infatti senza tensione morale, senza l'attività consapevole dell'uomo è impossibile pensare qualsiasi sviluppo storico. Per Li Dazhao la necessità del socialismo non è scritta nello sviluppo delle forze produttive ma piuttosto è imputabile alle emozioni, ai desideri, alla volontà consapevole degli uomini. Per questo anche la Cina può porsi l'obiettivo del socialismo, a partire dalla critica del sistema esistente, senza dover necessariamente attraversare una fase di sviluppo capitalistico. In queste argomentazioni di Li Dazhao sono già poste, a mio parere, le premesse della critica di Mao alle tesi di Stalin, esposte nei "Problemi economici del socialismo in URSS", sulla necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive. Mao non nega l'esistenza della contraddizione, ma si rifiuta di trattarla come una contraddizione di natura tecnico-economica, ritenendo che essa possa essere superata soltanto attraverso un'azíone politica volta a modificare i rapporti di forza tra i fattori, considerati sempre come mossi da precisi interessi di classe e di potere. Allo sviluppo, secondo Mao, può essere impresso un carattere socialista - questo prescindendo dal livello delle forze produttive - purché l'obiettivo principale rimanga quello di spezzare i rapporti di sfruttamento e di subordinazione esistenti, insieme all'ordinamento gerarchico e alla concezione ideologica che lo legittima. (Sulle critiche di Li Dazhao al materialismo dialettico si possono leggere le osservazioni del Meisner, in M. Meisner, Li Ta Chao and the Origins of Chinese Marxism, Harvard U. P., 2a ed. 1968, in particolare il VI cap. dal titolo Determinism and activism, pp. 125-154).
9 J. Guillermaz, Histoire du parti communiste chinois (1921-1949). voi. I Paris 1968, pp. 38-166.
10 Mao Zedong, Discorsi inediti, a cura di S. Schram, Milano 1975, pp. 233-240. Riassunto delle conversazioni del presidente Mao con i compagni responsabili nelle varie località durante il suo giro nelle province (dalla metà di agosto al 12 settembre 1971).
11 Mao Zedong, Rapporto di inchiesta sul movimento contadino nello Hunan, marzo 1927, in Mao Zedong, Opere scelte, vol. I, Pechino 1969, pp. 19-58.
12 Negli anni tra il 1933 e il 1934 sembra che Mao sia stato privato di qualsiasi potere decisionale, espulso dal comitato centrale del partito e posto agli arresti domicilíari a Yutu, vicino a Ruijin. La notizia è riportata da Hsiao Tso liang, Power Relations within the Chinese Communist Movement, 1930-1934, Seattle 1961. Hsiao Tso liang riporta una testimonianza di Zhang Guotao in proposito.
13 Mao Zedong, A proposito della nuova fase, rapporto tenuto al VI plenum del VI Comitato centrale del partito nell'ottobre 1938, e La riforma dello studio, il partito e la letteratura, discorso pronunciato a Yan'an il 1° febbraio 1942, entrambe le citazioni sono tratte dalla traduzione fattane dallo Schram in S. Schram, Il pensiero politico di Mao Tse Tung, Milano 1974, pp. 140 e 142.
14 Mao Zedong, Sui dieci grandi rapporti, 25 aprile 1956, in Mao Zedong, Rivoluzione e Costruzione, Torino 1979, pp. 357-386.
