Non credo nel determinismo storico, credo nella presenza
attiva e determinante degli uomini nella storia. Certo che la storia della Cina
trova nella storia dei suoi uomini una chiave di lettura fondamentale. Ecco
perché parlo di "costruttori della nuova Cina".
E di questi costruttori ho avuto la fortuna di incontrarne
molti e tra i più significativi.
Non ho mai incontrato Mao Zedong il liberatore, il pioniere e
timoniere: e ne sono rammaricato perché è stato certamente un grande leader.
Ma a lui forse, si deve ascrivere non tanto la fase della costruzione della
nuova Cina quanto quella precedente della "liberazione della nuova Cina
dalla vecchia Cina" con la lotta epica contro Jiang Jieshi ed i suoi grandi
alleati, gli Usa e, perché no!, la stessa Urss che non vedeva di buon occhio
una vittoria del comunismo rivoluzionario cinese sotto la guida di Mao.
In questa prima fase di liberazione della Cina, la funzione
costruttiva ai vari livelli istituzionali, di governo, di politica estera in una
parola di vera identità statuale all'interno ed all'esterno, entro la Cina e
nel mondo, si fa risalire in modo concorde non a Mao ma all'altro grande leader
cinese dell'epoca Zhou Enlai.
* Riportiamo dal volume "Incontri con la Cina" del
sen. Vittorino Colombo il capitolo "I costruttori della nuova Cina" a
testimonianza del suo rapporto storico, politico, economico e culturale avuto in
25 anni da Presidente dell'Istituto Italo Cinese per gli Scambi Economici e
Culturali.
INCONTRO CON ZHOU ENLAI
IL VERO COSTRUTTORE DELLA NUOVA CINA
Il primo personaggio incontrato è stato Zhou Enlai a Pechino
il 21 novembre 1971.
Era mezzanotte ed il colloquio durò fino alle tre del
mattino.
Lo dico a distanza ormai di 25 anni: è stato un incontro
esaltante, uno di quelli che rimangono nella memoria e ti segnano. Era il mio
primo viaggio in Cina, quando la Cina era ancora molto lontana e pochi erano i
veri "Amici della Cina". Erano i tempi della grande rottura tra URSS e
RPC e l'occidente, compresa l'Italia, puntava più sulla prima che sulla
seconda. L'URSS non gradiva e lo faceva anche capire, che l'occidente puntasse
verso l'estremo oriente.
Di Zhou Enlai sapevo poco; non molto di più di quello che
avevo letto nel libro di Edgard Snow, Stella rossa sulla Cina; un testo
fondamentale per la conoscenza della Cina, pubblicato in America nel 1938 ma
tradotto in Italia solo nel 1965!
Ricordavo, in particolare, la ricostruzione del suo primo
incontro con Zhou Enlai come Snow lo presenta nel capitolo che ha per titolo:
"L'uomo dell'insurrezione": davanti al suo alloggio c'era solo
una sentinella, anche se sul suo capo pendeva una taglia di 80 mila dollari;
appena entrato nell'alloggio, è immediato l'impatto di cortesia tra i due
uomini, un incontro amichevole pieno di fiducia. "Mi è stato detto -
esordisce Zhou Enlai - che siete un giornalista onesto, amico del popolo cinese,
e che si può avere fiducia nella vostra obiettività. Questo ci basta e non ci
interessa sapere se siete comunista oppure no... Potrete scrivere su tutto
quello che vedrete e noi vi daremo tutto l'aiuto necessario". Snow
commenta: "Ero un po' sorpreso e anche leggermente scettico, perché
dubitavo della sua sincerità nel darmi così semplicemente carta bianca ....
Era troppo bello: doveva pur esserci un trabocchetto".
Il trabocchetto non c'era, e Snow poté vedere, osservare,
rendersi conto di molte cose e pubblicare poi quel ponderoso e interessante
volume che è Stella rossa sulla Cina, e continuare poi per molti anni in
questo rapporto di amicizia e di fiducia.
Snow osservava attentamente Zhou Enlai durante la
conversazione, scrutandolo con occhio penetrante. "Zhou, come tanti altri
capi rossi, era considerato più un personaggio leggendario che un uomo in carne
e ossa .... Aveva gli occhi grandi, uno sguardo caldo e profondo, e dalla sua
persona emanava un certo magnetismo che sembrava derivare da uno strano
miscuglio di timidezza, fascino personale, sicurezza nel comando".
Era veramente uno dei capi della grande rivoluzione destinata
a cambiare le sorti della Cina, "un intellettuale puro, che coordinava la
conoscenza e la convinzione con l'azione. Uno studioso diventato rivoluzionario.
Zhou veniva da una grande famiglia mandarina, fu trascinato dal movimento per la
rivoluzione sociale che doveva scuotere la Cina".
Prima compagno di Sun Yatsen, poi negli sviluppi delle
vicende successive, collaboratore e quindi avversario di Jiang Jieshi quando
questi impone al partito fondato da Sun Yatsen la svolta reazionaria
antipopolare. Quindi tra i capi storici del Pcc insieme a Mao Zedong e
protagonista di primo piano, dopo il 1949, nella costruzione della nuova Cina,
nell'impostazione della sua politica interna e delle relazioni internazionali;
impegnato, con altri leader del partito, a ridare dignità a un popolo ridotto
in condizioni di dipendenza semicoloniale, disprezzato e sfruttato, impaurito
dalle atrocità dell'occupazione giapponese e dalla politica di sfruttamento
delle grandi potenze, sconvolto all'interno dalla feroce lotta delle fazioni.
Zhou Enlai aveva più di ogni altro le qualità necessarie
per affrontare e portare a buon fine questo compito: capacità di mediazione e
di sintesi; coraggio non solo sul piano delle indicazioni di prospettiva, ma
anche e soprattutto su quello della concreta azione politica, della gestione
pratica dei grandi problemi. "Forse - scrive ancora Snow - Zhou
Enlai è un esaltato, mi dicevo, e cercavo nei suoi occhi un lampo di fanatismo.
Ma anche se c'era, non riuscii a scorgerlo. Parlava lentamente con calma e con
ponderatezza. L'impressione che mi diede fu quella di un uomo dalla mente
fredda, logica e pratica".
Era con quest'uomo straordinario, responsabile quanto Mao
Zedong degli svolgimenti attuali e futuri della Cina, che mi sarei incontrato.
Il colloquio non era ufficialmente previsto nell'agenda del mio breve soggiorno
in Cina. C'era stato l'incontro con Pietro Nenni qualche settimana prima. Mi
sembrò opportuno - a parte il mio grande personale desiderio - che
ci fosse anche l'incontro con un esponente della Democrazia Cristiana, il
partito di maggioranza relativa nel mio paese.
Nonostante tutte le difficoltà che di volta in volta mi
venivano prospettate (i molti impegni, i continui spostamenti nelle diverse
regioni del paese, i ricevimenti protocollari di uomini di Stato in visita a
Pechino) alla fine l'incontro venne fissato: avrei incontrato il presidente Zhou
Enlai domenica 21 novembre 1971 alle ore 24.
" È abitudine del presidente - mi spiegava la
guida - riservare le ore della notte ai colloqui con i vecchi amici"
quale anch'io cominciavo ad essere considerato nella stima degli amici cinesi,
al di fuori delle formalità protocollari.
Attraversammo le strade deserte, l'immensa piazza Tian’anmen,
diretti verso il palazzo dell'Assemblea nazionale del popolo. Superato il grande
portone a cui faceva buona guardia una minuta sentinella, salimmo la maestosa
scalinata e mi trovai di fronte a Zhou Enlai. Quanto avevo letto nelle pagine di
E. Snow mi tornava ora alla mente e trovavo conferma alle sue acute
osservazioni, anche se dalla data di quegli incontri da lui descritti erano
passati parecchi anni. Notai la difficoltà di movimento del suo braccio destro,
conseguenza della lunga milizia rivoluzionaria; i suoi occhi scuri, espressivi,
le sopracciglia folte. Si distingueva per l'abito diverso, di gabardine grigio,
più fine e più curato nella confezione, nelle pieghe dei pantaloni.
Il presidente Zhou Enlai avvia il discorso parlando del
nostro paese.
"Non ho avuto la fortuna - dice - di
visitare l'Italia; l'ho sempre ammirata per la sua storia e la sua antica
cultura, e solo da lontano - dalla nave che mi portava dalla Cina verso la
Francia, durante una sosta nel porto di Napoli, nel 1919 - ho potuto
osservarla. Ci fu una seconda occasione quando sorvolai l'Italia spostandomi da
Tirana ad Algen. Il passaggio nello spazio aereo italiano era stato segnalato, e
l'onorevole Aldo Moro, allora ministro per gli affari esteri, mi fece
trasmettere un caloroso messaggio di saluto che gradii in modo particolare. Tra
Italia e RPC, a quell'epoca, non c'erano ancora relazioni diplomatiche. Risposi
con altrettanto calore".
La conversazione si sposta sul mio partito di appartenenza,
la Democrazia Cristiana, partito popolare, sulla partecipazione di tanti di noi
alla lotta di liberazione. I colloqui con i "vecchi amici" avevano per
Zhou Enlai, oltre la funzione di avviare o di rinsaldare rapporti di amicizia
con personalità straniere, anche lo scopo di acquisire conoscenze di prima mano
sui grandi protagonisti della storia politica dell'occidente: decenni di
isolamento dal resto del mondo avevano creato nelle sue conoscenze una zona
d'ombra che ancora gli riusciva difficile diradare.
Zhou: "Quale è stata la presenza del movimento
cattolico nella lotta antifascista?"
Colombo: " È stata una presenza diffusa e capillare
specie nelle regioni del nord, perché la lotta antifascista è stata un
movimento di popolo, e la composizione popolare ha fatto sì che il movimento
cattolico si trovasse in molti luoghi in prima linea. Il nostro comandante era
Enrico Mattei".
Ricordava Luigi Longo come capo dei partigiani comunisti, ma
non sapeva del ruolo di Enrico Mattei come capo dei partigiani cristiani. Eppure
conosceva molto bene Mattei. "Era un grande amico del popolo cinese. È
venuto più volte a trovarci in anni difficili". Mattei era stato infatti
uno dei primi italiani, forse il primo in assoluto, che aveva avviato rapporti
commerciali con il mercato cinese negli anni di ancora incerta apertura della
Cina verso i mercati occidentali; proseguendo nella sua strategia di rottura
delle posizioni monopolistiche delle "sette sorelle" nel mercato
petrolifero, l'Eni era diventato un grosso produttore di fertilizzanti e
l'apertura verso la Cina - allora afflitta da gravi insufficienze
alimentari - ne era una logica conseguenza. "Mattei - ripete
ancora Zhou Enlai - era veramente un grande amico. È stato uno dei primi
esponenti dell'occidente a credere e ad avere fiducia nella Cina".
Nella rassegna dei grandi italiani, il pensiero va ad Alcide
De Gasperi: "un uomo di grande valore" osserva Zhou Enlai. "Fu
tra i promotori dell'idea dell'Europa unita. Un progetto di importanza
fondamentale. L'Europa deve unirsi, deve assumere il ruolo di punto di
riferimento per molti paesi, perché non è possibile che il mondo continui ad
essere governato dalle due superpotenze imperialiste".
Zhou Enlai introduceva in questo modo un argomento che
sarebbe stato ripreso ancora in seguito, negli altri incontri che ho avuto con
lui e con altri leader della RPC, il tema di fondo dei ragionamenti di politica
estera. Faceva sorpresa sentire proprio lui parlare delle "due superpotenze
imperialiste".
Colombo: "Imperialista anche la Russia?"
Zhou: "Certo! Lungo le nostre frontiere sono schierati
un milione e mezzo di soldati sovietici. Non è imperialismo questo?"
C.: "Eppure l'Unione Sovietica sostiene che sareste voi
i provocatori".
Z.: "Dicono quello che vogliono. La verità è che
nessun soldato cinese è fuori del nostro territorio. Se siamo intervenuti in
Corea, è perché i nostri interessi erano direttamente minacciati. Al Vietnam
diamo l'aiuto che riteniamo doveroso dare a un popolo in lotta per la sua
libertà. Ma non c'è da parte nostra nessun intervento diretto, nessuna mira
territoriale". Osservai che anche Nixon cominciava a parlare di
"multipolarità", di superamento di un mondo bipolare.
C.: "In merito saranno utili i colloqui con il
presidente degli Stati Uniti che avete invitato in Cina".
Z.: "Ma non siamo stati noi ad invitarlo. È stato lui
che ha espresso il desiderio di incontrarsi con noi. Comunque sia, è bene
cominciare; anche se non sappiamo con quali prospettive. È da oltre quindici
anni che con gli americani ci parliamo a Varsavia, ma senza grandi
risultati".
C.: "Quel che è certo, è che si avvia una stagione di
grande apertura e di dialogo".
Zhou Enlai acconsente, cita in questo contesto il
riconoscimento della RPC come membro originario dell'ONU, conferma la sua
gratitudine per l'Italia che, appoggiando la mozione albanese, ha contribuito
alla positiva soluzione della vicenda.
Si scherza sul mio cognome ("Colombo? È un nome di buon
auspicio, è il segno della pace!"), su alcuni dettagli riguardanti il
problema di Taiwan che aveva ricavato dalla lettura de Il Popolo.
C.: "Si dice in Italia che a leggere Il Popolo con la
dovuta attenzione siano in pochi. Ma qualcuno, molto autorevole, che lo legge
riga per riga si può trovarlo e questo qualcuno sta in Cina! Farà piacere
saperlo all'on. Forlani, segretario del mio partito".
