Autore | YANG Jisheng (杨继绳 Yáng Jìshéng) |
Editore | Adelphi, Milano |
Prima edizione | Febbraio 2024 |
Titolo originale | 墓碑 Mùbēi, 2008 Il testo originale in cinese |
Traduzione dal cinese di | Natalia Grancesca Riva |
Pagine | 836 |
N. ISBN | 978-8845938368 |
Alla fine di aprile del 1959 uno studente della contea cinese di Xishui viene avvisato delle condizioni disperate in cui versa il padre adottivo: lo raggiunge al più presto e lo trova a letto, «gli occhi incavati e spenti», la mano scheletrica che abbozza a stento un cenno di saluto. Ormai incapace di deglutire anche solo una zuppa di riso, morirà tre giorni dopo. In un primo momento Yang Jisheng non ha esitazioni: si tratta di una tremenda, inevitabile sventura. La cieca obbedienza che gli è stata inculcata non lascia spazio a dubbi o critiche, e non lo sfiora neppure l’idea che il governo e il Grande Balzo in avanti propagandato in quegli anni possano essere la causa della sua perdita. La fedeltà al partito si incrinerà con la Rivoluzione culturale, e nei primi anni Novanta, ormai consapevole dell’amnesia storica cui il potere condanna i cinesi, Yang Jisheng comincerà a indagare, a interrogare documenti, a raccogliere testimonianze. Scoprirà che la carestia di cui il padre è rimasto vittima ha ucciso in Cina, tra il 1958 e il 1962, 36 milioni di persone, ridotte a cibarsi di paglia di riso, guano di airone, topi ed erbe selvatiche – quando non di cadaveri. Un eccidio immane la cui responsabilità va attribuita non già a «tre anni di disastri naturali», bensì alla scelta deliberata di sacrificare ai ceti protagonisti dell’«industrializzazione» in corso la popolazione delle aree agricole, sequestrandone la produzione, le case, gli appezzamenti, il bestiame. Il libro che Yang Jisheng va scrivendo diventerà così qualcosa di ben diverso dalla pur accurata ricostruzione di una carneficina: la spietata, minuziosa, memorabile radiografia della criminale irresponsabilità di un sistema teocratico in cui Mao Zedong è l’incarnazione stessa della verità universale.
Prefazione di Guido Samarani
La prima edizione cinese del volume uscì nel 2008 ad Hong Kong, senza apparentemente subire interventi censori da parte delle autorità locali considerando che poi il lavoro di Yang Jisheng è stato sostanzialmente bandito nella Repubblica popolare cinese. Frutto di una complessa opera di sintesi e revisione concordata con l’autore, le versioni francese e inglese sono state pubblicate nel 2012 e il volume appare ora opportunamente, pur con notevole ritardo, nella traduzione italiana.
Si tratta della storia, terribile, delle catastrofiche conseguenze che comportò in Cina la scelta – voluta da Mao Zedong ma poi diventata strategia generale da parte dell’élite dirigente del Partito comunista cinese – di imporre una forte accelerazione allo sviluppo economico accompagnata da una collettivizzazione forzata nelle aree rurali del paese e dalla fissazione di obiettivi utopici nel campo della politica industriale: una scelta che, nota in generale come “Grande balzo in avanti”, fu accompagnata da vari disastri naturali, portando a una carestia che condusse alla morte di alcune decine di milioni di persone (tra i 30 e 40 milioni a seconda delle stime) nonché a una drastica caduta del tasso di natalità (circa 40 milioni a parere di Yang Jisheng).
Come suggerisce il titolo stesso, l’opera è incentrata sulla narrazione di quegli eventi della fine degli anni cinquanta e in particolare sulle grandi responsabilità politiche di Mao e della leadership comunista per questo immane disastro umano e sociale: un disastro, una carestia resi anche possibili dal clima di sfrenato ottimismo sulla possibilità di ottenere risultati economici e produttivi rapidi, da parte dei quadri del partito, nelle varie aree del paese, nonché dal diffuso senso di timore da parte degli stessi quadri di essere duramente criticati dal centro (Pechino) se non avessero portato avanti con successo la strategia decisa.
L’autore, Yang Jisheng, è stato per molti decenni un autorevole giornalista dell’agenzia ufficiale cinese di notizie “Xinhua” (Nuova Cina) nonché membro del Partito comunista cinese sin dagli anni sessanta. Proprio la sua posizione di giornalista gli ha dato modo di raccogliere col tempo una mole impressionante di documenti (statistiche, eventi, personaggi importanti quanto comuni, eccetera) arricchendola con migliaia di interviste di coloro che erano stati protagonisti e testimoni di quegli eventi, come lo era stato il padre, anch’egli una vittima del “Grande balzo in avanti”. Come egli stesso ebbe modo di sottolineare furono gli anni della Rivoluzione culturale e dell’ultima fase della Cina maoista (metà anni sessanta-metà anni settanta) a risvegliare in lui un profondo senso di responsabilità per cercare di restaurare la verità storica anche a vantaggio dei tanti che erano stati ingannati dalla narrazione ufficiale.