15 Mi sembra del resto che possa essere portata come prova di tale abbandono della linea di Yan'an, da parte della maggioranza dei membri del C.C. del partito, la diversa importanza che viene assegnata, dopo il 1949, all'elaborazione teorica di Mao. Nello statuto del partito approvato all'VIII congresso nel 1956, scompaiono i riferimenti al pensiero di Mao Zedong, ancora presenti nello statuto del 1945. Nel 1943 Mao aveva sostenuto, in un discorso alla scuola di partito a Yan'an, che: "... se non avessimo creato una teoria in rapporto con le necessità reali della Cina, una teoria che è proprio nostra e di natura specifica, saremmo degli irresponsabili a chiamarci teorici marxisti ". Ebbene nella versione del discorso contenuta nel II volume delle Opere scelte, pubblicato a Pechino nel 1953, tale affermazione è interamente omessa. C'era stato dunque un mutamento di opinione all'interno del partito, tale da far ritenere scorretta l'affermazione di Mao sulla possibilità di creare una teoria di natura specifica. Dopo il 1949 la teoria non può che essere quella elaborata dal marxismo leninismo di ispirazione sovietica e di portata universale. Nei documenti del partito Mao Zedong non verrà mai affiancato al sacro quadrumvirato di Marx, Engels, Lenin e Stalin; gli unici a cui viene riconosciuto il diritto di aver creato una teoria. Anche quando si tornerà a menzionare il pensiero di Mao, esso verrà inteso come rielaborazione pratica dell'unica teoria marxista, negandogli così ogni dignità teorica originale.
16 La scelta dello sviluppo accelerato adottata da Deng dopo il 1977, rischia di portare la Cina dentro alla logica dello scambio ineguale: infatti il governo di Pechino ha dovuto aprire parzialmente le frontiere al capitale estero, avanzare richiesta di crediti per finanziare l'importazione di macchinari e tecnologie, adattandosi così inevitabilmente al ruolo assegnato dal mercato capitalistico internazionale alle nazioni del Terzo Mondo. Alcuni osservatori stimano che il tasso di indebitamento dovrebbe raggiungere una percentuale pari al 20-21 % entro il 1986, tenuto conto del ridimensíonamento apportato ai piani di sviluppo originari dopo il 1979.
17 Li Dazhao, Wode Makesizhuyi guan, op. cit., Pechino 1959.
18 Mao Zedong, Analisi delle classi della società cinese, in S. Schram, Il pensiero politico di Mao Tse Tung, Mílano 1974.
19 S. Schram, Il pensiero politico di Mao Tse Tung, op. cit., p. 37.
20 Il termine "utopia concreta" è stato proposto dal filosofo tedesco E. Bloch, per indicare un progetto non attuale ma possibile, perché fondato nella realtà; E. Boch, Das Prinzip Hoffnung, tre volumi, Frankfurt am Mein, VIII edizione 1974.
21 E. Bloch, Erbschaft dieser Zeit, Frankfurt am Mein 1962. Per un approfondimento della categoria blochiana di Ungleichzeitigkeit rinvio al saggio di Remo Rodei, Multiversum. Tempo e Storia in Ernst Bloch, Napoli 1979, seconda ed. ampliata, Napoli 1982.
22 Mao Zedong, Discorsi inediti, op. cit., in particolare l'importante intervento sui problemi filosofici del 18 agosto 1964.
23 Mao Zedong, "Sulla contraddizione", in Mao Zedong, Scritti filosofici, Milano 1964, p. 32.
24 Mao Zedong, "Sulla contraddizione", op. cit., p 32.
25 J. Needham, Scienza e civiltà in Cina, vol. II, Torino 1983, in particolare il cap. 18 dal titolo: Legge umana e leggi di natura in Cina e in Occidente.
26 È questa la tesi originale del Needham, elaborata accogliendo la lezione di Alfred North Whitehead. J. Needbam, A. biologist's view of Whitehead's Philosophy", in The philosophy of A.N. Whitehead, a cura di P.A. Schilpp, New York 1941. Di A.N. Whitehead, Process and Reality, London 1929.
27 Mao Zedong, "Sulla contraddizione", op. cit., pp. 32-33.
28 Mao Zedong, "Sulla contraddizione", op. cit., p. 70.
29 Mao Zedong,  "Sulla contraddizione", op. cit., p. 70. Zhuangzi, libro I, cap. II, "Sull'uguaglianza di tutte le cose". Dao de jing, cap. II.