Ma resta ancora un argomento da affrontare, in contrasto - mi
sembra - con la politica di apertura e di dialogo sostenuta dalla Cina.
C.: "Alcuni giorni fa avete fatto esplodere la vostra
bomba nucleare. In che rapporto sta questo avvenimento con la vostra politica di
disarmo e di pace?"
Z.: "La bomba nucleare cinese è stata fatta esplodere
pochi giorni fa, il 18 novembre. Lo scopo è puramente dimostrativo. Vogliamo
fare intendere, con i fatti, che anche la Cina è in condizioni di approntare un
proprio arsenale atomico; dunque non esiste più un monopolio nucleare delle due
grandi potenze; dunque le loro bombe atomiche sono inutili. Adesso diventa più
realistica la nostra proposta di una conferenza internazionale per bandire le
armi nucleari. Se sono inutili, perché produrle?"
Gli chiedo quali fossero le previsioni, le speranze, se era
ottimista o pessimista. "Occorre lavorare, per la pace ed essere
ottimisti" mi risponde. "Io lo sono. Del resto già oggi accade
qualcosa che sino a qualche tempo fa era impensabile: è la prima volta che un
cattolico non cinese e un marxista cinese parlano per ore con tanta
amicizia".
Una forte stretta di mano, l'incarico di salutare il
presidente del Consiglio on. Emilio Colombo, l'on. Moro, tutti gli amici
italiani.
Quando uscimmo dal palazzo dell'Assemblea nazionale del
popolo erano le tre del mattino. Il freddo di Pechino era pungente, ma il cielo
era pieno di stelle.
Dunque, ricapitolavo nella mia mente, la Cina dispone di un
arsenale atomico, ma lo considera puramente simbolico, una provocazione per
dimostrare l'inutilità di ogni "tenda di morte". Nessun soldato
cinese fuori del territorio nazionale, né oggi né domani, dichiarava Zhou
Enlai ripetendo nella riservatezza di una conversazione privata quella specie di
esame di coscienza che, molti anni prima, aveva pubblicamente fatto nel corso
dei lavori della conferenza di Bandung. Usciva confermata la visione politica e
il ruolo della Cina di cui parlava La Pira.
Parlava allora, a Bandung, delle tentazioni a cui può essere
esposto ogni grande paese, di guardare dall'alto della sua potenza i paesi più
piccoli. Parlava, cioè, del rischio dello "sciovinismo di grande
potenza" da cui anche la Cina poteva essere tentata; per questo, diceva,
"ci interroghiamo spesso su questo punto".
In quella sede, attraverso la finezza di tatto diplomatico di
Zhou Enlai, la Cina, riassumendo i propri principi di politica estera nel
contesto dei "cinque punti per la coesistenza pacifica", proponeva al
resto del mondo il proprio particolarissimo modo di concepire la politica e i
rapporti politici, i quali hanno un senso solo se finalizzati alla costruzione
di una comunità planetaria pacificata. E, non senza una punta di orgoglio, Zhou
Enlai aggiungeva che a servizio di questa politica, la diplomazia cinese aveva
inventato, e quindi praticava e proponeva, un suo specifico metodo: quello di
ricercare sempre e con chiunque ogni possibile terreno di intesa, lasciando
impregiudicate, quando non potevano essere immediatamente risolte, le
controversie che non cessano di insorgere nelle relazioni internazionali.
"Un'attitudine costruttiva - spiegava a Bandung - che riflette
l'aspirazione costante della Cina a promuovere l'amicizia tra le nazioni sulla
base del mutuo rispetto".
Ma in che misura erano attendibili queste dichiarazioni? In
che misura la storia della Cina, specie la sua storia recente, avallava queste
dichiarazioni rendendole credibili? Cultura e mentalità della Cina andavano
veramente in questa direzione? E gli sconvolgimenti della rivoluzione culturale,
per quanto se ne sapeva allora in occidente, al potere dal 1966, come si
conciliavano con questi orientamenti?
Zhou Enlai indicava il metodo della ricerca dell'intesa ad
ogni costo come il punto di forza della diplomazia cinese. Questo metodo
implicava come necessario presupposto la convinzione che il nemico totale non
esiste; l'avversario totale non può esistere nei rapporti tra le persone e
nemmeno nei rapporti tra le nazioni. Per questo è saggezza politica ricercare
sempre le possibilità di intesa. Nascoste ad una prima osservazione, queste
possibilità bisogna ricercarle con insistenza, perché esse esistono nei fatti,
e, prima ancora, nel cuore delle persone. Bisogna ricercarle promuovendo
l'amicizia, instaurando rapporti di fiducia, e innanzitutto promuovendo ogni
possibile occasione di conoscenza reciproca, "specie con coloro dai quali
siamo più lontani e che non conosciamo abbastanza bene", dove un singolare
capovolgimento dei principi che regolano la prassi politica corrente -
come la viviamo nella nostra esperienza più immediata, tutta impegnata a
codificare e a rendere stabili gli squilibri dei rapporti di forza esistenti
- genera sorpresa e speranza, lasciando intravedere una diversa possibile
dimensione dei rapporti tra gli stati, che di solito accantoniamo, rassegnati
tra i sogni impossibili.
Ho riletto il mio diario di quell'incontro del 21 novembre
del 1971. Concludevo con un po' di romanticismo: "erano le tre del mattino
quando uscii dal palazzo dell'Assemblea del popolo cinese, il freddo di Pechino
era pungente ma il cielo era pieno di stelle". E mi ricordai che il giorno
prima, il 20 novembre 1971, il Comitato Rivoluzionario di Pechino mi aveva
informato che sarebbe stata aperta la Chiesa dell'Immacolata, la Cattedrale di
Pechino, e che alle ore 6,30 del mattino avrei potuto ascoltare la S. Messa. Era
quella la prima cerimonia cattolica dopo la repressione della "rivoluzione
culturale delle guardie rosse".
Un atto di pura cortesia verso un amico cattolico, frutto
della magnifica tradizione cinese, ma anche un fatto eccezionale per la storia
della religione cattolica in Cina.
Con l'apertura della Cattedrale di Pechino iniziava un nuovo
corso nei rapporti tra Chiesa cattolica e RPC. Ora in Cina, le chiese cattoliche
aperte al pubblico sono migliaia ... e qualcosa si sta muovendo sul piano più
generale.
DENG XIAOPING: IL SECONDO TIMONIERE
Incontrai Deng Xiaoping nel maggio 1978 e una seconda
e una terza volta, sempre a Pechino. Erano gli anni del suo ritorno al potere e
del consolidamento del suo ruolo di leader politico, gli anni in cui il suo
progetto per la costruzione della nuova Cina, alternativa e diversa rispetto
alla Cina della rivoluzione culturale, prendeva consistenza, sia attraverso le
prime decisioni politiche formalmente assunte sia attraverso la constatazione
dei primi interessanti risultati.
Visitando la mostra permanente sulla vita di Zhou Enlai,
esposta con un certo rilievo, ho attentamente osservato una foto storica:
riproduce il rientro da Mosca della delegazione cinese capeggiata da Deng
Xiaoping, dopo che aveva sanzionato la rottura con l'Urss. Zhou Enlai in
persona, come capo del governo, era ad accogliere la delegazione all'aeroporto,
per sottolineare la gravità e l'importanza della decisione assunta e la
solidarietà del gruppo dirigente del partito. Non c'era nessuna nostalgia, ma
si intendeva dimostrare contro l'alleato perduto. Quella decisione lasciava un
segno nella storia del marxismo, avviava la frantumazione di una unità che era
apparsa monolitica per tanti anni, sconfessava il primato del comunismo
sovietico e il ruolo di stato-guida che di fatto l'Unione Sovietica si era
attribuito.
Quella rottura tra Cina e Urss rappresentava il fatto
politico più importante dopo Yalta, certamente capace di cambiare gli equilibri
mondiali.
Protagonista in prima persona di questa drammatica scelta
politica era stato Deng Xiaoping, l'uomo forte della Cina, l'uomo delle scelte
difficili, l'uomo - come lui stesso scherzosamente è solito affermare
- che ha avuto "tre morti e tre resurrezioni", in altrettanti
momenti cruciali della storia del suo paese. La prima volta nel 1932, quando fu
emarginato, a opera di Wang Ming e del suo gruppo di sinistra, per essere poi
riabilitato nel 1935 durante la lunga marcia, nel decisivo convegno di Zunyi. La
seconda caduta avvenne con la rivoluzione culturale. Lin Biao e la banda dei
quattro lo confinarono nella provincia del Jiangxi a lavorare nella fabbrica di
locomotive "Er Ci" del complesso "Sette Febbraio" in un
villaggio a trenta chilometri da Pechino.
La furia della rivoluzione culturale non si accontentò di
infierire su Deng Xiaoping, ma colpì anche il figlio Deng Pufang allora poco
più che ventenne. Deng Pufang venne malmenato duramente e infine gettato da una
finestra del quarto piano del palazzo subendo una lesione permanente alla spina
dorsale. Ora è costretto all'immobilità, si sposta su una sedia a rotelle ma
non ha abbandonato la vita attiva. Come il padre, risorge da ogni caduta;
attualmente è vicedirettore del Fondo di assistenza statale per gli
handicappati. In questa veste ha incontrato a Pechino nel gennaio 1985 madre
Teresa di Calcutta premio Nobel per la Pace.
Deng Xiaoping richiamato al potere da Mao Zedong nel 1975 per
le insistenti sollecitazioni di Zhou Enlai che ne richiedeva la collaborazione
come suo vice, fu nuovamente estromesso nell'aprile 1976, pochi mesi dopo la
morte dello stesso Zhou Enlai. II suo ritorno definitivo al potere avveniva
nell'ottobre dello stesso anno, quando una nuova maggioranza si insediava ai
vertici del partito e dello stato e con l'arresto della banda dei quattro poneva
termine alla rivoluzione culturale. Da allora Deng Xiaoping assume la posizione
di leader nel gruppo che governa la Cina e ne ispira il nuovo corso.
Aspettavo questo incontro con "l'uomo forte" della
Cina, quello che con più forza si oppose alla rivoluzione culturale
considerandola nefasta, l'uomo a cui si attribuisce il detto: "non importa
il colore del gatto se è bianco o nero; ciò che importa è se il gatto
acchiappa i topi".
Lo incontrai nel grande palazzo dell'Assemblea nazionale del
popolo il 22 maggio 1978; piccolo di statura anche per la media cinese, fronte
alta, occhi scuri, vivacissimi; fumatore accanito, sembra masticare le sigarette
anziché fumarle. Estremamente aperto e franco, non dà mai la sensazione di
voler scantonare su un argomento per rifugiarsi nell'ambiguità di risposte
evasive.
Le sue vicende politiche e, forse, anche l'aspetto fisico,
fanno ricordare subito il "personaggio Fanfani", anche lui l'uomo
forte della politica italiana, coraggioso. Anche lui "più volte nella
polvere e più volte sull'altare".
Del resto so che tra Deng Xiaoping e Fanfani corre una
corrente di simpatia, anzi, mi sembra di poter dire, di vera amicizia.
Nell'incontro del 1978 ero latore proprio di un caloroso messaggio di saluto da
parte di Fanfani. Con Deng Xiaoping si entra subito nel merito e ti trovi a tuo
agio.
Il secondo incontro avvenne tre anni dopo, il 12 dicembre
1981, sempre a Pechino. Ero stato invitato, anche nella mia qualità di
vicesegretario politico della Democrazia Cristiana, carica, questa, che ha
certamente influito su come si è svolto il colloquio e sui suoi contenuti.
* * * * *
Deng Xiaoping è l'uomo della concretezza, dei fatti. A lui
si deve il nuovo corso della Cina iniziatosi nel 1978 che chiuse definitivamente
le "utopie" (con me usò anche il termine "pazzie") della
rivoluzione culturale e che portò la Cina verso il traguardo di un paese
moderno.
È sua la politica delle quattro modernizzazioni, della
democrazia economica e della riforma politica, continuando sulla strada
dell'apertura della Cina a tutti i paesi del mondo.
Disegno ambizioso, perseguito con determinazione, una specie
di "stop and go" tenendo presente come verifica non i principi ma solo
i risultati concreti. Per questi motivi seppe mediare sul fronte della destra
conservatrice del vecchio Chen Yun ed anche su quello della sinistra.
Non esitò nel dicembre 1986 a sacrificare lo stesso
segretario del Pcc, Hu Yaobang, giudicato troppo tenero nei riguardi dei
movimenti degli studenti che, diceva Deng, "disturbano lo sforzo produttivo
e di progresso del paese". A proposito della caduta di Hu Yaobang, venne
ricordato un vecchio proverbio cinese: " È meglio che cada un ramo
dell'albero anziché far morire tutto l'albero".
Fece dare le dimissioni a Hu Yaobang ma lo tenne nell'ufficio
politico. Lo volle alla sua sinistra al tavolo della presidenza del XIII
congresso del Pcc e lo fece eleggere nuovamente come membro del massimo organo.
Nel 1981 ebbi l'onore di parlare agli studenti
dell'Università di Pechino. Chiesi a Deng che cosa avrei dovuto dire.
"Parli con piena libertà" fu la risposta e aggiunse: "Noi
puntiamo molto sui giovani. La rivoluzione culturale ci ha fatto perdere almeno
10 anni. Occorreranno molti anni per superare quei disastri. Si affermava in
Cina che uno era un «eroe» se non studiava. Occorre invece sostenere: si è
eroi se si studia!.." - E concludendo con una certa malizia: "Se
vuol proprio dire qualcosa agli studenti cinesi dica che tre sono i doveri degli
studenti: 1° studiare, 2" studiare, 3° ancora studiare".