La ricerca e l’analisi di quanto avvenne in Cina durante quella fine degli anni cinquanta ha conosciuto significativi progressi in particolare a partire dagli anni ottanta con, tra gli altri, la trilogia di Roderick MacFarquhar (The Origins of the Cultural Revolution, in particolare il secondo volume), il lavoro di Jasper Becker (tradotto in italiano alla fine degli anni novanta dal Saggiatore con il titolo La rivoluzione della fame) e, nel 2010, il fondamentale studio di Frank Dikotter Mao’s Great Famine.
Il lavoro giornalistico di Yang Jisheng si situa dunque nell’alveo di una riflessione più generale su quella fase storica apportando tuttavia a essa forti elementi della propria testimonianza personale: ad esempio di come egli, adolescente (Yang è nato nel 1940), tornato nel villaggio dopo un periodo di studi altrove si trovò dinnanzi a una realtà fatta di silenzio e abbandono e arrivato a casa vide il padre steso a letto e disperatamente affamato. Tre giorni dopo il padre morirà venendo sepolto in una delle tante tombe senza nome (da qui il titolo del volume). Questa esperienza, questo immane dolore per la sua morte, spingerà – come già detto – il giovane Yang a cercare di scoprire il più possibile che cosa sia accaduto, al fine di dare un senso a quei milioni di morti.
Ma come indicato, al di là della testimonianza personale, al centro del volume è altresì la dura critica e condanna del sistema politico che ha potuto creare questo disastro, della non volontà e incapacità complessiva di un’intera classe dirigente – a cominciare da Mao Zedong – di correggere i propri errori di fronte a quanto emergeva via via dalla conoscenza e osservazione della concreta e cruda realtà.
Assai illuminante al riguardo è il capitolo quinto (Inversione di rotta a Lushan) nel quale si mette in luce come tra la fine del 1958 e la prima metà del 1959 la leadership comunista avesse preso coscienza della situazione critica e caotica dominante in varie parti della Cina e avviato una serie di prime misure correttive. Tuttavia, durante la Conferenza di Lushan (un’area montuosa situata nella provincia meridionale della provincia del Jiangxi in cui i dirigenti del Pcc solevano rifugiarsi d’estate per sfuggire al clima soffocante di Pechino tenendo in parallelo importanti riunioni politiche), la critica mossa da Peng Dehuai – uno dei più importanti dirigenti del partito nonché ministro della Difesa – nei confronti di Mao a proposito della strategia portata avanti sino ad allora sfociò in una aspra reazione da parte del Grande timoniere con la rimozione di Peng e la decisione finale di non correggere la strategia adottata ma al contrario di continuare nelle scelte generali compiute.
Negli ultimi capitoli l’autore solleva alcuni importanti interrogativi, tra cui: perché quella grande carestia non diede luogo a “grandi disordini”? La risposta risulta decisamente netta e chiara: anche se nella millenaria storia cinese vi furono moltissime carestie che portarono spesso a rivolte contadine, l’assenza di significativi disordini durante il Grande balzo in avanti fu essenzialmente dovuta all’“efficace controllo sulla società esercitato dal sistema totalitario del Pcc”. Ciononostante, vari documenti raccolti da Yang e altri ancora resisi disponibili negli ultimi decenni evidenziano come in realtà vi furono numerose proteste e manifestazioni di “dissenso”, rabbia e disagio a carattere più o meno ampio ed esteso, le quali tuttavia non raggiunsero tendenzialmente mai grandi dimensioni, restarono confinate a livello locale non assumendo di fatto un carattere nazionale e presero in numerosi casi la forma di atti (furti, rapine, eccetera) finalizzati a reperire in qualche modo il cibo per sé e la propria famiglia.
E ancora: quale fu più in dettaglio la risposta delle autorità alla crisi? Essenzialmente, sottolinea Yang, scaricare la responsabilità sui quadri locali e di base, sulle calamità naturali e sull’Unione Sovietica, che proprio in quella fase accentuò le proprie critiche nei confronti della strategia di sviluppo cinese, giungendo poi al ritiro degli aiuti e dei tecnici ed esperti che erano stati concordati con la leadership cinese a partire dai primi anni cinquanta.
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