Per
migliaia di anni, la Via della Seta, il fascio di strade che univa Pechino al
Mar Mediterraneo, è stata il più importante canale di transito delle idee e
dei commerci tra la Cina e il mondo occidentale. La ripercorriamo in un viaggio
ideale che inizia nel 53 avanti Cristo e si conclude oggi. Ma con lo sguardo al
futuro prossimo venturo.
di MARCO CATTANEO
I
nomi, si sa, possono contribuire in modo decisivo al successo delle idee. Una
fortunata ispirazione deve aver assistito, tra gli altri, anche il barone
Ferdinand von Richthofen, insigne geografo e geologo tedesco, quando -
nell'introduzione all'opera Tagebücher aus China, pubblicata a Berlino nel 1907- stabilì di
chiamare Via della Seta il tortuoso groviglio delle vie carovaniere lungo le
quali nell'antichità si erano snodati i commerci tra gli imperi cinesi e
l'Occidente. Da allora, l'espressione coniata da von Richthofen non è più
tramontata.
Su
quelle strade, a dire il vero, si sono incrociati profumi, spezie, oro, pelli,
metalli, porcellane, medicinali e quant'altro bene fosse disponibile nel primo
millennio dell'Era cristiana. Per non parlare di ambascerie, eserciti,
missionari ed esploratori. Eppure fu proprio la seta, il prezioso e fin
dall'inizio costosissimo tessuto dall'origine ammantata di mistero, a permettere
che quegli scambi commerciali e culturali cominciassero a fiorire.
All'inizio
dell'estate del 53 avanti Cristo, precisamente 700 anni dopo la fondazione di
Roma, sospinto dall'invidia per i trionfi militari di Cesare e Pompeo, Marco
Licinio Crasso partì alla volta della Persia al comando di sette legioni, per
sfidare l'esercito dei Parti a tornare a Roma carico di bottino e onori. Le cose
non assecondarono le previsioni del povero Crasso il quale, uomo di commerci più
che di battaglie, pagò quell'imprudenza con la vita, oltre che con una sonora
sconfitta ricordata nella storia romana sotto il nome di battaglia di Carre. Per
quanto funesto, quell'episodio segna la prima occasione in cui i Romani vennero
in contatto con la seta, con la quale erano tessute le cangianti insegne
innalzate dai guerrieri Parti.
Nemmeno
mezzo secolo dopo, la "serica" - così detta perché fabbricata dal
lontano popolo dei Seri, come a Roma venivano chiamati i cinesi - era il più
ambito status symbol della nobiltà romana, che ne faceva sfoggio in ogni
occasione di mondanità, un po' come oggi. Separate da altri due grandi imperi -
dei Parti in Persia e dei Kushana nei territori degli attuali Afghanistan e
Pakistan - in quel periodo Roma e la Cina non vennero in contatto diretto,
sebbene entrambe tentassero di inviare ambasciatori dall'altra parte del mondo.
Fu
così che, per secoli, i Romani non seppero nulla circa l'origine della seta e della lavorazione necessaria per tesserla. Nella Storia naturale di Plinio il
Vecchio si dice dei Seri che fossero "famosi per la lana delle loro
foreste". E aggiungeva: "Staccano una peluria bianca dalle foglie e la
innaffiano; le donne quindi eseguono il doppio lavoro di dipanarla e di
tesserla". Dei bachi, nessuna notizia.
In
Cina, d'altronde, il segreto di quel prodotto così fondamentale nei rapporti
commerciali con il mondo occidentale era custodito con la massima cura, tanto
che l'esportazione dei bachi da seta era proibita da una legge severissima. Solo
intorno al 420 dopo Cristo, durante la profonda crisi che divise la Cina nei tre
imperi Wei, Wu e Shu, la figlia di un imperatore si rese colpevole di un crimine
che, secondo la legge, era punibile con la morte. Concessa in sposa a un
principe di Khotan - una delle città Stato del bacino del Tarim - per
assecondare i desideri del marito, la "principessa della seta" riuscì
a contrabbandare le uova dei bachi da seta e i semi di gelso, nascondendoli
nell'ornamento della sua acconciatura. A quell'epoca, le città del bacino del
Tarim - nell'attuale Regione autonoma cinese dello Xinjiang - erano tappe
obbligate per chi, provenendo da Xi’an (allora Chang'an), percorreva il Gansu
e si apprestava ad attraversare l'Asia centrale tra mille insidie.