Questa è la saggezza cinese.
Con lui la Cina ha portato avanti le prime riforme, in
agricoltura, nell'industria, nello Stato. La strada per la costruzione della
nuova Cina è segnata. Qualcuno la chiama il "denghismo" in
contrapposizione al vecchio "maoismo".
Deng non accetta la definizione ritenendola frutto del
pericoloso culto della personalità. Per lui il nome e la sostanza della nuova
politica stanno nel "socialismo dai colori cinesi". I fatti interni
gli hanno dato ragione ma quel che più conta è la stessa Urss di Gorbacev ad
imboccare la stessa strada con la "perestroika". Deng commenta con la
solita malizia: "Sì, sì, hanno capito anche loro, ma, come al solito
loro, i russi, arrivano dieci anni dopo".
Deng Xiaoping ha ormai compiuto la sua opera. L'ultimo tocco
lo ha fatto al XIII Congresso del Pcc ritirandosi nella "seconda fila"
dopo aver insediato il nuovo leader Zhao Ziyang.
Mossa abile perché col suo esempio ha obbligato tutti i
vecchi personaggi, sostenitori delle vecchie politiche conservatrici o
filocomuniste a lasciare anche loro il proprio posto.
* * * * *
Colpisce, conversando con Deng Xiaoping, la visione
solidale che ha dei rapporti internazionali, il non senso che riscontra -
come già Zhou Enlai - nella politica dei blocchi che divide il mondo.
C'è, in questo confronto permanente di due presenze
egemoniche, una differenza sostanziale: "Difensiva quella americana,
pesantemente offensiva quella sovietica". Molto significativo della
pericolosità di questa politica è il caso dell'Afghanistan. Dice: "la
distanza da Kabul al Golfo Persico può essere coperta in sole sei ore dai carri
armati sovietici, e gli Stati Uniti hanno tutto l'interesse a non lasciarsi
cogliere di sorpresa da una tale eventualità e quindi la corsa a creare margini
militari e politici, per fronteggiare questa evenienza. È l'equilibrio del
terrore che si innesca e si consolida, conseguenza del degenerare degli accordi
di Yalta, che solo il costituirsi di un sistema più articolato può superare,
segnando una netta inversione di marcia".
Il discorso di Deng Xiaoping ritorna, dunque, sulla
necessità dell'Europa unita, sul consolidamento dell'area Asia-Pacifico
fondata su un più stretto rapporto tra Giappone e Australia, sulla stessa Cina,
possibili protagonisti emergenti di nuove relazioni multipolari.
La valenza politica di tali proposte, più che nell'apporto
di maggiori elementi di equilibrio nel confronto delle forze in campo, sta nel
costituire esse stesse una via per dare corpo a un'effettiva volontà di pace in
grado di avviare un vero "governo dei popoli del mondo". Se questa via
è buona ed è percorribile, perché non incamminarsi su di essa?
"Noi giudichiamo completamente negativo questo brutale
bipolarismo che si divide il dominio del mondo", dichiarava Zhou Enlai al
nostro ministro degli esteri, Giuseppe Medici in visita in Cina nel gennaio
1973. E se trovava quanto meno spiegabile la volontà imperialistica degli USA,
giudicava assurdo "che questo obiettivo fosse l'Urss a perseguirlo: questo
è social-imperialismo: più subdolo - aggiungeva -
dell'imperialismo vecchia maniera".
Mitigata l'asprezza dei termini, questo medesimo giudizio
continua ad essere espresso da Deng Xiaoping, sostenuto dal riferimento storico
alle zone d'ombra che, nei rapporti tra Cina e Unione Sovietica, ci sono sempre
state anche nel passato, anche quando tra i due paesi c'erano "rapporti
fraterni".
"I rapporti con l'Urss - mi dice Deng Xiaoping
- per noi sono quanto mai chiari. Quando c'era Stalin, l'Unione Sovietica
ci ha aiutato e noi abbiamo espresso e dimostrato la nostra gratitudine. Ma
abbiamo rimborsato fino all'ultimo soldo. Abbiamo pagato gli impianti importati
dall'Urss, il petrolio e persino i mezzi che ci sono stati forniti durante la
lotta di resistenza contro gli americani in Corea. Nel 1959, quando Kruscev di
punto in bianco decise di ritirare gli esperti russi rompendo gli accordi
bilaterali, avevamo miliardi di debiti in vecchi rubli. L'economia cinese si
venne a trovare in estrema difficoltà, aggravata ancora di più da una serie di
calamità naturali. Ma abbiamo pagato tutto e con un anno di anticipo".
Questa meticolosa ricostruzione, nel discorso di Deng
Xiaoping, continua con altri riferimenti al dopo-Kruscev, al comportamento
di Breznev nei confronti della Cina. "C'è, in occidente, chi lo ritiene
più moderato di Kruscev ma è un giudizio sbagliato. Breznev, infatti, mentre
continuava ad ammassare soldati alla frontiera con la Cina, creava altri
problemi in varie regioni del mondo: a lui risale l'invasione della
Cecoslovacchia, a lui risale il turbamento degli equilibri politici in Africa,
in Medio Oriente, in Asia. Se ci fosse stato un minimo di ragionevolezza da
parte sovietica, si poteva sicuramente trovare una soluzione nella vertenza di
frontiera con la Cina. Ma i russi pensano che appartenga a loro quel territorio
e anche il nostro. Si tratta di un vecchio vizio".
Guardando al passato, può valere per tutti un caso
emblematico, "quello della Repubblica Popolare della Mongolia, estesa per
più di un milione di chilometri quadrati, regione sicuramente cinese, sottratta
alla Cina nel periodo zarista, attraverso la firma di un semplice
trattato". Sono tante le vertenze aperte, e a tutte si può trovare una
soluzione; ma, da parte sovietica, si oppongono resistenze. "Ecco perché
diciamo che la Russia è un paese social-imperialista. La rinuncia a
questa politica è la condizione prima perché i nostri rapporti con l'Unione
Sovietica possano migliorare. Ma l'Unione Sovietica cambierà mai questa
politica?".
Il contenzioso con gli Stati Uniti d'America, che pure
esiste, è di altra natura e tocca il sentimento nazionale dei cinesi: riguarda
Taiwan e la "politica delle due Cine". Nel giudizio di Deng Xiaoping
questo è un problema interno alla Cina nel quale nessun paese straniero può
interferire, e le proposte da lui avanzate nei confronti di Taiwan tendono a
saggiare il terreno per soluzioni politiche da assumere tra cinesi,
pacificamente. "Il popolo cinese, dice Deng, non rinuncerà mai a unificare
tutto il paese, ma, nello stesso tempo, è deciso a non creare rischi per la
pace. Certamente, il problema di Taiwan, fino a quando continuerà a sussistere,
presenterà degli elementi di rischio; ma è molto diverso dai tre grandi
ostacoli che mettono quotidianamente in pericolo la pace nel mondo".
E Deng Xiaoping questi ostacoli li elenca uno per uno: le
truppe sovietiche ammassate alla frontiera con la Cina; l'invasione
dell'Afghanistan; il permanente focolaio di guerra nel Vietnam. Tutti questi
ostacoli risalgono alla responsabilità dell'Unione Sovietica e alla sua
politica egemonica.
Nel dicembre 1981, quando ebbi il secondo incontro con Deng
Xiaoping, erano in corso a Ginevra i colloqui russo-americani sulla
limitazione degli arsenali atomici e delle basi missilistiche. Deng Xiaoping si
dimostrava pessimista. "Non credo nella volontà pacifica della Russia.
Certo i negoziati vanno continuati; ma, penso, non si otterrà molto. Non si
vede possibilità alcuna di accordo sul disarmo nucleare e neanche sulla
riduzione degli armamenti convenzionali. Ridurre gli ordigni nucleari del 20% o
del 40% non cambia i termini del problema. Ci sarebbero sempre a portata di mano
mezzi sufficienti per distruggere il mondo. Questa non è una politica
saggia".
Domando al presidente Deng Xiaoping come si spiega, in questa
visione generale di pace, l'attacco cinese al Vietnam. La risposta è pronta:
"Il Vietnam è la Cuba dell'Estremo oriente. Nel mondo ci sono due tipi di
egemonismo: uno piccolo e uno grande. Il Vietnam fa il grande con il piccolo e
cioè con la Cambogia ma è il Laos il vero obiettivo, cioè l'espansione.
Contro questo atteggiamento noi abbiamo reagito".
Chiedo allora perché la Cina non è entrata militarmente
anche nell'Afghanistan come ha fatto per il Vietnam. Deng Xiaoping risponde:
"Facciamo di tutto per appoggiare la lotta del popolo afgano. La nostra
forza, però, è limitata. Tutti i popoli amanti della pace devono aiutare di
più lo sforzo di liberazione del popolo afgano cosi da imporre all'URSS una
maggior prudenza. La vera nostra scelta è quella di resistere all'egemonismo.
L'Afghanistan e la Cambogia sono il primo fronte, per questo bisogna
resistere".
Ribatto: "Ma perché la Cina, così convinta della
necessità della pace non assume essa stessa per prima una grande iniziativa di
pace, sull'esempio dell'Assemblea di Cancun? Una "Cancun per la pace",
preciso, potrebbe essere indetta dai grandi della terra: Deng Xiaoping, Reagan,
Breznev, dai presidenti della Internazionale socialista e della Internazionale
democristiana, dal Papa, dal Presidente della Conferenza dei paesi non
allineati, dal Presidente della Confederazione mondiale dei sindacati...".
Deng Xiaoping si schernisce. Con una punta di amarezza aggiunge che "gli
altri non lo avrebbero ascoltato", come era accaduto, quando sul tema della
pace aveva preso la parola all'Assemblea dell'Onu. Dice di sentirsi vecchio per
iniziative di questa importanza. "Non mi resta, ormai, che aspettare, dopo
i pochi anni di vita che mi restano, di andare in paradiso, dove, forse,
incontrerò Marx: mentre lei, che è credente, incontrerà Cristo!". Ci
salutammo con una lunga stretta di mano e un caloroso arrivederci.
* * * * *
"Le pressioni dell'Unione Sovietica, sia sul piano
politico che su quello più strettamente militare, hanno come primo obiettivo
l'Europa" osservava Deng Xiaoping nel corso della conversazione del
dicembre 1981. Per questo i cinesi insistono sulla necessità di compattezza del
vecchio continente, come una delle condizioni per la salvaguardia della pace;
compattezza che deve interessare non solo l'economia e la cultura ma anche la
politica e la difesa.
"Tocca all'Europa, concludeva, guardare con realismo al
proprio futuro. Se vuole salvaguardare la propria libertà, la deve difendere
con mezzi propri; non può contare soltanto sull'ombrello protettivo della
potenza militare americana. La presenza russa nell'Afghanistan, il conseguente
pericolo di vedersi bloccate le vie del petrolio e l'aumentata pressione
politico-militare nell'Est europeo, sono per l'Europa una corda al
collo". Nello stesso giorno (7 dicembre 1981), in cui ci scambiavamo queste
considerazioni, I'Urss interveniva nei confronti della Polonia, imponeva lo
scioglimento di Solidarnosc e l'instaurazione del regime militare. Ecco,
pensavo, è la corda al collo che si stringe.
Nelle valutazioni di Deng Xiaoping e di Zhao Ziyang nulla era
cambiato rispetto a quanto, con insolita energia, mi era stato detto da Zhou
Enlai nell'incontro del gennaio 1973. Nel corso di quella conversazione il
"problema Europa" aveva trovato uno spazio e una attenzione insoliti.
Vidi in quella occasione uno Zhou Enlai diverso; dismesso l'usuale atteggiamento
flemmatico, molto inglese, che gli era abituale, esprimeva una reale
preoccupazione.
Come era nelle sue consuetudini, Zhou Enlai prese l'argomento
alla lontana, dopo avere parlato a lungo di Marco Polo, di cui dimostrò di
sapere tutto, e dopo aver fatto i complimenti al ministro Medici: "Non si
direbbe che lei ha 65 anni. Mi hanno riferito che sulla Grande Muraglia il suo
passo era più svelto di quello degli altri e che lei ha camminato più a lungo
del presidente Nixon e del presidente Tanaka. Complimenti! Complimenti!".
Poi, quando affrontò il tema Europa, il tono divenne serio e preoccupato.
Cominciò a parlare della necessità di approntare mezzi di difesa, delle
"gallerie profonde" che si scavavano a Pechino e nelle altre città
della Cina, avendo ben presente chi poteva essere il potenziale nemico pronto a
invadere il paese dal nord e dall'ovest. " È una direttiva del presidente
Mao Zedong ed è una necessità per la nostra difesa. Anche i paesi europei, che
pure, come la Cina, desiderano la pace, debbono crearne le condizioni, debbono
prepararsi. Quando si è preparati i disastri non succedono".
E proseguiva citando le raccomandazioni di Mao Zedong:
"Se si vuole una difesa seria, occorre, in primo luogo, scavare gallerie
profonde; in secondo luogo, non perdere le città. Per questo prepariamo opere
di difesa, ci prepariamo a una guerra sotterranea. Ci prepariamo per la difesa
con questa strategia. Una volta entrato, il nemico non potrà più uscire".
A questo punto, l'impassibile Zhou Enlai cambia
atteggiamento. Il braccio destro immobile fa risaltare ancora di più la
tensione di tutta la sua persona. Nello sguardo una luce intensa, il guizzo di
un sentimento di sdegno.