30 Mao Zedong, Discorsi inediti, op. cit. Intervento sui problemi filosofici del 18 agosto 1964.
31 Si veda quanto detto alla nota n. 8. Nel saggio "Sulla contraddizione", Mao Zedong aveva affermato che: "Le contraddizioni qualitativamente diverse possono essere risolte con metodi qualitativamente diversi (...). I processi cambiano, i vecchi processi e le vecchie contraddizioni spariscono, sorgono nuovi processi e nuove contraddizioni; in corrispondenza mutano anche i metodi per risolvere le contraddizioni". Mao Zedong, Sulla contraddizione, op. cit., p. 46. Non solo Mao rifiuta l'approccio positivistico, ma pone límjiti precisi di validità alla teoria marxista della conoscenza, ritenendola incapace, come del resto ogni teoria a rappresentare compiutamente la realtà, che è processo complesso di trasformazione qualitativa del molteplice. La teoria consente soltanto approssimazioni più o meno parziali alla verità, ma non può mai pretendere di comprenderla interamente. "Colui che esprime un giudizio secondo la misura del cielo segue le circostanze che cambiano" aveva detto Zhuangzi (libro I, cap. II).
32 Zhuangzi, libro I, cap. II.
33 E. Masi, Breve storia della Cina contemporanea, Bari 1979, p. 110.
34 Ci si è affrettati a criticare la politica del Grande Balzo, sottolineandone gli innegabili eccessi ed errori, ma non si è mai tentato di capirne i presupposti. Oggi, di fronte alla crisi del modello sovietico e al processo di deindustrializzazione occidentale, credo dovremmo poter valutare con maggiore equilibrio quell'esperienza cinese, sapendo cogliere in essa quell'ipotesi, non compiutamente definita, volta a superare i limiti di una politica economica fondata sulla falsa dicotomia piano/mercato, che nega per definizione ogni funzione autonoma all'imprenditività dei soggetti sociali. Credo che l'esperienza del Grande Balzo possa consentire il recupero di una ipotesi diversa di imprenditorialità, intesa come "imprenditorialità diffusa", allora male espressa o non esplicitata. Per questo non sono d'accordo con C. Aubert quando scrive che: "Lo schema maoista è ínoperante in Cina nella misura in cui non esiste la ragione fondamentale che giustifica lo sviluppo autogestito: la scarsità cronica di manodopera agricola". C. Aubert, «Problemi e prospettive dello sviluppo agricolo», in AA.VV., Una modernizzazione difficile. Economia e società in Cina dopo Mao, Milano 1983, p. 26. Prima di tutto perché le ragioni del Grande Balzo non sono quelle ipotizzate dall'Aubert, l'ipotesi di "sviluppo autogestito" non si oppone affatto alla meccanizzazione dell'agricoltura, ma cerca di proporre tecnologie adeguate al conseguimento dei bisogni fondamentali di base. In secondo luogo perché, come ho cercato di spiegare in un mio precedente lavoro (F. Avanzini, Il ruolo dell'agricoltura nel decollo economico, Torino 1983), il concetto di disoccupazione nascosta non ha rilevanza ermeneutica in sé, e non può essere utilizzato che all'interno di una precisa e concreta strategia di sviluppo. Proprio per questo sono invece d'accordo con Sylos Labini quando sostiene che: «La disoccupazione nascosta nelle campagne dei Paesi arretrati va vista come una disoccupazione "a intarsio temporale" giacché la gamma assai limitata di merci che vengono prodotte dalle piccole aziende contadine generalmente comporta periodi di ozio forzato. Se i contadini potessero essere mobilitati in questi periodi per opere di sistemazione dei terreni e delle acque (...) si potrebbe ottenere un cospicuo aumento nella produttività della terra con un minimo impiego di capitale (...)» Sylos Labini, Il sottosviluppo e l'economia contemporanea, Bari 1983, p. 147. Il professor Sylos Labini poco più oltre fa esplicito riferimento all'esperienza cinese, come esempio di mobilitazione e di coordinamento su vasta scala del lavoro contadino.

 

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