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RAPPORTI

La Cina all'VIII edizione di "Asiatica Film Mediale"

di Edoardo GAGLIARDI

Asiatica Film Mediale - Incontri con il cinema asiatico” è un festival cinematografico che si svolge a Roma da otto anni. E’ dedito alla diffusione della cinematografia asiatica indipendente sia a soggetto che documentaristica. Svoltasi a Roma tra il 17 e il 25 novembre 2007, anche l’ottava edizione di questa rassegna, diretta da Italo Spinelli e coordinata da Carlo Laurenti, ha visto tra gli oltre 40 titoli presentati (divisi in lungometraggi e documentari in concorso in anteprima nazionale ed eventi fuori concorso), una forte presenza della Cina, attraverso alcuni esempi recentissimi di cinema indipendente proveniente dalla Rpc. In particolare ciò su cui questo festival già da qualche anno pone particolare attenzione, soprattutto nell’ambito delle opere cinesi, è quello del connubio tra realtà e finzione - documentario e fiction -, sempre meno distinti, e l’impiego sempre maggiore di nuove tecnologie come il DV (Digital Video). Quest’ultimo per esempio permette ad autori indipendenti e non professionisti di realizzare opere con un budget bassissimo e di trovare circuiti di diffusione alternativi a quelli ufficiali, bypassando così la censura connessa alla distribuzione nelle sale; di vitale importanza è poi internet, mezzo di distribuzione digitale, luogo di dibattiti e forum che mettono in contatto diretto pubblico e autori, che possono beneficiare di un “marketing virtuale” per la diffusione delle proprie opere.

In particolare tutti i film cinesi presentati durante il festival, oltre a essere stati girati in digitale, (alcuni autofinanziati), sono in qualche modo legati, attraverso co-produzione e distribuzione, a due realtà più o meno recenti, ma già consolidate nel panorama inematografico
indipendente cinese: il Fanhall Studio (Xianxiang gongzuo shi) e il Li Xianting Film Fund (Li Xianting dianying jijin). Il primo, fondato da Zhu Rikun nel 2001, è una delle più attive case di produzione e distribuzione private, dedicate al cinema cinese girato in digitale. Il secondo è invece un’organizzazione no-profit creata dal critico d’arte Li Xianting nel 2006 con lo scopo di promuovere, attraverso un archivio permanente, la cinematografia indipendente ed è collegata con il “Beijing Indipendent Film Festival”.

Tra i film visti ci sono alcune storie di vite vissute ai margini, come nei due lungometraggi Blackguard Qiangzi (Liulan Qiangzi) di Wei Xueqi, in cui il protagonista Qiangzi con un passato fatto di piccola
criminalità alle spalle, non riesce a trovare il suo posto neanche ai margini di una povera realtà rurale, nonostante tutte le sue buone intenzioni, fino a quando per salvare una donna da dei rapinatori viene ferito a sua volta. Nessuno crede al suo gesto virtuoso fino a quando, grazie all’aiuto di una giovane giornalista, viene ufficialmente riconosciuta e premiata la sua condotta. Ma la ferita infertagli nello scontro non guarisce e necessita di cure dai costi proibitivi per il ragazzo, cui non rimane altra soluzione che lasciare l’infezione peggiorare fino a estreme conseguenze. Storia disperata, ripresa con tecniche e immagini scarne, che denuncia lo scollamento tra istituzioni e gente comune, priva di sicurezze primarie. Quella di Qiangzi è una storia che rimanda al Xiao Wu di Jia Zhangke, ladruncolo che non trova più il suo spazio in una società che non è disposta ad accettarlo, non sembra esserci posto in Cina per chi non si conforma, e quegli stessi meccanismi di una società condannata alla miseria costringono Qiangzi a scivolare in un dramma esistenziale preannunciato.

Un altro film il cui titolo è dedicato al suo protagonista è Anzi (Anzi) di Lei Xiaobao, storia ugualmente drammatica di Anzi, che aprendo un ristorante per assicurarsi un tenore di vita migliore, viene ingannato
e rimane vittima degli usurai; fugge in città (Xi’an) dove chiede aiuto al cugino, un piccolo boss criminale, che però lo sfrutta e gli ruba la moglie. Quando Anzi riuscirà finalmente a risollevarsi e vendicarsi, sarà troppo tardi: la moglie, lasciato il cugino, ormai preferisce fare la prostituta e inseguire il benessere economico, piuttosto che tornare con Anzi e riprendere una vita minacciata dalla precarietà. Quella di Anzi è una parabola emblematica, in cui traspare lo spettro di una società votata all’arricchimento a ogni costo. Solo le illusioni di un futuro diverso che portano i protagonisti a smarrire identità e dignità. 

Sempre vite ai margini, ma questa volta in un contesto decisamente urbano sono quelle raccontate dal documentario Street Life (Nanjing lu) di Zhao Dayong, vincitore della sezione documentari, che racconta le vite di alcuni emarginati, che vivono nei dintorni della via principale di Shanghai, la cui sopravvivenza è legata alla raccolta di bottiglie e cartone da riciclare o a piccoli furti. Una comunità parallela, che si muove all’ombra di moderni grattacieli, costituita da immigrati senza veri nomi, uniti da relazioni precarie; tra loro c’è chi si adatta e se la cava, ma anche chi viene sopraffatto e letteralmente impazzisce.Ritratto amaro, ma quasi antropologico nell’indagare vite, relazioni e aspirazioni di alcuni dei milioni di invisibili delle metropoli cinesi che vivono grazie agli scarti degli strati più “progrediti” della società. La centralissima Nanjing lu diventa così fulcro di una nuova etnografia cinese, in cui si concentrano gli emigrati da province diverse con i loro diversi dialetti, e che quasi perdono la loro identità, insieme ai propri nomi, nell’omologazione della metropoli. 