Questo colloquio avveniva nel 1973, quando lo stato d'animo,
da cittadella assediata, turbava la Cina, quando la persistente insicurezza
interna faceva vedere l'ombra del nemico dappertutto, e la strategia era ancora
quella del guerrigliero.
Il nemico era individuato in termini certi. Il rafforzamento
interno era l'unica possibilità per resistergli. Il contatto con altre regioni
del mondo parimenti minacciate era una necessità, se non altro per far prendere
loro esatta coscienza della minaccia incombente e della sua gravità.
A cinque anni di distanza sento Deng Xiaoping parlare negli
stessi termini, con lo stesso tono. Lo spunto immediato veniva dall'invasione
dell'Afghanistan che si consumava in quel periodo. "Più che la Cina, le
truppe sovietiche in Afghanistan condizionano l'Europa. La Russia vuole tenere
sotto controllo l'Europa senza dover ricorrere a un attacco frontale. La sua è
una strategia di accerchiamento. Vuole vincere senza combattere. A questo punto
l'Europa deve scegliere. Non può aspettare di decidere quando la corda è già
stretta o aspettare che si stringa ancora di più. Deve decidere ora se vuole
continuare ad essere libera e per essere libera deve essere unita e forte".
Deng Xiaoping parlava sulla base di una esperienza che aveva
origini lontane; esperienza di una pressione mantenuta costante ai confini della
Cina, di un potere e di una minaccia incombente che nemmeno le affinità
ideologiche erano mai riuscite a superare del tutto.
* * * * *
Parlare con Deng Xiaoping nel 1978 e più ancora nel 1981,
negli anni di lenta transizione dalla rivoluzione culturale al nuovo corso,
quando andava emergendo e si andava affermando il suo ruolo di leader
carismatico, significava parlare innanzitutto, oltre che di politica estera, dei
problemi interni, della nuova fase politica che si andava stabilizzando in Cina.
Sulla rivoluzione culturale, sulle guardie rosse, sulla
prospettiva di una società senza classi che era sembrata in via di
realizzazione, sull'avvento di una generazione di "uomini nuovi"
capaci di trasformare il fondamento stesso delle relazioni sociali e di
introdurre una qualità di socialismo come era nel sogno di molti, si era un po'
ragionato e un po' favoleggiato sia in Cina che fuori dalla Cina, e per questi
sogni in Cina si era anche sofferto. Adesso ci si chiedeva cosa fosse rimasto di
questo sogno che dalla Cina aveva invaso il mondo, quale consistenza avesse
realmente avuto, e su quali percorsi nuovi si incamminava adesso la Cina. Su
questi temi Deng Xiaoping era l'interlocutore ideale, e su questi temi ponevo a
lui le mie domande per essere aiutato a capire.
Deng Xiaoping è convinto della bontà delle sue tesi. È
convinto che "la strada giusta per la Cina, per il suo sviluppo e per il
suo progresso, è quella unanimemente decisa alla vigilia della proclamazione
della Repubblica Popolare, poi attuata abbastanza ordinatamente sino al 1956,
quando, prima che con la ideologia, ci si confrontava con i problemi reali del
paese e a questi problemi si commisuravano le decisioni politiche, ferma
restando la prospettiva della società socialista, da costruire tenendo conto,
tuttavia, delle reali possibilità. È dopo il 1956 che comincia a soffiare il
vento di comunistizzazione, la spinta, cioè, ad accelerare la marcia con
una rapidità tale che né le strutture sociali né le strutture economiche
riescono a sostenere. La grande crisi del 1961 impone un periodo di riflessione
e di relativi mutamenti; ma dopo il 1966, con la Rivoluzione Culturale, questo
vento diventa tempesta e in Cina sono in tanti a perdere il senso della realtà
e della misura politica".
Puntando sul sacrificio e sull'impegno personale di ciascuno,
si pensa di fare compiere alla Cina, nello spazio di pochi anni, un tratto di
strada che per sua natura richiede tempi molto lunghi. Non si può, in una
economia ancora povera, riservare all'accumulazione per gli investimenti quote
che si aggirano intorno al 40% del prodotto nazionale lordo; non si possono
concentrare gli investimenti in quantità assolutamente prevalenti
nell'industria pesante; bisogna tornare a quei rapporti più equilibrati che, in
un primo tempo, lo stesso Mao Zedong aveva spiegato nel suo documento sui Dieci
grandi rapporti nel 1956. Questa, da sempre, era stata la critica che Deng
Xiaoping aveva mosso al vento di comunistizzazione.
"Adesso, dopo il 1978, riprendendo gli orientamenti di
quel periodo, l'obiettivo che guida gli sforzi di tutti è quello di realizzare le
quattro modernizzazioni; di modernizzare, cioè, l'industria, l'agricoltura,
la ricerca scientifica, la difesa, recuperando oltre dieci anni di ritardo
tecnologico dovuto al fatto che con la Rivoluzione Culturale venivano esaltati
come nuovi eroi coloro i quali, proclamavano di rifiutare i vincoli sia della
istruzione che della produzione per proclamare il primato della politica".
Dati questi precedenti, l'avvio del nuovo corso non è
facile. "Tempo fa, alcuni amici occidentali ci hanno chiesto su quale base
avremmo potuto portare avanti queste modernizzazioni. Evidentemente sono
preoccupati - commentava Deng Xiaoping nell'espormi scelte e difficoltà
della nuova fase politica - ma l'obiettivo di modernizzare il paese in
settori vitali, è un pensiero costante, sia di Mao Zedong che di Zhou Enlai,
solo che il tipo di politica dominante per alcuni anni indirizzava il paese su
una strada che non era la migliore per realizzare quegli obiettivi".
Ora la situazione è diversa. "Abbiamo fatto molte
analisi a mente fredda - aggiunge - e abbiamo potuto individuare
alcuni dati certi. Il primo di questi dati consiste nel senso di liberazione che
si respira nel partito e nel paese dopo la caduta della banda dei quattro; il
secondo dato sta nel fatto che le strutture essenziali della produzione sono
rimaste quasi tutte in piedi, sia nell'industria che nell'agricoltura come pure
nel settore della ricerca scientifica; il terzo dato consiste nella
constatazione che la politica di apertura al resto del mondo può essere
praticata adesso con maggiore disponibilità. Questo fatto ci consente di
acquisire più celermente i risultati aggiornati della ricerca scientifica e
dell'applicazione tecnologica. Il quarto dato sta nella abbondanza attuale delle
risorse naturali".
Deng Xiaoping elenca le disponibilità potenziali di
petrolio, di carbone, di risorse idroelettriche; di petrolio soprattutto, la
nuova ricchezza della Cina, tenuto conto delle crescenti necessità energetiche
nella fase di sviluppo che si avvia.
Oggi, si parla di giacimenti di decine di miliardi di
tonnellate di petrolio. La difficoltà attuale è quella di disporre dei
capitali e dei mezzi per estrarlo; ma questo è un problema che si può
risolvere. In passato, invece, esperti stranieri (americani, giapponesi,
svedesi) che avevano fatto ricerche, avevano finito per concludere che in Cina
non c'è petrolio. " È stato un nostro grande scienziato, Li Quan,
ministro per la geologia, che li ha smentiti localizzando giacimenti petroliferi
in diverse regioni della Cina dove altri, in passato, avevano ricercato
inutilmente". Dunque, le premesse ci sono. Le quattro modernizzazioni sono
realizzabili. "Per il 1985 - dice Deng - potremo essere in
grado di produrre 60 milioni di tonnellate di acciaio e 400 milioni di
tonnellate di cereali". La previsione si è pienamente realizzata in questi
e in altri settori, andando addirittura oltre i limiti previsti e con qualche
anticipo sulle scadenze.
Già nel 1981 si respirava aria nuova. Cominciavano ad essere
altri i livelli dei consumi, altra la speranza della gente, altro cominciava ad
essere il modo di produrre specialmente nella Cina delle campagne. Altri
problemi nuovi cominciavano a profilarsi: quello dell'orientamento verso una
società consumistica, in primo luogo, nel quale molti altri problemi finiscono
per confluire.
"Tutto questo insieme di condizioni nuove, insolite per
la massa dei cinesi, non comporta il rischio di una caduta della tensione morale
che ha sostenuto la fase rivoluzionaria? L'impatto con le distorsioni del
consumismo, quali fenomeni avrebbe comportato per la società cinese?"
chiedo a Deng Xiaoping.
Né Deng Xiaoping né altri, in Cina, si nascondono
l'incidenza di problemi di questa natura, delle conseguenze che può comportare
il passaggio da una società e da forme di vita in larga parte arcaiche a modi
di produrre, di consumare e di vivere profondamente diversi.
"Ma il problema non è immediato - mi risponde.
- C'è tempo per adattarsi alle nuove condizioni e fronteggiarne i
riflessi. Sino alla fine del secolo potremo contare solo su un piccolo
benessere. Di qui alla fine del secolo abbiamo ancora diciannove anni di duro
lavoro davanti a noi e molta strada da compiere per migliorare sensibilmente il
nostro livello di vita. Per la costruzione del sistema socialista occorre
lavorare tenacemente, sostenuti da una grande volontà e da una grande forza
morale".
Accenna a un rischio che è più immediato e che riguarda una
accentuata diversa distribuzione della maggiore ricchezza che comincia a
prodursi: conseguenza naturale del margine crescente di autonomia che viene
riconosciuto alle forze produttive e, prima ancora, conseguenza delle diverse
condizioni in cui si esercita l'attività produttiva. Questi fenomeni di
polarizzazione interessano singole famiglie, soprattutto nelle campagne; oppure
singole unità produttive; oppure intere regioni.
"D'altra parte - prosegue Deng Xiaoping -
tra i convincimenti errati da rimuovere c'è quello del livellamento
egualitario, anche se un punto da tenere fermo è quello di non consentire la
formazione di un contesto economico che produca il costituirsi di nuove
classi".
Affiora, attraverso la problematica descritta da Deng
Xiaoping, tutto l'insieme dei problemi reali che costituiscono la complessità
di una società in movimento per uscire dall'immobilismo. Una società statica
non ha problemi di questa natura; ma, nello stesso tempo, non registra indici
significativi di crescita né sul piano economico né su quello sociale, né
tanto meno politico. Una società che sceglie la "liberazione
economica", anche se graduale, anche se limitata, sceglie nello stesso
tempo i problemi che necessariamente ne derivano.
La coscienza di questi cambiamenti, prevedibili e difficili
da governare, è presente in Deng Xiaoping e negli altri dirigenti che con lui
condividono la responsabilità del nuovo corso. Si viene a sapere oggi che
questo timore del nuovo era così forte nel 1981 da determinare contrasti,
battute di arresto, timori, incertezze, inviti alla prudenza, che, a momenti,
sembravano prossimi a prevalere e a rinviare le scelte innovative. Ma Deng
Xiaoping, convinto della necessità della sua scelta, insisteva. "Siamo
disposti ad assorbire capitale straniero. Nelle zone economiche speciali che
intendiamo realizzare, è possibile l'impianto di imprese anche a capitale
interamente straniero. Non solo, ma ipotizziamo la nascita di una economia
privata, a gestione cooperativa e in qualche caso a gestione individuale,
accanto alla economia socialista".
Ascoltavo con interesse. Quelle intenzioni sembravano
coerenti e giuste e rispondevano pienamente a quello di cui la Cina aveva
bisogno, e cioè la "liberazione delle forze produttive" che era il
punto fermo di tutti i ragionamenti di Deng Xiaoping. Confesso però che
stentavo a convincermi che quelle intenzioni, tradotte in programmi di governo,
potessero avere vita facile. Gli riferivo quello che sul suo conto si diceva in
occidente, e che a lui, del resto, era noto; della sua attitudine pragmatica,
diversa dalla attitudine teorica di Mao Zedong.
Ascoltava e mostrava di apprezzare questo giudizio, quasi
come il riconoscimento di un merito. "Fosse vero. Certamente un primo punto
da tenere fermo è quello di restare bene ancorati alla teoria. Ma anche Marx
insiste sulla necessità di tener conto delle condizioni e delle circostanze
pratiche, delle esigenze della produzione. Solo teoria o solo pratica non sono
marxismo, e la teoria va confrontata con la pratica; dal confronto risulta lo
sviluppo del marxismo. Così è stato per il principio dell'egualitarismo. Il
principio di «mangiare tutti alla stessa marmitta» ha impoverito la Cina, nel
senso che aumentava sì la produzione, ma secondo un rapporto assai basso
rispetto ai mezzi investiti. Abbiamo verificato quanto questo principio fosse
erroneo, e adesso cominciamo a correggerlo".
Inserendomi nel suo ragionamento, gli ricordavo come era
finita male quella affermazione della superiorità del socialismo così come
praticato nell'Unione Sovietica, lanciata da Kruscev quasi come una sfida a
Kennedy nella gara dello sviluppo e come i fatti gli avevano dato torto.
Deng Xiaoping non si infastidisce per questi riscontri, anche
perché non lo riguardano in modo diretto, non essendo il socialismo di Kruscev
quello che i cinesi prendono a modello. "Il comunismo secondo l'interesse
della Cina non ha modelli di riferimento e viene costruito giorno per giorno
attraverso i fallimenti e le vittorie che via via si registrano".
Alla fine, e qui torna a fare capolino la visione
escatologica della Grande Armonia, alla fine "quando la società
sarà costruita secondo le regole che le sono proprie, qualunque -ismo sarà
eliminato, compreso il marxismo, e alla fine ci sarà maggiore benessere e
maggiore giustizia nel mondo". Così ragionando, Deng Xiaoping dimostrava
quanto la sua visione dello sviluppo della società fosse tributaria di tutta
una tradizione di cultura politica propria della Cina non meno di quanto lo era
stata la visione di Mao Zedong.