Il
clima, innanzitutto, molto rigido d'inverno e torrido d'estate nelle depressioni
del deserto del Takla Makan, metteva a dura prova gli uomini e gli animali, che
avrebbero poi dovuto affrontare gli aspri passi del Pamir per scendere lungo le
valli del Pakistan a dell'Afghanistan. In più, le carovane correvano un serio
pericolo, poiché erano esposte agli attacchi degli Xiongnu, una popolazione di
bellicosi nomadi del Nord che assaliva i viaggiatori che si avventuravano in
quelle zone deserte.
Attraverso
quello stesso percorso, intorno alla metà del I secolo dopo Cristo, il
buddhismo fece il suo ingresso in Cina. Nata più di cinque secoli prima nelle
inospitali vallate del Nepal, la nuova religione aveva ormai molti proseliti in
India e i più intraprendenti si incamminarono lungo le piste della Via della
Seta predicando il verbo del principe Siddharta, l'ormai famoso e venerato
Buddha Sakyamuni. Dalla valle dell'Indo alle città dello Xinjiang, sono
innumerevoli le testimonianze dell'arte religiosa buddhista, la cui popolarità
esplose letteralmente in Cina sul finire del III secolo, quando tra Xi’an e
Luoyang si contavano 180 istituti religiosi buddhisti e più di 3.000 monaci.
Nonostante
abbia vissuto una seconda età dell'oro grazie alle memorie dei viaggiatori
medievali come Marco Polo a Ibn Battuta, intorno al VI-VII secolo la Via
della Seta cominciò il suo lento declino, in parte per la scarsa stabilità
politica dell'impero cinese nelle sue regioni più occidentali e poi per la
spinta dell'Islam.
Ma
fu soprattutto la concorrenza di una nuova arteria commerciale a determinare lo
spostamento d'interesse dei mercanti europei: l'India e la Cina venivano
raggiunte via mare. Fin dai primi secoli dopo Cristo le imbarcazioni partivano
dai porti del Mar Rosso o del Golfo Persico e, grazie all'aiuto dei monsoni,
approdavano a Barygaza o Muziris, sulla penisola Indiana. A volte, il tragitto
proseguiva fino alla Cina meridionale, doppiando la penisola indocinese.
Pericolosi pirati assalivano spesso le navi di passaggio al largo della costa
pakistana o di quella malese ma, a conti fatti, la via di mare era ormai
decisamente più rapida a sicura della via di terra.
A
cavallo tra la fine del secolo scorso a l'inizio di questo, venne poi la
riscoperta archeologica delle città del bacino del Tarim, che culminò nel 1906-1907
con il ritrovamento, da parte di sir Marc Aurel Stein, delle "grotte dei
mille Buddha" a Mogao. In quelle nicchie scavate nell'arenaria erano
raccolte le opere di tutta la Cina dotta, il più completo repertorio di
manoscritti cinesi. Stein non era estraneo all'attitudine "predatoria"
degli studiosi dell'epoca, e così dispose al più presto il trasferimento del
materiale, tuttora conservato al British Museum di Londra. Oggi l'operazione
potrebbe sembrare un furto bello e buono, ma probabilmente Stein salvò i
manoscritti dall'avidità dei funzionari del Kuomintang e, poi, dall'ossessione
distruttrice della rivoluzione culturale. Fatta eccezione per quanto è esposto
al British e in altri musei europei, oggi le testimonianze dell'antica Via
della Seta sono custodite nelle rovine delle città, delle fortificazioni, dei
caravanserragli, delle torri di avvistamento che, da Xi’an a Petra,
punteggiano l'Asia. Negli ultimi cinquant'anni, a quelle piste polverose si è
sovrapposta una lingua d'asfalto. Il formidabile progresso economico che sta
investendo il continente la trasformerà presto in una fantascientifica
autostrada del Duemila, lungo la quale scorreranno le ricchezze a le speranze
del nuovo capitalismo asiatico. Lasciando agli ultimi viaggiatori
un’inguaribile nostalgia dell'epopea delle grandi esplorazioni.
|