Un altro documentario, però più concentrato su aspetti della tradizione culturale cinese, è Torch Troupes (Huoba jutuan) di Xu Xin, che ha ottenuto una menzione speciale nel concorso documentari del festival. Girato a Chengdu e dintorni, Torch Troupes documenta la scomparsa progressiva della tradizionale opera popolare del Sichuan, che sopravvive oggi solo ad uso dei turisti. Le torce del titolo sono quelle che le compagnie usavano per illuminare le rappresentazioni clandestine durante la rivoluzione culturale. Oggi, alcuni attori (come Wang Bin), dopo lo scioglimento delle compagnie nazionali negli anni ’90, hanno riformato piccole compagnie popolari che si esibiscono in teatrini fatiscenti e vecchie case da tè davanti a uno sparuto pubblico composto esclusivamente da anziani. Altri attori (Li Baoting) hanno invece deciso di seguire il corso dei tempi e gestire così compagnie di danza e canto, con giovanissime ballerine scatenate al ritmo delle nuove hit pop in bar affollati, recidendo ogni legame con la tradizione culturale. Xu Xin si sofferma a riprendere lunghi spezzoni di esibizioni sia delle compagnie tradizionali che di quelle “moderne”, ma sempre collocandosi dietro le quinte, mai in mezzo al pubblico, immergendo lo spettatore nella vita reale degli attori, fatta dall’amore di alcuni di loro per l’opera tradizionale, e dei sacrifici per permetterne la sopravvivenza, che è così sopravvivenza degli attori stessi. Un documentario che, come Street Life, è privo di commento fuori campo, in cui sono i protagonisti stessi a racconarsi attraverso semplici gesti di vita reale, e che soprattutto si rifiuta di giudicare, ma esprime solo un desiderio-necessità di raccontare, o documentare, la scomparsa di una parte di tradizione.

Ma oltre ai film propriamente cinesi, sono stati presentati da “Asiatica Film Mediale” anche alcuni titoli realizzati in Cina, ma da autori stranieri che in Cina vivono ormai da qualche anno a cui hanno dedicato le proprie opere. E’ il caso di Soul Carriage (Ling che) di Conrad Clark, giovane regista inglese al suo debutto, già vincitore al “San Sebastian Film Festival” del premio come migliore regista emergente, e ora a Roma come miglior lungometraggio. La storia di Soul Carriage è curiosamente simile a quella raccontata nell’ultimo film di Zhang Yang, Air (Luoye guigen): un povero operaio deve riportare al villaggio natale il cadavere di un collega morto sul lavoro. Eppure Air e Soul Carriage sono due film profondamente diversi, da un lato una commedia dolce-amara in cui prevale la fisicità della star cinese Zhao Benshan che letteralmente porta su di sé la salma dell’amico, anch’esso corpo mobile; dall’altro lato, nel film di Clark, c’è una sorta di sublimazione del corpo, insieme alla sua identità. Il giovane protagonista infatti non riuscirà a “riportare a casa” il collega, quei pochi che lo conoscevano lo hanno da tempo dimenticato e il viaggio del ragazzo si conclude sotto una pioggia torrenziale. Finale allegorico, annichilente più che catartico per un film quasi evanescente, che è anche riflessione sul destino degli uomini: il protagonista si riflette e identifica infatti nel compagno morto, privo ormai di ogni legame con il mondo, che ne ha cancellato ogni ricordo. In questa perdita di vita e materia, emerge come vero protagonista l’ambiente cinese, fatto di pieni e vuoti non complementari: la città di grattacieli e in continua costruzione, e la natura verso un’inesorabile rovina.

Altra giovane “immigrata” in Cina è Joanna Vaquez Arong che ha presentato a Roma il documentario Neo-Lounge, nome del primo bar esclusivo di Pechino, ritrovo alla moda per molti occidentali lontani da casa. In particolare la regista segue la vita di due stranieri in qualche modo legati al locale, durante il periodo della Sars (dicembre 2003): Diliana, giovane cantante bulgara che si esibisce nel locale e Leonardo, dionisiaco imprenditore italiano. Permeato da un’atmosfera decadente, sia fisica, data dalle strade svuotate per la Sars, sia morale per quei ricchi occidentali che sembrano vivere fuori dal mondo, in una Pechino diventata per loro un non-luogo. La videocamera cerca di indagare gli effetti dello sradicamento sulla psicologia dei protagonisti, soprattutto di Leonardo, alle prese con i propri fantasmi.

Infine Prince Of Himalaya (Ximalaya wangzi), diretto da Sherwood (Xuehua) Hu, cresciuto a Shanghai ma trasferitosi in America dove ha studiato regia e realizzato i suoi primi lavori cinematografici e teatrali; la sua è una trasposizione dell’Amleto in un meglio definito medioevo tibetano pre-lamaista. Opera grandiosa e ambiziosa, finanziata per un terzo dagli studi di Shanghai e per il resto dal regista stesso, che però confonde ancor prima di sedurre. Paesaggi mozzafiato sono sfondo di una narrazione epica, che sfocia però in una tragedia lontana dalla profondità dell’opera di Shakespeare.

Nel corso della manifestazione c’è stata anche la presentazione di libri e filmati di grande interesse come quelli girati da un giovane ma già allora espertissimo Fosco Maraini.

Un programma eterogeneo, quello di “Asiatica”, privo di autori noti, ma ricco di sguardi sull’Asia diversi e marginali, e proprio per questo sempre più necessari.


MONDO CINESE N. 133, OTTOBRE - DICEMBRE 2007

 

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