"Noi diciamo che questa visione della società giusta è
una visione cristiana" gli feci osservare.
"Io non ho studiato questa vostra dottrina e quindi non
lo so. Certo, bisogna guardare alle cose concrete".
L'indomani dovevo andare a parlare agli studenti
dell'università di Pechino. Gli dissi che pensavo di riproporre ad essi quelle
stesse riflessioni che avevamo sviluppato durante quella nostra lunga
conversazione. Gli chiesi se aveva da suggerirmi qualche altra idea.
"Dica quello che vuole" fu la sua risposta.
"Parli in piena libertà".
Insistetti: "L'infantilismo della banda dei quattro è
definitivamente superato?"
"Sì, sono stati 10 anni difficili, anche di sabotaggio.
Occorreranno molti anni per superare quelle negligenze, quei disastri. Abbiamo
perso almeno una intera generazione. Abbiamo perso tutta la gioventù. Sabotare
e distruggere è facile, costruire è difficile. Si affermava che uno era un
«eroe» se non studiava; occorre invece rovesciare: si è eroi se si studia.
Bisogna ricominciare dai primi anni di scuola con un lavoro tenace. Si possono
vedere giovani strani nelle strade; fenomeni che voi stranieri conoscete meglio
di noi. Questi ultimi anni abbiamo avuto un cambiamento notevole. Gli studenti
medi e gli universitari hanno ripreso a studiare bene. Tutto questo ci fa ben
sperare".
L'indomani parlai agli studenti. Dissi tutto quello che avevo
in mente di dire. Parlai in piena libertà. Parlai dell'occidente e del sistema
di libertà che lo governa; parlai della ricerca scientifica e dei cambiamenti
che essa genera; parlai del marxismo, secondo le esperienze a noi più vicine.
Dissi che il sistema marxista-collettivista, eliminata entro certi limiti
la povertà sul piano economico, assicurato un certo grado di sviluppo, ha
dovuto prendere atto che il motore perdeva colpi, mortificando soprattutto la
dimensione della libertà.
Più nel dettaglio parlai di due principi propri di una
politica solidarista, che qualificano i comportamenti delle forze democratiche
in occidente, tendenti ad armonizzare gli aspetti positivi delle libertà
individuali con quelli della giustizia e cioè: il principio del superiore
valore della persona umana alla quale deve essere subordinato ogni altro valore,
a cominciare dall'economia concepita a servizio dell'uomo e non viceversa; il
principio di solidarietà inteso come spirito di servizio, come presenza dello
stato nella sua funzione di fautore del bene comune, di sostegno dei soggetti
più deboli. Sforzo, quindi, per superare sia la strada del capitalismo sia
quella del collettivismo per tracciare quella del solidarismo. Avvertivo la
sintonia che veniva a stabilirsi con l'uditorio che mi stava di fronte, attento.
Alla fine, ci furono tanti interventi, richieste di precisazioni, di
chiarimenti, alcune obiezioni, poi un grande e prolungato applauso.
* * * * *
Di eurocomunismo e della politica del Pci ho avuto modo di
parlare più volte con gli amici cinesi mettendo in risalto i tentativi dei
comunisti italiani anche se non sempre riusciti, di cercare una propria linea
autonoma rispetto a quella del Pc sovietico. Gli interlocutori cinesi erano
personaggi storici del comunismo mondiale. Avevano avuto la possibilità di
incontrarsi e anche scontrarsi nelle varie riunioni a livello internazionale.
Nel bene e nel male questo grande fenomeno storico rappresentato dal comunismo
mondiale porta anche i loro nomi.
Le decisioni di autonomizzazione dei vari partiti comunisti
europei, pur nelle differenze di forme, modi e tempi, si potevano associare a
quelle assunte dallo stesso partito comunista cinese.
Ognuno ha cercato una propria via nazionale. In Europa
abbiamo assistito a iniziative tendenti a realizzare addirittura un nuovo corso
continentale l'eurocomunismo, che ha visto uniti in questo sforzo, almeno sul
piano della ricerca, il Partito comunista italiano, quello francese e quello
spagnolo di Carillo. Ancor prima sono da ricordare gli atteggiamenti di
autonomia del Partito comunista rumeno, di quello jugoslavo e anche quello,
ancor più duro nei riguardi dell'Urss, del Partito comunista albanese.
L'argomento dei rapporti tra Pcc e Pci lo avevo affrontato
già nel primo colloquio con il premier Zhou Enlai nel 1971. L'atmosfera era
cordiale, di confronto di pareri sui vari temi. Zhou mi aveva parlato di De
Gasperi, di Mattei esprimendo, con spontaneità, anche giudizi espliciti sul
loro operato.
Era, quindi, giusto affrontare questo tema con un
interlocutore così qualificato.
Zhou Enlai, forse più dello stesso Mao Zedong, aveva
maggiormente seguito nel Pcc il tema dei rapporti tra i vari partiti comunisti
del mondo e quello fondamentale dei rapporti con il partito guida cioè il
Partito comunista sovietico.
Devo dire che non mi aspettavo affermazioni così esplicite
in un colloquio con un grande del comunismo mondiale come Zhou Enlai e tanto
meno che dovesse toccare a me, proprio qui a Pechino, il ruolo di sostenitore se
non proprio di difensore della linea di autonomia del Pci.
"E del Pci che opinione avete?" ho chiesto a Zhou.
Zhou Enlai tergiversa un po' ma poi replica: "È un partito revisionista.
Tutti i partiti comunisti europei sono di questo tipo. Sono in una posizione
ambigua: sostengono la tesi dell'autonomia degli stati nazionali e
contemporaneamente sono subordinati alla politica dello stato-guida, cioè
dell'Urss".
"Però il Pci sostiene la tesi della linea di autonomia;
anzi è forse il più avanzato su questa linea".
Risponde: "Sì, sì, ma occorrono i fatti. Noi neghiamo
con forza la funzione di partito-guida al Pc sovietico. Tutti devono
essere a livello di parità. La verità di una posizione non sta nella
dimensione quantitativa di chi la sostiene ma sta nel suo valore oggettivo. Può
venire anche dalla piccola Albania o dalla Cecoslovacchia. Noi giudichiamo, ad
esempio, un'operazione imperialista l'invasione della Cecoslovacchia".
"Anche il Pci ha tenuto una linea critica sull'invasione
della Cecoslovacchia".
"Nei fatti, l'atteggiamento del Pci è stato
insufficiente. L'Urss continua la sua politica di egemonia".
Era quanto mai opportuno che di questo delicato problema,
l'eurocomunismo, ne parlassi anche con il premier Deng Xiaoping.
Feci la domanda in modo esplicito ottenendone un'altrettanta
esplicita risposta che lo fece sobbalzare:
"Il vostro giudizio sull'eurocomunismo?" .
"Quanto all'eurocomunismo non riteniamo sia comunismo.
C'è un punto che va spiegato: non è sufficiente il fatto di dichiararsi
indipendente dall'Urss. Prima o poi dovranno stare da una parte o
dall'altra".
Aggiunsi: "Gli eurocomunisti finora, di fatto, si
oppongono soltanto agli Usa. Vogliamo vedere come va a finire. Qual è il suo
parere di vecchio comunista? Che giudizio dà di Marchais, Berlinguer e
Carillo?"
La risposta fu immediata: "So che non fa piacere
all'Urss quando sventolano le insegne dell'eurocomunismo. Ora vedremo da che
parte andranno. Noi riteniamo che l'eurocomunismo di Berlinguer, di Marchais e
Carillo non è comunismo. È naturale che voi italiani ci pensiate più di noi,
ora vorrà dire che anche noi osserveremo con maggiore attenzione l'intero
problema".
Anche nel secondo colloquio con Deng Xiaoping, nel dicembre
'83, affrontai il tema dell'eurocomunismo e del comportamento dei singoli
partiti comunisti, compreso quello italiano, specie sul fondamentale tema della
pace.
Un tema sul quale il Pci sembra essere molto prodigo di
affermazioni, sempre disposto a partecipare a manifestazioni di piazza spesso in
modo unilaterale, cioè antiamericano e antiNato, e sempre meno propenso ad
assumere comportamenti concreti atti a scoraggiare o impedire decisioni
aggressive dell'Urss.
Avevo presenti le continue richieste di spiegazione degli
ambasciatori cinesi a Roma circa le grandi manifestazioni "cosiddette
pacifiste" sostanzialmente pilotate dal Pci, ritenendo essi che un'azione
più decisa dei Pc europei, anche nei riguardi dell'Urss, poteva essere positiva
per il mantenimento della pace nel mondo.
Esprimevano la stessa linea di prudenza del Pcc: se da una
parte afferma la propria posizione contro "l'egemonismo delle due grandi
potenze" dall'altra rispetta e sottolinea quello della libera scelta di
ogni partito.
Espressi un giudizio: "L'atteggiamento dei Pc europei è
un po' ambiguo".
Deng: " È una scelta dei partiti comunisti europei. I
cinesi mancano di conoscenze immediate nei riguardi dell'Europa. Noi apprezziamo
che il Pci abbia una propria visione dimostrando una differenza rispetto ai suoi
comportamenti del passato. Per questo abbiamo migliorato i rapporti con il
Partito comunista italiano. Ora questi rapporti sono buoni. Sarebbe una cosa
grave se ascoltasse sempre la voce di Mosca".
"Questa posizione del Pci può essere solo una
dichiarazione d'intenti: nei fatti, il Pci ha votato contro l'installazione dei
missili Nato in Italia. Ha votato contro la costituzione del sistema monetario
europeo (Sme). La Democrazia Cristiana e il Partito socialista hanno invece
votato a favore. C'è differenza tra le dichiarazioni e i comportamenti concreti
del Partito comunista italiano".
Deng: "I comunisti italiani devono risolvere i loro
problemi. Noi comunisti cinesi auspichiamo un'Europa unita e forte".
"Ma in questo sforzo devono collaborare anche gli altri
partiti comunisti. Le ha dette queste cose al Pci, a Berlinguer?".
Deng: "Sì, abbiamo parlato apertamente e ci auguriamo
che l'Europa assuma una posizione più forte anche con il governo degli Stati
Uniti. Certo, qualche nodo esiste anche tra Cina e Stati Uniti però,
strategicamente, anche se dovesse capitare qualche attrito non modificheremmo la
nostra posizione nei riguardi degli Stati Uniti".
"Ma il Pci nei fatti non sembra abbia capito il suo
consiglio".
Deng. "Si deve pensare in modo indipendente. Il giudizio
è difficile. Noi siamo chiari sul problema del superamento delle due egemonie e
riteniamo che sia le linea giusta. D'altra parte rispettiamo, anche se a volte
non approviamo, le decisioni degli altri partiti comunisti. Ognuno ha il diritto
di percorrere la propria strada".
* * * * *
Del problema Cina ho più volte parlato con Aldo Moro. E
questo non solo per le sue responsabilità dirette come Ministro degli esteri o
come Presidente del Consiglio, ma perché con lui c'era sempre da imparare
specie sui grandi temi dei popoli, dell'umanità, della pace.
Del resto, della sua politica, della sua grande statura, del
suo ruolo determinante nella vita italiana, ho più volte parlato con i vari
ambasciatori cinesi, accreditati presso il nostro paese dovendo rispondere a
precise domande di chiarimento, di conferma e di indirizzo. Moro era,
evidentemente, anche per loro il vero perno della politica italiana. Lo capivo,
dalle espressioni gentili del primo ambasciatore Shen Ping che era commosso per
il "bellissimo fiore" ricevuto da Aldo Moro in occasione del suo
arrivo in Italia, fino alla profonda commozione che ho percepito
nell'ambasciatore successivo (ex presidente della Associazione per l'amicizia)
durante i tristi giorni del rapimento.
Non furono per me motivo di meraviglia, ma di grande
conforto, la sue espressioni di convinta solidarietà, quando ci incontrammo sul
sagrato della Chiesa di S. Giovanni in Laterano in occasione della maestosa e
nello stesso tempo tragica celebrazione funebre officiata da Paolo VI.
Lo ringraziai per questa sua partecipazione così sentita. Io
avevo gli occhi lucidi, pieni di lacrime; anche lui era visibilmente commosso.
Ricordo una frase da lui ripetuta più volte: "Aldo Moro era un grande
statista, un grande uomo. Sì, un grande uomo!".
Dell'uccisione del presidente Moro ebbi modo di parlare con
Deng Xiaoping in un incontro (maggio 1978) a Pechino. Non sapevo che i due
uomini si erano incontrati. La conversazione, inevitabilmente, toccò il
problema più generale del terrorismo, le sue radici, eventuali protezioni.
"Le porto il saluto dell'onorevole Andreotti e un
ringraziamento per le espressioni di solidarietà che la Cina ha avuto in
occasione dell'uccisione di Aldo Moro. Vi siamo grati per le vostre
dichiarazioni di amicizia e di condanna per qualsiasi atto di terrorismo".
Deng: "Siamo rimasti tutti enormemente amareggiati.
Anch'io personalmente sono stato colpito. Ho conosciuto l'ex premier Moro nel
'75 all'Onu. Ho parlato con lui. Ho potuto constatare la sua grande statura
politica. Rinnovo ancora a lei e al suo paese il mio cordoglio. Ma le brigate
rosse che organizzazione sono?".
"Non siamo riusciti a identificarle. È certo però che
vogliono la destabilizzazione dell'Italia e dell'Europa. Da questo se ne capisce
la matrice politica".
Deng: "Si tratta di un'organizzazione che gioca con la
manovra del terrore. Si definiscono marxisti-leninisti e anche maoisti. Ma
Marx, Lenin e Mao, come tutti gli autentici marxisti-leninisti, si oppongono al
terrorismo perché è un atto isolato dalle masse, un atto che non si potrà mai
chiamare «rivoluzione». Quelle dei «brigatisti rossi» sono soltanto manovre.
Può darsi sia un'organizzazione controllata da agenti segreti. Si dice abbiano
usato armi cecoslovacche. Certo bisogna andare più a fondo".
"È questo l'impegno del nostro governo. Dobbiamo tutti
collaborare nella lotta contro il terrorismo".
Deng: "I brigatisti rossi per ora fanno manovre soltanto
in Europa. Prima della morte di Mao non si sapeva neppure dell'esistenza delle
Brigate rosse. Certo che occorre vigilare contro tutte le forme di terrorismo.
Rinnovo le espressioni di solidarietà a lei e al popolo italiano".
Anche nella conversazione del dicembre 1981 con Deng Xiaoping
parlammo di terrorismo. È stato Deng Xiaoping a introdurre l'argomento.
Deng: " È risolto il problema terrorismo?".
"No, purtroppo è ancora presente".
Deng: "A chi se ne fa risalire l'azione?".
"I brigatisti si rifanno all'ultrasinistra e anche al
pensiero politico del presidente Mao".
Deng: "È una calunnia riferirsi al pensiero di Mao che
si opponeva come Marx, a qualunque terrorismo".
"Recentemente abbiamo avuto tre momenti di grande
destabilizzazione: l'attentato a Reagan, al Papa e l'uccisione di Sadat. Certo
tutto fa capo al problema di fondo, cioè alla politica di pace che sta al
centro degli incontri di Ginevra tra Stati Uniti e Unione Sovietica".
Deng: "Sì, la pace deve essere un impegno di tutti. Il
terrorismo deve essere combattuto in qualunque paese. Noi lavoriamo intensamente
in questa direzione".
ZHAO ZIYANG: LEADER DELLA NUOVA GENERAZIONE
Basta vedere le fotografie ufficiali distribuite dopo il XIII
Congresso del Pcc per capire il grande salto compiuto.
Beijing Information, una delle riviste cinesi più
qualificate, pubblica in prima pagina il vecchio Deng sorridente, nel classico
vestito alla cinese, che presenta il nuovo leader Zhao Ziyang che si presenta
più come un manager uscito da Wall Street in abito occidentale di ottima
fattura.
La Cina cambia, è cambiata, lo vuol far sapere all'intero
mondo.
Zhao ha illustrato al XIII Convegno il rapporto dal titolo:
"La marcia in avanti sulla via di un socialismo alla cinese".
Riallanciandosi alla grande svolta del 1978 fatta da Deng,
afferma che in 8 anni (1978-86) la Cina ha raddoppiato il proprio reddito
e lo raddoppierà nuovamente entro l'anno 2000. I bisogni primari della
popolazione che supera il miliardo sono ormai soddisfatti. Sono stati creati 70
milioni di nuovi posti di lavoro nell'industria. Nelle campagne 80 milioni di
contadini sono passati ai lavori non più agricoli ma di trasformazione dei
prodotti e nel terziario.
È il rapporto al paese di un vero statista e i problemi
della lunga marcia sono ormai lontani e superati.
Zhao è il primo leader cinese della nuova generazione. Non
ha fatto la lunga marcia, né l'esaltazione della "rivoluzione
culturale". Il suo obiettivo è la "modernizzazione della
Cina", cioè fare di questo paese di un miliardo di persone, un paese
grande, moderno, capace di rispondere alle esigenze ciclopiche della propria
esistenza e sviluppo e di adempiere con responsabilità alla funzione storica a
livello mondiale.
È stato uno dei collaboratori più stretti di Zhou Enlai che
considera, con Deng, il suo vero maestro.
È stato il primo segretario del Pcc del Sichuan, la
provincia più popolosa della Cina (più di 100 milioni di abitanti) realizzando
con grande successo sia la riforma agricola che quella industriale. È un vero
uomo di Stato.
La conversazione con lui verte proprio sui temi dello Stato,
sulla politica economica, sulla politica estera e sull'Europa.
Alla fine di un colloquio, in occasione della sua visita a
Roma nel maggio 1984, proprio sui temi europei (eravamo alla vigilia delle
elezioni e si sentiva in giro una caduta di tensione) dichiarai:
"Non ho mai incontrato europeisti così convinti come
gli amici cinesi".
La sua risposta: "Mi creda, non è solo perché una
Europa unita conviene alla Cina, ma per profonda convinzione; una Europa unita
conviene a tutto il mondo!".
È stato il sostenitore di una economia aperta all'estero e
libera all'interno, del mercato, della funzione strategica dei prezzi. Nel campo
del lavoro ha voluto il superamento del vecchio principio di "mangiare
tutti alla stessa pentola", l'applicazione della "meritocrazia"
più spinta.
Il principio di fondo del nuovo corso, sanzionato dal XIII
Congresso, sta nella distinzione tra Partito e Stato, Partito ed Economia,
Partito e Società.
Il partito politico si deve ritirare e anche esaltare nella
sua funzione di indirizzo rispettando le autonomie proprie dello Stato, della
economia, della società.
Alle insistenti domande come sia possibile conciliare tutte
queste scelte di fondo proprie della democrazia occidentale con i principi e la
prassi del marxismo, risponde: "Questa è la nostra scommessa, la nostra
sfida. Questo è il socialismo dai colori cinesi che cerca la sua verifica non
sulla base di vecchi dogmi, ma sui fatti, sui risultati. Ed i primi risultati,
piccoli o grandi ci sono, li vedete anche voi e ciò che più conta lo
constatano i cinesi che sono un miliardo e non pesano più sul resto
dell'umanità come pesano invece l'Africa, l'America latina ed intere aree
dell'Asia".
È il miracolo della Cina che non solo è ormai
autosufficiente ma è diventata esportatrice di prodotti agricoli.
Basteranno queste riforme e questi risultati?
Certamente no. Ma questo non è un problema cinese ma
dell'intero mondo.
Alla vigilia dell'inizio del III millennio della storia dopo
Cristo si impone un rifacimento della storia, della realtà e dello sviluppo
dell'intera umanità. Davanti alle trasformazioni in essere, quali risposte
dare?
È possibile e quale tipo di "nuovo umanesimo"
saremo in grado di elaborare per questo III millennio di storia?
Certo che il mondo è cambiato. Le vecchie posizioni di
rendita non reggono. Occorre realizzare nuovi equilibri.
Per secoli la funzione dell'Europa, il vecchio Continente, è
stata quella di perno dell'equilibrio mondiale sul piano culturale, sociale,
economico e politico.
Poi l'Europa ha fatto blocco con l'America e l'intero mondo
ha ruotato attorno all'asse dell'Atlantico. Ora non è più così. Questo asse
si sta spostando, anzi, si è già spostato.
Si è spostato verso il Pacifico trovando i punti di forza
nella costa americana del Pacifico da una parte e dal Giappone e Cina sull'altra
costa del Pacifico.
E concludemmo con grande amicizia:
"Come andrà a finire? Non si tratta certo di
rivendicare primizie geografiche che hanno poco senso ma primizie di valori, di
civiltà, di umanesimo a misura d'uomo.
Ed in questa gara tutti sono impegnati a dare il proprio
contributo. È l'eterna e continua «lunga marcia» dell'intera umanità. I
cinesi, da parte loro, hanno compiuto passi significativi e dichiarano la
propria disponibilità.
Sì, diamoci la mano: insieme si cammina meglio e più
velocemente".
Durante le tremende giornate di "Piazza Tian’anmen"
(1989) ho ripensato molto alla sincera amicizia nata con Zhao Ziyang ed a queste
parole che ci siamo scambiate.
Zhao Ziyang è stato il punto di riferimento più qualificato
dei giovani studenti. Era il loro interprete più genuino che cercava di
incanalare la forte protesta giovanile in modi e tempi costruttivi, cioè
compatibili con le cadenze reali della situazione cinese. Era, certo, dalla
parte degli studenti. Capiva le loro giuste richieste ma sapeva anche che il
tutto doveva essere portato avanti con gradualismo e nel rispetto dell'autorità
dello Stato.
Chiedeva che finisse il tragico sciopero della fame degli
studenti, che terminasse pacificamente l'occupazione della piazza con l'impegno
che si iniziassero subito concrete trattative tra le parti.
Per questo Zhao era disponibile e dava fiducia agli studenti.
Questo suo atteggiamento di fiducia non era condiviso dalla
intera dirigenza cinese ma Zhao arrivò a proporlo ufficialmente agli studenti
scendendo con loro nella piazza.
Purtroppo gli studenti non credettero, non accettarono questa
possibilità o, forse, tardarono troppo nel prendere la decisioni per una
risposta.
Tremende sono le immagini di quei momenti diffuse nel mondo
dalle diverse TV
Si è visto uno Zhao Ziyang discutere animatamente con i
leaders studenteschi quasi piangente, quasi supplicante, presagendo le
conseguenze tragiche di un'eventuale non accettazione delle sue proposte da
parte dei dimostranti.
Così è avvenuto e fu una grande tragedia per i giovani
cinesi, per la Cina intera e per lo stesso Zhao Ziyang che fu subito dimesso da
ogni incarico.
Personalmente, ricorderò sempre il viso piangente di questo
amico impegnato anche in Piazza Tian’anmen per il bene del proprio Paese, e
penso che Zhao Ziyang potrà ancora essere utile al popolo cinese.
INCONTRO CON HU YAOBANG
SEGRETARIO GENERALE DEL PCC: L'IDEALISTA
L’”Agenzia Nuova Cina" del 9 dicembre 1986 annuncia:
"Il Segretario Generale del Comitato Centrale del
Partito Comunista Cinese (Pcc) Hu Yaobang, oggi, rivolto agli ospiti italiani,
ha detto che con il conseguimento dell'unità europea, ciascuna nazione d'Europa
avrà la capacità di tenere in pugno il proprio destino. Se l'Europa, formata
da così tante nazioni e con tale pluralità di partiti, potrà esprimersi
all'unanimità sul problema del mantenimento della pace, la Cina non potrà che
rallegrarsene.
Hu Yaobang ha incontrato, questo pomeriggio, nella residenza
Zhongnanhai, la delegazione dell'Istituto Italo Cinese per gli scambi economici
e culturali guidata dal suo Presidente il Sen. Vittorino Colombo.
Durante il colloquio si è avuto un largo scambio di vedute
su problemi di interesse comune.
Rispondendo alla richiesta del Sen. Vittorino Colombo, Hu
Yaobang ha spiegato gli obiettivi e le direttive politiche dell'edificazione di
una civiltà spirituale socialista che il Partito Comunista Cinese, alla guida
del popolo cinese, ha intrapreso. Vittorino Colombo è un noto politico
italiano, un vecchio amico della Cina. Hu Yaobang, durante il colloquio, ha
lodato l'utile lavoro da lui svolto per promuovere l'amicizia fra i due
popoli".
Il comunicato è stato pubblicato anche su "Il
Quotidiano del Popolo" del 10 dicembre 1986.
Avevo già incontrato il Segretario del Pcc in occasione
della sua visita in Italia nel 1986. L'incontro era stato di pura cortesia con
l'impegno di rinnovarlo in Cina proprio per approfondire i problemi di natura
specificatamente politica e di partito.
Hu Yaobang è un personaggio molto vivo, accetta il confronto
sugli argomenti più diversificati ed anche più delicati; non usa le mezze
misure. Esprime con chiarezza le proprie convinzioni. Sa ascoltare gli
interlocutori.
Anche lui come Zhao Ziyang è stato scelto da Deng Xiaoping
per la nuova politica del socialismo dai colori cinesi. Il primo, Zhao Ziyang,
per la guida del Governo del Paese; il secondo, Hu Yaobang, per la guida del Pcc
in un passaggio così delicato.
Hu Yaobang conosce bene il Pcc. È stato per molti anni il
responsabile del Movimento giovanile. Conosce e capisce il "nuovo che
avanza"; conosce la nuova classe dirigente che si fa avanti. È sensibile
ai problemi ideologici, ai valori e principi del movimento rivoluzionario
comunista cinese, al nuovo corso, che, con l'apertura al mondo, potrebbero
subire un confronto durissimo. Hu Yaobang guarda più al "nuovo uomo
cinese" che alle cose cinesi.
La civiltà spirituale socialista è il tema iniziale del
nostro colloquio.
L'argomento aveva formato oggetto di una specifica
risoluzione del CC del Pcc in data 29 settembre 1986. Gradivo conoscere il
significato di detta risoluzione sia nei contenuti oggettivi sia nei suoi
riflessi politici.
La risposta entra immediatamente nel merito.
"Si ritiene - afferma Hu Yaobang - che la
civiltà spirituale socialista sia un aspetto fondamentale del nuovo corso della
politica cinese cioè «Il socialismo dai colori cinesi». Questa scelta per la
Cina è irreversibile. Le tappe di questo processo passano dall'impegno per le
quattro modernizzazioni a quello della democrazia economica ed alla riforma
politica. Si sono già ottenuti notevoli risultati a conferma della validità
della scelta. Occorre procedere su questa strada che è continuamente da
verificare proprio nei suoi obiettivi. Non basta perseguire il progresso
economico, riempire lo stomaco delle persone o dare loro il televisore a colori.
Occorre formare la gente e realizzare i valori della giustizia, della
solidarietà, dell'etica e dell'umanesimo socialista.
Questo impegno per la realizzazione della civiltà spirituale
socialista è di grande aiuto per evitare gli errori dei modelli storicamente
realizzati nel mondo: quello del capitalismo e quello del socialismo reale. Non
sarà un impegno facile e breve; per questo è stato mobilitato tutto il
partito".
Faccio presente la difficoltà del mondo occidentale a capire
come una politica dichiaratamente materialista, come quella del Pcc, che fa del
materialismo storico uno dei principi base del proprio modello formativo e di
sviluppo ricorra, con una sottolineatura tanto forte da renderla oggetto di una
specifica risoluzione del Cc del Pcc, ad espressioni ed ancor più a concetti
come "spiritualità - etica - umanesimo, ecc.".
La risposta è stata esplicita:
"Noi ci preoccupiamo molto dei contenuti e meno delle
etichette. Siamo preoccupati di alcuni aspetti che ritardano il nostro cammino.
L'impegno per la realizzazione della civiltà socialista fa parte della nostra
strategia in modo organico".
Chiedo se non è stata sufficiente la rivoluzione,
l'esperienza della lunga marcia per realizzare questi valori.
"No, è un processo continuo. Vogliamo che sia elevato
anche il livello morale del paese. Le ricchezze non bastano. L'obiettivo è
quello di fare della Cina un grande paese socialista con alta democrazia".
Riferisco a Hu Yaobang che sull'esigenza di realizzare i
valori di un vero "Umanesimo" anche la forza politica a cui faccio
riferimento, la Democrazia Cristiana, si trova impegnata nel contesto del mondo
occidentale. Anche in Europa sono forti i pericoli del consumismo, della
soddisfazione individuale a scapito dei valori più universali.
Si conviene sulla positività dei rispettivi impegni, pur
inseriti in un contesto storico diverso, ma ugualmente indirizzati verso
obiettivi di "umanesimo" che hanno molte caratteristiche comuni.
Da qui la positività di un rapporto più intenso nella
ricerca di politiche capaci di meglio raggiungere il risultato che rimane, per
l'umanesimo socialista perseguito in Cina e per l'umanesimo cristiano, quello di
costruire, forse, una terza via diversa da quella del modello capitalista e del
socialismo reale.
È questa la grande sfida che ci presenta il nuovo millennio
della storia dell'umanità.
Parliamo poi di politica estera, di unità dell'Europa. La
Cina continua nella propria linea di politica estera tesa a garantire la pace
nel mondo.
Per questo obiettivo occorre arrivare al superamento della
posizione egemonica delle due superpotenze USA-URSS.
La Cina prende atto delle dichiarazioni fatte dal Segretario
del Pc Sovietico Gorbaciov a Vladivostok ma aspetta che a queste dichiarazioni
seguano fatti concreti. "La politica si realizza coi fatti - afferma
Hu Yaobang - e fra questi fatti mettiamo certamente il ritiro delle truppe
sovietiche dall'Afghanistan".
Una funzione importante per il mantenimento della pace nel
mondo la può esercitare l'Europa per la sua civiltà, la sua tradizione ma
anche per la sua forza sul piano scientifico, tecnologico e per la sua posizione
strategica verso le due superpotenze ma anche verso il continente africano.
Chiedo il suo parere sui problemi del disarmo e sulle
preoccupazioni dell'Europa se il processo dovesse riguardare solo l'armamento
nucleare. L'opzione zero sul piano nucleare metterebbe l'Europa in posizione di
grave inferiorità rispetto all'Urss.
Hu Yaobang ritiene che il problema di base sia quello
dell'unità dell'Europa: "L'Europa unita ha nelle proprie mani il proprio
destino. La Cina sostiene che il disarmo debba essere totale cioè nucleare e
convenzionale. Un disarmo zoppo non risolve il problema. Queste tesi noi le
sosteniamo sia con i giovani sia con i partiti dei vari paesi. Le abbiamo
sostenute anche con il Pci sempre rispettando la specifica autonomia sulla base
del principio, per noi fondamentale, della non interferenza negli affari interni
di ogni partito".
Conclusi il colloquio con un ritorno ai problemi politici.
"Nell'illustrare il documento «Civiltà spirituale
socialista», lei usa, spesso, i termini Etica socialista - Umanesimo
socialista. Da ciascuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi
bisogni. Democrazia economica, democrazia politica. Ma questo - dico con
forza - non è più marxismo. Noi in occidente la chiamiamo democrazia
sostanziale e per chi crede in valori spirituali questo è umanesimo
cristiano".
La risposta fu: "Sì, sì, ma è sempre questione di
termini e a noi, invece, importa la sostanza!"
JIANG ZEMIN - SEGRETARIO GENERALE DEL PCC, PRESIDENTE DELLA RPC
Nel corso di una permanenza in Cina volta all'incontro e alla
conoscenza dei nuovi dirigenti cinesi, impegnati nella realtà delle città,
delle università, delle fabbriche incontrai, fra l'altro, i sindaci di Pechino,
di Tianjin, di Shanghai, di Nanchino, di Canton (dicembre 1986).
Mi ha colpito il Sindaco di Tianjin, Li Ruihuan, formatosi
alla scuola del lavoro (come operaio edile) e poi a quella di sindaco di una
città che ha dovuto affrontare la fase di ricostruzione dalla quasi completa
distruzione causata da un terribile terremoto. Ora l'ex Sindaco di Tianjin è
membro dell'ufficio politico del CC del Partito.
Ricordo in particolare Jiang Zemin, Sindaco di Shanghai, uomo
della generazione dei cinquantenni, laurea in ingegneria elettronica
all'Università di Mosca, per diversi anni dirigente di fabbrica e poi del
Ministero della pianificazione, con notevoli contatti col mondo internazionale.
È lui che guida una delle prime commissioni cinesi in Giappone. È un
poliglotta.
Volto aperto, pronto alla risata fragorosa, non guarda troppo
le forme cercando di andare al cuore dei problemi.
Era ancora in corso la "primavera cinese", una
specie di surriscaldamento dell'intero sistema del paese che poi sfociò nei
fatti di Piazza Tian’anmen. In agitazione gli studenti, manifestazioni degli
operai, critiche degli intellettuali.
Perché queste agitazioni, queste critiche, questa primavera?
Due le spiegazioni emergenti e, come spesso, tra loro
contrastanti. Da destra, dalle forze conservatrici si teme che la nuova politica
delle riforme riporti al disordine, al caos della rivoluzione culturale.
Da sinistra, cioè dagli ambienti progressisti e riformatori
vicini allo stesso Deng Xiaoping, si sostiene che il corso delle riforme sia
troppo lento e scarsamente incisivo.
Gli striscioni degli studenti erano tutti nel senso di una
accelerazione del processo di riforma con riferimenti espliciti al vecchio
leader: "Deng, dove sei? Fatti vedere!"
Le richieste degli studenti cinesi, mi dice il Sindaco Jiang
Zemin, sono tutte nel senso delle riforme: "Più rapide riforme
democratiche, maggior libertà di stampa, riconoscimento del carattere
democratico della protesta, garanzie per i giovani, miglioramento
dell'università".
Il giudizio di Jiang Zemin è esplicito e sereno: "Sì,
bene le riforme, ma il vero problema sta nella scelta della velocità di marcia
con cui si decide di andare su questa strada. È del tutto naturale che i
giovani siano i primi ed anche i più decisi a cavalcare il nuovo, tanto più se
questo nuovo va nel senso della maggior liberalizzazione. Questo vale per i
giovani della Cina, dell'Europa, dell'America e speriamo presto della stessa
Urss. I germi di riforma, di democrazia, di libertà sono di per sé diffusivi e
lo stesso Deng Xiaoping ne ha seminati molti di questi germi. Si tratta, come
sempre di coordinarli, incanalarsi verso gli obiettivi desiderati perché non
sempre la strada segue il corso lineare in modo spontaneo. Occorre intervenire
senza stroncare!"
Ed ancora con un certo orgoglio: "Gli obiettivi non sono
più la bicicletta, l'orologio, la macchina da cucire, simboli della prima
società, ma il televisore a colori, il frigorifero, la lavatrice, la casa
propria. Tutti simboli della società avanzata. Questa è la nuova Cina! Non si
cambia una strada, quella della democrazia economica, che ha dato risultati
concreti per una incerta che ci riporta al vecchio!"
Un altro incontro con Jiang Zemin lo ebbi nel settembre del
1992 a Pechino poco prima dell'apertura del Congresso del Pcc.
Non era più Sindaco di Shanghai ma occupava la carica di
Segretario del Pcc. L'incontro avvenne proprio nel cuore del potere della nuova
Cina, lo stesso luogo in cui incontrai l'altro Segretario Hu Yaobang.
Rispondendo ad una mia domanda piuttosto pungente: "In
Europa sono crollati i muri che dividevano l'Ovest dall'Est. È crollata l'Urss
e con essa il marxismo. Come sarà, secondo gli amici cinesi che si definiscono
ancora marxisti, la società futura?"
La risposta è molto chiara e globale: "In Cina si dice
che ci si conosce solo dopo la terza volta, e questo è proprio il caso nostro:
parlerò quindi con la franchezza di un amico ed esprimerò opinioni anche
differenti dalle sue. So che lei è cattolico mentre io sono ateo, ma la mia
esperienza a riunioni internazionali mi ha insegnato il rispetto e la tolleranza
per le opinioni differenti dalle mie. In diverse occasioni, in convegni di
scienziati, per esempio, mi è successo di vedere che alcuni di essi andavano in
chiesa e si inginocchiavano.
Nella nostra Costituzione è sancito il rispetto per la
diversità di opinioni e di credenze.
La nuova situazione, il crollo dell'Urss e dei paesi del
blocco dell'Europa orientale ha portato al superamento del contrasto tra Urss e
Usa. In Urss è crollato il socialismo, ma questo non significa che il marxismo
è sbagliato: si tratta di due cose tra loro differenti.
Nel lungo fiume della storia, l'Europa ha impiegato 300 anni
per fare la rivoluzione borghese eppure esistono ancora oggi elementi di
feudalesimo. È il caso dell'Inghilterra dove c'è ancora la Regina che viene
chiamata addirittura Sua Maestà. Un altro esempio può essere rappresentato dal
ruolo e dalla figura dell'Imperatore del Giappone.
L'esperienza della rivoluzione socialista conta solo 70 anni
e dunque il periodo trascorso è breve.
Il socialismo è caduto nei paesi dell'Est perché ha
incontrato difficoltà e nella stessa Urss perché hanno applicato un dirigismo
economico troppo radicale. Possiamo dire che questo metodo non va bene. La Cina,
infatti, deve seguire il socialismo dai colori cinesi. E qual è questo colore?
Quello che risulta dalla combinazione dei principi del marxismo con la realtà
cinese. Subito dopo il 1949 non avevamo altre vie alternative e abbiamo scelto
il modello sovietico di dirigismo economico centralizzato, e che si è rivelato
sbagliato.
Adesso dall'Occidente, lo ammetto, dobbiamo imparare non solo
per quanto riguarda le scienze naturali e la tecnica, ma anche gli aspetti
culturali e di gestione. Negli ultimi anni abbiamo applicato le riforme e
abbiamo conosciuto l'economia di mercato.
Quando io ero capofabbrica, l'80% delle materie prime erano
fornite dallo Stato, mentre adesso è possibile approvvigionarsi sul mercato.
Noi combiniamo diversi tipi di economia, quella statale,
quella collettiva, quella individuale e quella privata. Ci sono inoltre le
imprese miste.
Non c'è alcun problema se una parte della popolazione
diventa ricca, ma dobbiamo fare in modo che le differenze non siano troppo
grandi, un problema di giustizia. Nei cambiamenti dei sistemi economici ci vuole
molto tempo. Deng Xiaoping ha parlato di 100 anni ancora.
Ho incontrato molti dirigenti politici occidentali di paesi
americani, inglesi, francesi, tedeschi ed italiani, ma tutti quando parlavano
avevano in mente un solo modello, il loro modello, quello capitalista e
naturalmente non sono d'accordo con questa impostazione.
Il sistema sociale di ogni paese deve essere deciso dal
popolo stesso e questa indipendenza si riflette, in politica estera, nel
rispetto dei cinque principi della coesistenza pacifica, il più importante dei
quali è il rispetto della non ingerenza negli affari interni di un paese.
Non vogliamo imporre il nostro sistema a nessuno, ma non
vogliamo imposizioni da alcuno.
Si parla spesso di giustizia, libertà, diritti civili. Io ho
partecipato alla rivoluzione a partire dagli anni quaranta quando ero a Shanghai
e con altri protestavamo per la democrazia. C'erano alcuni americani di stanza
nella città e mi è capitato di chiedere loro perché non appoggiassero le
nostre richieste di democrazia piuttosto che la dittatura di Jiang Jieshi.
Leggo molto le pubblicazioni straniere e so ad esempio che in
Usa non hanno risolto il problema razziale: i recenti disordini di Los Angeles
ne sono una prova.
È importante che la democrazia sia combinata con la storia e
con la tradizione culturale di un paese.
Molti amici stranieri si lamentano perché abbiamo fatto le
riforme economiche ma non quelle politiche, ma quando ho chiesto quale era il
punto finale, l'obiettivo di queste riforme politiche mi è stato risposto nel
solito modo: il capitalismo.
Ho ricevuto parlamentari Usa che criticavano il
monopartitismo cinese, ma in Cina esistono otto partiti, i cui leaders io
incontro ogni mese per consultazione".
"Ma alla fine chi comanda, sempre il Pcc?"
Jiang Zemin: "Certo che alla fine decide il Pcc perché
noi adottiamo il sistema della collaborazione di diversi partiti sotto la
direzione del Pcc. Il Pcc dirige non tanto perché lo ha deciso qualcuno, ma
perché è il frutto della rivoluzione di lungo periodo e del consenso del
popolo cinese".
"Ma in Urss comandava il Pcus che ha poi
sbagliato...".
Jiang Zemin: "Hanno sbagliato e sono affari loro.
Nonostante i loro sbagli, il sistema socialista non è completamente crollato.
Dobbiamo essere lungimiranti: ride bene chi ride ultimo. Prendiamo per esempio
le due Germanie. Ho incontrato Kohl e so che nella DDR adesso ci sono problemi
molto gravi. Parliamoci chiaro: il problema è che gli Usa vogliono comandare in
tutto il mondo. Perché non si interessano solo dei loro affari?
Con i dirigenti stranieri ripeto che dobbiamo coesistere pacificamente e che
nessun paese straniero può imporre un sistema al popolo cinese.
Vogliamo un'atmosfera internazionale pacifica e, quindi, ci
opponiamo ad ogni tipo di egemonismo. Oggi la Cina è un paese arretrato, ma
anche quando sarà un paese economicamente sviluppato, non sarà egemonista.
La stabilità della Cina ha un ruolo molto importante
nell'Asia e nel mondo.
Il primo diritto civile è quello di poter esistere, di
vivere! Ecco: la Cina pur avendo solo il 6% delle terre coltivabili del mondo
riesce a dar da mangiare, a far vivere, più del 20% della umanità. Se
facessero così l'Europa, l'America, l'Africa, la ex Urss, non solo avremmo
annullato la fame dal mondo ma creato condizioni di benessere. Non è questo il
rispetto del più importante diritto civile?
Noi in Cina abbiamo 1 miliardo e 100-200 milioni di
persone. Vivono in Cina, stanno qui tutti sulla nostra terra. Voi nell'Europa
avete il problema dei profughi: Albania, Germania, Turchia, Africa. Cercate di
difendervi. Noi, i cinesi li teniamo qui in casa nostra. Voi ci criticate
perché affermate che non rispettiamo i diritti civili. Che fare?
Ho detto una volta al Presidente Carter ed anche al
Presidente Andreotti che sostenevano democrazia, libertà e diritti civili.
Volete 1, 100, 100.000 cinesi? Sono bravi lavoratori. Ve li possiamo mandare. Lo
dico anche a lei.
Un antico detto cinese dice che chi gioca col fuoco prima o
poi si scotta e chi prende un sasso prima o poi gli cade sui piedi.
Sono una persona modesta. Ho studiato le dottrine capitaliste
e socialiste. Ho letto Goethe, Stendhal, Balzac. Ho assimilato la cultura
occidentale e conosco il quadro di Monna Lisa.
Ho visitato diversi paesi, l'Italia, Roma e Venezia. Mi piace
la cultura e la cucina italiana e sono amico del Presidente della Fiat.
È importante pensare anche agli altri: ma non si può
imporre il proprio modo di pensare. Faccio un esempio: quando ero capofabbrica
occorreva alimentare un motore e cinque gruppi di operai hanno proposto cinque
diversi modi di connettere l'energia elettrica.
Questa è una legge che vale anche nelle scienze sociali. Non
esiste un solo modello.
Ci sarà prossimamente il congresso e in questi giorni la
stampa americana, di Hong Kong e di Taiwan ha scritto cose non vere, per esempio
mi è capitato di leggere che ci sarebbe stato un rinvio a causa di divergenze e
questo non è vero.
Ci sono persone che vogliono disordine nel mondo e proprio
per questo c'è mancanza di tranquillità.
Se uno vuole realizzare democrazia e cultura borghese, lo
può fare, ma nel suo paese. Noi scegliamo il socialismo dai colori cinesi.
Lei ha incontrato Zhou Enlai, Deng Xiaoping e ha parlato con
me; questo ha contribuito allo sviluppo dell'amicizia tra i due popoli.
Anche il Presidente Andreotti ha avuto il coraggio di rompere
le sanzioni contro di noi e per questo la prego di trasmettere i miei saluti e
ringraziamenti.
Attualmente lo sviluppo della scienza e tecnologia è molto
veloce. Quando ero studente c'erano le centrali idrauliche e quelle a vento, ma
non c'erano quelle atomiche. All'inizio degli anni 60 ho fatto il direttore di
un Istituto di ricerca atomica e ho letto molta documentazione. Le materie che
servono in questo campo sono scarse e una volta realizzata la fusione si
potrebbe avere energia anche utilizzando l'acqua del mare.
Anche se adesso sono il Segretario Generale, leggo molti
libri. So che all'inizio del secolo era molto importante la teoria della massa.
Anche la matematica è molto cambiata. Peccato che sono Segretario Generale del
Pcc ed ho poco tempo per continuare in questi studi".
"Torniamo alla politica. Ci saranno novità al
Congresso?"
Jiang Zemin: "No. Approfondiremo e metteremo in pratica
la politica di riforma iniziata da Deng. Per il futuro vogliamo più economia di
mercato e vogliamo liberarci completamente del modello sovietico. Probabilmente
cambieremo le funzioni di alcuni organismi statali dal momento che il paese non
può essere gestito in modo dirigistico. Daremo, inoltre, più autonomia alle
imprese".
"Possiamo parlare di una terza via, né capitalista né
socialista?"
Jiang Zemin: "Si tratta del socialismo dai colori
cinesi. Dobbiamo imparare molto dall'estero. Per esempio, il socialismo ha il
suo mercato. Il piano ed il mercato sono due modi di funzionamento dell'economia
che non servono a distinguere il socialismo dal capitalismo.
Ho visitato molti paesi e molte fabbriche straniere. Da noi
occorre che non si creino differenze di reddito troppo grandi. Adesso vogliamo
sperimentare l'introduzione del sistema di azioni ai dipendenti ed ai cittadini,
ma con cautela.
Una cosa essenziale del socialismo è che si basa sulla
coesistenza tra proprietà pubblica e gli altri tipi di proprietà.
Prima di venire, in macchina, ho sentito una dichiarazione
del responsabile del commercio di Pechino che diceva che anni fa le difficoltà
principali erano nell'approvvigionamento dei beni, adesso, invece, è proprio
nella vendita. I negozi sono pieni, non solo qui a Pechino, ma anche a Dunhuang,
dove sono stato recentemente. Questa è la nostra strada".
"Ci sono novità tra Cina e Vaticano?"
Jiang Zemin: "Noi abbiamo una religione indipendente.
Rispettiamo il credo religioso, ma non permettiamo che si usi per interferire
negli affari interni.
Ma sulla questione lei è più informato di me.
Un giorno, nel 1978, ero davanti al Vaticano è qualcuno mi
ha detto che dopo una certa linea cominciava lo stato del Vaticano. È stato un
peccato non essere potuto andare. Oggi io avrei superato quella linea perché
nella vita è necessario conoscere bene tutto.
Il problema è sempre quello: rompere con Taiwan e la non
interferenza".
"Ma dopo il riconoscimento di Israele ritenete di
affrontare anche il tema dei rapporti con il Vaticano?"
Jiang Zemin: "Lei conosce la politica cinese che è di
apertura con tutti i paesi del mondo e quindi anche col Vaticano".
"Posso far conoscere queste dichiarazioni ai
responsabili del Vaticano?"
Jiang Zemin: "Sì, sì. Lei conosce il problema. Noi
siamo disponibili".
ZHOU RONGJI - IL "GORBACEV CINESE"
È il personaggio più interessante del nuovo corso cinese.
La definizione di "Gorbacev cinese" è della stampa americana in
occasione di una visita di Zhou Rongji in Usa alla guida di un gruppo di sindaci
di grandi città cinesi.
Zhou Rongji mi ha detto, in confidenza, che quella
definizione non era da lui troppo gradita perché alla fine, Gorbacev è stato
un perdente, e lui questa fine proprio non la vorrebbe fare.
Il primo incontro avvenne a Shanghai dove Zhou Rongji si era
insediato nella carica di Sindaco succedendo a Jiang Zemin nominato Segretario
del Pcc.
La conversazione è affabile sul piano dei rapporti ma più
concisa su quello dei contenuti. Zhou Rongji è un uomo moderno, elegante nel
vestito, stile occidentale, presenta tratti da "manager" abituato alle
grandi decisioni e al comando.
Mi parla dello sviluppo di Shanghai, una città che rischia
di scoppiare o di morire di soffocamento, bisognosa di aperture verso schemi non
più di città ma di area metropolitana, inventando nuovi rapporti di
partecipazione all'interno ma anche tra la città e la campagna che la circonda.
Insiste sul problema del traffico e quindi dei lavori per la costruzione di
linee metropolitane, al grave problema dell'inquinamento ecologico che rischia
di rendere Shanghai una città invivibile.
Il problema di fondo però resta il "domani di
Shanghai". Da città industriale, e l'analogia con Milano si fa stringente,
dovrà diventare una città, la città del terziario avanzato, il punto di
riferimento dell'Asia intera sulla costa del Pacifico.
"Concorrenza ad Hong Kong?" gli chiedo. "No,
no! In concorrenza ma costituendo un sistema integrato".
In questa ottica si pone il progetto della nuova zona di
Pudong, la nuova area di sviluppo già in fase di avanzata realizzazione.
Numerosi sono gli investimenti stranieri, anche l'Italia è presente.
Shanghai oltre ad essere la capitale industriale e finanziaria della Cina è
anche un punto nevralgico della situazione politica della Cina. Abbiamo discusso
di come Shanghai ha vissuto le giornate della "insurrezione di Piazza Tian’anmen".
Anche qui manifestazioni, tumulti nelle università, nelle
fabbriche, nelle strade della città. Il mondo dei giovani che reclamano il
cambiamento.
Occorre dare atto a Zhou Rongji della sua vera statura di
leader. Fu lui ad affrontare questa situazione esplosiva nella città con
incontri coi vari esponenti in particolare col colloquio diretto con la gente
nei quartieri, coi lavoratori nelle fabbriche e con gli appelli alla TV
Gli argomenti di fondo usati, mi dice Zhou Rongji, sono stati
questi: "Sì, le ragioni per un cambiamento ci sono, sono reali. È la
strada già scelta proprio con la politica del socialismo dai colori cinesi e di
cui si constatano i primi frutti molto positivi.
La strada va continuata e la si continua non con i tumulti,
distruzioni, con la rivoluzione ma con un maggior impegno di tutti nel lavoro,
nello studio, nella vita. E Shanghai deve dimostrare di essere in prima fila.
Positivo e forse determinante è stato il richiamo alla vera
tragedia della rivoluzione culturale voluta dalla banda dei quattro che proprio
in Shanghai ha avuto il vero epicentro. E alla fine prevalse il buon senso.
Tutto sommato non sono stato io a convincere gli studenti a tornare a studiare
all'Università, nemmeno i poliziotti ed i soldati ma sono stati gli stessi
operai delle fabbriche di Shanghai a farlo e lo hanno fatto in modo estremamente
valido usando i mezzi del ragionamento ma anche qualche volta quelli più
convincenti dell'esperienza, della maturità, della responsabilità".
E così a Shanghai tornò la pace e la città riprese il
proprio concreto sviluppo.
Ritengo che il comportamento di Shanghai influì in modo
determinante sulle altre città cinesi e sull'intero paese.
Con questo esito la figura di Zhou Rongji si impose sempre
più all'attenzione ed acquistò forza e prestigio nel gruppo dei dirigenti
responsabili del Paese.
Incontrai nuovamente Zhou Rongji a Milano. Era in giro per
l'Europa a visitare, le più importanti città metropolitane.
Tra le varie realizzazioni volle vedere un ospedale. Lo
accompagnai all'Istituto S. Raffaele, uno dei complessi più qualificati della
città. Erano già le 19 ma la visita fu minuziosa e si protrasse fino oltre le
21. Nel saluto finale Zhou Rongji si complimentò: "Ho visto un ottimo
ospedale, tanto valido che chiedo di poterne realizzare uno simile a Shanghai.
È possibile? Incominciamo le trattative?".
Feci presente all'amico Zhou Rongji che la proprietà e la
dirigenza dell'Istituto S. Raffaele era di una congregazione religiosa cattolica
ed il Presidente (Don Verzé) era un prete cattolico.
La risposta fu: "Prendo atto di questo che non mi arreca
alcuna difficoltà. Io ho bisogno di un ospedale funzionante come questo. Faccio
i complimenti a chi lo ha realizzato, chiunque sia, e chiedo un aiuto in questa
direzione. Rinnovo i complimenti a Don Verzé ed ai suoi collaboratori".
Facemmo un brindisi caloroso anche perché il telegiornale
aveva dato la notizia da Pechino che il Sindaco di Shanghai, Zhou Rongji, era
stato nominato Vice Primo Ministro del Governo nazionale.
Zhou abbozzò un sorriso di soddisfazione.
Sembrava chiedesse solidarietà, comprensione, certo tanta
amicizia.
Ci salutammo con un arrivederci in Cina con la variante: non
più a Shanghai ma a Pechino.
L'amico Zhou Rongji è un leader. Di lui la storia della Cina, ma anche
quella del mondo, tornerà ancora a parlare.
MONDO CINESE N. 092, MAGGIO-AGOSTO
1996